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Una paura da matti: scienziati climatologi rischiano il proprio posto di lavoro e la reclusione per salvare un pianeta che sta morendo

Diversi sono gli scienziati che, a causa del livello di disperazione raggiunto, si sono impegnati in forme di disobbedienza civile e in terapie specialistiche per affrontare la loro crescente ansia di fronte al riscaldamento globale.”

<<Avevo una paura da matti… ricordo bene quanto mi sentissi nervoso ed agitato.>>

Era il 6 Aprile 2022 quando Peter Kalmus, scienziato climatologo in servizio presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA si avviò verso il centro città di Los Angeles, per dirigersi verso il sito ove si sarebbe ammanettato alle porte della JPMorgan Chase Bank, assieme a tre suoi colleghi ricercatori.

<<C’è stato un momento – racconta Kalmus a proposito della sua scelta di fare disobbedienza civile – in cui ho compreso che dovevo fare questo passo e trovare il coraggio necessario>>.

In quella occasione si è unito a più di 1000 altri attivisti scesi in strada in quasi 30 Nazioni sparse in tutto il mondo guidati dallo slogan <<1,5°C in più è morte. Rivoluzione climatica ora!>>, una campagna guidata dall’Associazione <<Ribellione scientifica>>, un gruppo attivista di scienziati, accademici e studenti impegnati in forme di azione di disturbo nonviolenta per innalzare il livello d’allarme di fronte all’emergenza climatica globale.

<<Temevo molto – ricorda Kalmus nel corso di una conversazione – il modo in cui avrebbero risposto i suoi colleghi, la polizia e, soprattutto, il suo datore di lavoro. Ritenevo che ci fossero buone probabilità che io venissi licenziato>>.

Ma a quel punto Peter aveva provato ogni altra via alternativa di protesta. Per questo scienziato l’opzione della disobbedienza civile è stata perseguita dopo decenni spesi in vari tentativi per aumentare il livello di consapevolezza pubblica sull’emergenza climatica, con ogni mezzo gli fosse stato possibile. Nonostante ciò, non potè che notare come una buona metà della sua intera Nazione avesse un atteggiamento assolutamente negazionista circa la natura e l’entità del problema; non sapeva proprio che altro fare. Quello della disobbedienza civile è stato l’ulteriore passo logico che poteva intraprendere, e che ammette essere stato anche il più efficace.

Nel corso di un messaggio che Peter ha pronunciato quel fatidico giorno di protesta, destinato a diventare a breve virale in internet, c’è un momento in cui viene sopraffatto dall’emozione e si rivolge quasi in lacrime a tutti gli ascoltatori dicendo: <<In estrema sintesi, mi trovo qui a protestare perché gli scienziati continuano a non essere ascoltati. Voglio prendermi grandi rischi personali per salvare questo magnifico pianeta, e per i miei figli>> Il timbro della sua voce si rende sensibilmente tremante mentre prosegue con queste parole: <<Ho cercato di avvisarvi tutti per decenni, e adesso ci stiamo dirigendo verso una maledetta catastrofe.>>

Dopo un confronto con la polizia e un periodo di otto ore trascorso in cella, Kalmus venne imputato di infrazione di condotte consentite, ma successivamente queste stesse accuse furono ritirate. Quella prima protesta e il conseguente arresto furono una valvola di sfogo che lo rese addirittura euforico e lo liberarono di gran parte dell’ansia, ma portarono anche ad un mese di indagini condotte dal comitato della NASA responsabile su questioni etiche e sulle risorse umane interne. A causa del conseguente stress subito, Kalmus andò incontro ad una riacutizzazione della sua patologia diverticolare. Per tutto questo periodo di inchiesta Peter si sentì costantemente sotto la famosa spada di Damocle, anche se il risultato delle indagini furono a suo favore (Kalmut è ancora in servizio alla NASA e ha rilasciato la sua intervista ad Al Jazeera in qualità di privato cittadino), ha sempre pensato che l’Agenzia presso la quale era impiegato facesse un errore a non sostenere il suo attivismo, perché, per dirla con le sue stesse parole: <<gli attivisti climatici sono indubbiamente schierati dalla parte giusta della storia>>.

Tira oggi, tira domani, alla fine l’elastico si rompe.

Quando gli scienziati decidono di parlare apertamente del cambiamento climatico, i potenziali impatti su lavoro, salute e reputazione professionale sono tutt’altro che trascurabili, soprattutto quanto le emozioni suscitate raggiungono un’elevata intensità. Dopotutto, la formazione rivolta agli scienziati li educa ad essere ricercatori imparziali e a trascurare le emozioni e gli stati d’animo che i dati raccolti e analizzati possono suscitare.

Rose Abramoff, una scienziata collega di Kalmut, è stata licenziata dal Laboratorio Nazionale di “Oak Ridge” nel Tennessee, presso il quale lavorava, dopo che assieme a Peter aveva srotolato uno striscione nel quale si faceva appello agli scienziati perché uscissero dai loro laboratori e andassero in strada a protestare durante una riunione del Sindacato degli Geofisici Americani (“American Geophysical Union”) tenutosi nel Dicembre del 2022.

Dopo questo episodio, Rose Abramoff ha ottenuto un assegno di ricerca presso il Ronin Institute e sta completando un periodo di specializzazione presso il Sitka Center of Art and Ecology nell’Oregon; è vivace e di un buonumore contagioso; con la risata facile.

Secondo questa ricercatrice, la strada verso l’azione è stata intrapresa (da molti) per effetto di una sorta di “catalizzatore emotivo” rappresentato dalle catastrofi ambientali recenti, incluse le aree di foreste degli Stati Uniti Occidentali decimate da parassiti infestanti, eccezionalmente proliferati a causa del riscaldamento climatico, ad altre zone di superfici terrestre soggette ad una drammatica subsidenza a causa della fusione del permafrost. <<È davvero deprimente, ti prende fino alle viscere l’assistere a queste alterazioni, e sentire che stanno accadendo sotto i tuoi stessi piedi - afferma in diretta dall’Oregon – mi è parso che questi eventi fossero ciascuno come una piccola corda elastica che si rompesse.>>

L’ultimo di questi episodi di rottura si è verificato nel 2019, quando la Abramoff ha preso parte al Comitato di Scienziati che hanno elaborato i dati del Sesto Rapporto di Accertamento (“Sixth Assessment Report”), pubblicato dal Comitato Intergovernativo dele Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (“IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change”). Le conclusioni dell’analisi fatta hanno messo in luce il fatto che, sebbene l’obiettivo di limitare il riscaldamento medio globale a +1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale (Accordo di Parigi del 2015) si stia allontanando sempre di più dalla nostra portata, alcuni dei cambiamenti irreversibili possono ancora essere limitati attraverso misure rapide, sistemiche e continuative per la riduzione delle emissioni climalteranti.

La Abramoff ricorda di essere rimasta profondamente colpita dall’analisi di quei dati: <<Ricordo di aver quasi percepito l’enormità di interi fenomeni dell’ecosistema terrestre e di come fossero tangibilmente interessati dal cambiamento climatico, oltre alla comprensione di quanto poco tempo avessimo a disposizione per evitare effetti ancora più catastrofici.>>

Al tempo della pubblicazione di quel Rapporto, Rose stava ultimando il suo periodo di ricerca post-dottorato in Francia e, come è comprensibile, si sentì emotivamente sopraffatta della gravità dell’impatto dei cambiamenti climatici e delle sofferenze umane da essi indotte. Così, inziò la sua collaborazione volontaria all’interno del Movimento “Extintion Rebellion”, nel quale iniziò a supervisionare e a correggere le bozze dei documenti e comunicati ufficiali. Una volta fatto ritorno negli Stati Uniti, Rose ha ripreso la sua posizione lavorativa ad Oak Ridge, con la risolutezza di arrivare a rischiare l’arresto, cosa che si verificò in occasione della sua partecipazione alla manifestazione di protesta globale organizzata da “Scientists Rebellion” il 6 Aprile a Washington DC.

Ricorda di non essere letteralmente risuscita a dormire la notte precedente la manifestazione. Ad ogni modo, non era tanto preoccupata di finire in una stanza di sicurezza della centrale di Polizia, quanto di non riuscire a raggiungere il sito ove si sarebbe incatenata assieme ad altre quattro donne: un punto della cancellata di accesso alla Casa Bianca; ma alla fine è riuscita nell’intento, come racconta.

Rose Abramoff ha continuato nelle sue manifestazioni di protesta, finendo per essere arrestata altre sei volte, l’ultima della quale per essersi incatenata al “Mountain Valley Pipeline”, un grande impianto di condutture per idrocarburi, la cui approvazione è stata ufficialmente sottoscritta l’anno scorso (2023, ndr) dal Presidente Biden. Il gasdotto in questione è un impianto dal costo di 6,6 miliardi di dollari, capaci di una portata di 56.6 milioni di metri cubi di gas naturale al giorno, e che transita nella Virginia Occidentale. Si stima che arrivi ad emettere 89 milioni di tonnellate di gas-serra all’anno.

In un articolo di commento che scrisse per il New York Times poco tempo dopo aver terminato la sua ricerca ad Oak Ridge, la Abramoff argomenta sul fatto che il comportarsi da “bravi e responsabili scienziati” non sortisce praticamente effetti postivi tangibili. <<Sosterrò sempre la necessità di esprimersi e agire con correttezza e rispetto, ma non quando ciò significa perdere la Terra (nelle condizioni in cui può sostenerci)>> - scrive nell’articolo la stessa Rose.

Il tema dell’eco-ansia.

Peter Kalmus e Rose Abramoff fanno parte di un gruppo in rapido accrescimento di cittadini del mondo che si sentono esasperati dalla mancanza di preoccupazione circa l’emergenza climatica in corso. Secondo l’Associazione Psicologica Americana, che nel 2017 è pervenuta alla definizione di eco-ansia nei termini di una <<paura cronica di un destino ambientale infausto>>, più della metà della popolazione adulta statunitense ritiene che il cambiamento climatico rappresenti la minaccia più grave che l’umanità si trovi ad affrontare.

Il cambiamento climatico e il vissuto d’ansia che è in grado di indurre possono gettare scompiglio nella mente umana in vari modi. Alcuni studi demografici hanno rilevato un’associazione tra l’innalzamento delle temperature e l’aumento di visite ai reparti di Pronto Soccorso, nonché con picchi nei tassi di suicidi. Lo stress associato alle alterazioni climatiche può alimentare un senso di disperazione e un’incapacità di immaginare soluzioni possibili, mentre da parte loro eventi atmosferici estremi possono attivare Disturbi da Stress Post-Traumatico (PTSD), una depressione, un senso di colpa nei sopravvissuti, abuso di sostanze, come anche altri disturbi psichici.

<<L’ansia che comunemente si può sperimentare nei confronti della morte è molto simile a quella relativa ai cambiamenti climatici - afferma Susie Burke, psicologa e professoressa associata a contratto presso l’Università del Queensland, parlando dalla sua casa a Castlemaine, in Australia – Molte delle tecniche che utilizziamo per aiutare i pazienti a gestire e far fronte alla realtà dell’inevitabilità della morte sono analoghe a quelle messe in atto per fare i conti con la prospettiva di un estinzione dovuta ai cambiamenti climatici.>>

La Burke è stata una dei primi professionisti della salute mentale a interessarsi alle implicazioni del cambiamento climatico sulla salute mentale, dedicandosi a questo settore di studi già da prima del cosiddetto “Sabato Nero” del 2009, passato alla storia per il suo picco di incendi boschivi che provocarono la morte di 173 persone nello Stato del Victoria, dove già Susie esercitava la sua pratica. Nel corso degli ultimi 10 anni, la dottoressa ha riscontrato uno spostamento significativo degli stati mentali sofferti in direzione dei lutti, delle perdite e dell’ansia associate ad eventi climatici.

Secondo quanto riportato dal New York Times, nel novero della “Climate Psychology Alliance of North America – Alleanza della Psicologia per il Clima del Nord America” si contano già quasi 300 psicoterapeuti consapevoli delle problematiche climatiche e delle loro implicazioni sulla salute mentale.

Il modello che la Dott.ssa Burke trova più efficace per aumentare le nostre capacità di gestire <<sentimenti molto dolorosi>> associati al cambiamento climatico è quello del cosiddetto “ACT – Acceptance and Commitment Therapy”, vale a dire “Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno”, un approccio fondato sull’aumento di una consapevolezza soggettiva non-giudicante (“mindfullness”) che incoraggia un preliminare riconoscimento e accettazione dei pensieri e delle emozioni da cui si è interessati prima di cercare di cambiarli in alcun modo.

Questo approccio nasce dalla constatazione del fatto che non possiamo fare nulla contro sentimenti che nascono naturalmente dalla consapevolezza di un certo destino imminente, contro sensazioni di terrore, panico, vergogna o il senso di colpa riferiti al cambiamento climatico. La parte del modello terapeutico in questione centrata sull’accettazione vuole insegnarci a <<diventare (più) bravi a notare e riconoscere con precisione una data sensazione o stato interiore e riuscire a localizzarli nel corpo; con ciò, si deve semplicemente concedere a tale stato d’animo la sua ragione di esistere, dedicargli il suo spazio adeguato>> spiega la Dott.ssa Burke. Una volta consolidata questa fase, il modello terapeutico prosegue incoraggiando una qualsiasi azione verso qualcosa di importante e significativo (in fatto di condizioni climatiche), <<mi riferisco a qualsiasi comportamento e atteggiamento che possiamo mettere in atto con le nostre gambe, le nostre braccia e le nostre parole e che sia in grado di condurci a vari livelli di realizzazione personale>>

Sulla base della propria esperienza personale <<le persone i cui impegni occupazionali si concentrano su problemi ambientali dimostrano livelli più alti di preoccupazione e di coinvolgimento personale. Queste persone sperimentano in generale un vissuto emotivo di profonda amarezza e tristezza - continua la Burke – Capita loro di leggere e rileggere più volte dati specifici di fronte ai quali non possono che domandarsi: come sarebbe?! Cosa sta succedendo?! Chiaramente, è facile aspettarsi che queste persone abbiano il sonno disturbato e accumulino una considerevole dose di stress>>

Lettere sulla perdita.

Un sentimento generale dai tratti appena descritti è quello che da tempo anche Joe Duggan, un divulgatore scientifico attivo presso la Australian National University, ha cercato di affrontare. Lo ha fatto a partire dal 2014, anno in cui ha chiesto a vari scienziati impegnati nelle questioni climatiche di inoltrare lettere scritte a mano nelle quali esprimessero apertamente le loro sensazioni relative allo status quo. Duggan ha iniziato la sua carriera scientifica come ricercatore marino, e ha deciso di cambiare l’oggetto delle sue ricerche proprio nel 2014, dopo aver constatato quanto fosse marcata la disconnessione tra percezione dell’emergenza climatica nella comunità scientifica da una parte, e nell’opinione pubblica dall’altra.

<<All’inizio, l’iniziativa che volevo diffondere era quella di far scendere in strada gli scienziati del clima ad allestire picchetti, di farli arrampicare sul Big Ben di Londra e srotolare un grande cartellone con messaggi di protesta: cose di questo tipo. Volevo rompere alcune regole convenzionali della comunicazione mass-mediatica per cercare di far arrivare meglio un certo messaggio>> - spiega lo stesso Duggan in una video-connessione dalla risoluzione un po’ sgranata, dal suo domicilio a Camberra. Parla con convinta determinazione, scusandosi di avere forse assunto un tono un po’ troppo infervorato.

<<Per una serie di ragioni, una chiamata alla disobbedienza civile non si prospettava essere una misura efficace in quei primi tempi. Per questo ho deciso piuttosto di lanciare una piattaforma digitale per scienziati che studiano il clima, in maniera che potessero condividere i loro pensieri in maniera da poterli mettere in connessione gli uni con gli altri.

Le dozzine di missive che sono state recapitate al sito internet “This is how you feel?” tracìmano di frustrazione, esasperazione, incredulità, depressione, rabbia, tristezza e colpa. <<Mi sento davvero persa>> - si legge nell’incipit di una lettera del 2020 di Sarah Perkins-Kirkpatrick, una climatologa dell’Università del New South Wales – <<ci sono giorni in cui sento di voler gridare a piena voce: fate qualcosa, qualsiasi cosa! ma le mie energie si stanno esaurendo>>.

In una delle sue prime lettere, Stefan Rahmstorf, direttore dell’Analisi del Sistema Terra presso l’Istituto di Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico, in Germania, descrive il riscaldamento globale come <<una sorta di incubo dal quale non riesce a svegliarsi; un incubo popolato di bambini che urlano in una fattoria di campagna andata a fuoco, mentre i Vigili del Fuoco si rifiutano di rispondere alla chiamata perché qualche pazzo continua a dir loro che si tratta di un falso allarme.>>

Dopo aver interrotto diverse volte il suo progetto di corrispondenze, visto che parlare di come la gente si sentisse preoccupata per il riscaldamento globale non era che una goccia nell’oceano di urgenti misure per un cambiamento radicale, Duggan racconta di essere tornato ad analizzare più in profondità quelle stesse lettere inviategli. In molte di esse si continuava a sottolineare l’importanza di ricavare maggiori spazi di sicurezza, e di fornire nuovi mezzi e risorse agli scienziati per continuare le loro ricerche sul clima e, forse, anche per sperare.

In uno studio del 2023 ispirato dalle sue ricerche precedenti, Douglas e il suo collega co-autore hanno concluso che <<la terapia di gruppo può rivelarsi essere una valvola di sfogo liberatoria dalle emozioni tanto sofferte così diffuse tra gli scienziati del clima.>>

Proprio in quest’ottica gruppi come la “Good Grief Network”, fondata nel 2016 da Laura Schmidt e sua moglie Aimee Lewis Reau, si sono proposti al pubblico interessato. Nello specifico, quello citato offre un programma ripartito in 10 passi dedicato appunto a chi si sente iper-coinvolto nei processi climatici e, di conseguenza, preoccupato oltre misura. L’approccio del programma consiste in uno schema di supporto tra pari che intende aiutare tutti coloro che si sentono affetti da eco-ansia e da dolore per le perdite (registrate) a riformulare concettualmente le situazioni avverse da loro vissute, e a riscoprire coma la presa di iniziativa a livello individuale e di gruppo aiuti molto a superare il senso di isolamento e solitudine, come anche la sensazione che a nessuno importi niente di questi problemi globali; perché alla fine, insiste la Schmidt, queste sono solo impressioni non corroborate dalla realtà su larga scala.

Inizialmente, l’idea era di avviare questo progetto conducendo gruppi terapeutici di attivisti che si trovavano in prima linea nel fronteggiamento e nella lotta al cambiamento climatico. Ciò nonostante, il primo incontro pilota tenutosi a Salt Lake City, nello Utah, attrasse prima un giornalista fotografico, poi anche un’insegnante, un giardiniere paesaggista, un fornitore di servizi di ristorazione, e un coadiutore nelle professioni Legali e del Diritto. <<Rimasi ben presto stupefatta nel verificare come il pubblico che si dimostrò interessato al nostro progetto di gruppi di supporto era più vasto e ben più diversificato del tipo di utenza cui avevamo inizialmente pensato di rivolgerlo.>> - racconta Laura Schmidt.

<<Credo che la mortificazione e il livello di disperazione che la gente può avvertire possano diventare paralizzanti>> – aggiunge la Abramoff. Per gestire questi stati d’animo, si riunisce di tanto in tanto con altri attivisti con i quali può sfogarsi in un luogo sicuro, lo stesso tipo di “circolo ove si esprimono condoglianze per lo stato del clima” cui Duggan e la Schmidt invitavano a partecipare. <<È una di quelle cose che abbiamo iniziato a fare per sentirci ascoltati e compresi da altre persone>> - continua a spiegare - <<Penso si tratti di uno strumento che…. possa davvero catalizzare gli intenti delle persone verso l’azione.>>

Un bel modo di vivere la vita.

Nonostante tutto, Kalmus afferma di sentirsi ancora deluso dalla gente in generale. <<Pensavo che come specie umana avremmo dimostrato più coraggio, più forza, più amore e compassione gli uni per gli altri e per la vita sulla Terra. É un incubo – ribadisce – che i tribunali, i leaders mondiali, i rappresentanti delle corporazioni e la gente comune nelle strade non capisca che ci troviamo in uno stato di emergenza, e che un po’ tutti continuino a comportarsi come fosse tutto normale.>>

Mentre da una parte la combustione di combustibili fossili è responsabile del 75% delle emissioni di gas-serra di natura antropica (prodotte dalle attività umane) e del 90% delle emissioni di CO2, il Fondo Monetario Internazionale stima che l’industria dei combustibili fossili ha ricevuto 7 trilioni di dollari in sussidi nel 2023, al ritmo di 13 milioni di dollari al minuto. Sia Kalmut sia la Abrammoff sono rimasti attoniti nel constatare come l’amministrazione Biden, a dispetto del suo dichiarato impegno ad arginare la crisi climatica mondiale, abbia emesso più di 3000 nuove autorizzazioni a perforazioni petrolifere su tutto il territorio federale l’anno scorso (2023, ndr), il 50% in più di quanti non ne abbia emessi il precedente presidente Donald Trump durante i primi tre anni del suo mandato.

<<Questo ai miei occhi è indice del fatto che forse non sono tanto intelligenti quanto inizialmente ritenevo … e che hanno perso il contatto con la realtà>> - suggerisce Kalmut.

Quello che continua a spronare questo ricercatore all’azione è il suo amore per il pianeta e per i suoi abitanti. <<Voglio diffondere un sentimento di amore, e non penso ci sia una cosa più importante che io possa fare>> - afferma. <<Non c’è un momento nel futuro in cui si possa dire che sia diventato troppo tardi per diventare un buon abitante del pianeta>> - insiste. <<Certo che è tardi, molto tardi, ed è tragico che ci siamo ridotti a questo punto. Tuttavia non è troppo tardi. Perché la questione climatica riguarda un sistema complesso. Non si è costretti a scegliere solo tra il peggio del peggio e il meglio in assoluto. Le nostre scelte non sono le sole due concesse da un interruttore: acceso o spento. Dobbiamo piuttosto pensare che ogni gallone di combustibile in più bruciato, ogni ulteriore jet in volo, ogni bovino allevato e ucciso per ricavarne alimenti umani è un contributo a fare andar peggio la faccenda>>

Kalmut ha imparato a controllare la sua ansia attraverso la pratica della Meditazione Vipassana, un po’ di corsa e dedicando sufficiente tempo al sonno. <<Trovo utile ricordarmi di tanto in tanto che niente di tutto questo grande problema è imputabile a me in prima persona>> - spiega - <<penso che in qualche modo lo stress faccia sentire la sua morsa quando mi considero l’unico attore responsabile del cambiamento, o se penso troppo alla possibilità di essere licenziato. Se ciò mi capitasse, dopo tutto, penso che riuscirò a trovarmi un altro impiego.>>

La collega Abramoff pare più categorica: <<Non è l’informazione che manca, è un problema di potere.>>

Sottolinea il fatto che se da una parte ci troviamo tutti già nei limiti di una zona di pericolo nella quale possono essere oltrepassati molti punti critici in gradi di cambiare sostanzialmente le condizioni di vita come le abbiamo finora conosciute, <<non ci stiamo avvicinando ad un punto in cui moriremo tutti allo stesso tempo; per tale motivo non ha senso perdere ogni speranza e abbandonare qualsiasi tentativo di migliorare le cose>> - sostiene - <<Non è come quando un’auto esplode alla fine di un film, e quel che è stato è stato: titoli di coda e fine della storia. Dobbiamo continuare con le nostre vite e non interrompere il nostro lavoro per migliorare la situazione.>>

Per la Abramoff l’attivismo è <<un’espressione di amore, speranza e senso di comunione>> - come scrive in una email. L’attivismo è per me stato uno strumento efficace e duraturo per arginare la mia eco-ansia, e mi offre anche una prospettiva di cui avevo bisogno per poter essere più felice, meno dominata dalla paura e più inclusiva nei contesti del lavoro, della famiglia e della vita in generale sulla Terra.>>

<<C’è davvero tanto buon lavoro avviato e in corso (a favore della causa climatica)>> - riassume la stessa Abramoff - <<Mi da speranza, e anche in uno scenario futuro in cui si verificasse la peggiore delle catastrofi, continuerei nell’opera in cui mi sono impegnata, piuttosto che fare niente. Pare un buon modo di trascorrere la vita, a dispetto dei risultati che possiamo raggiungere o meno.>>

Duggan, che descrive il suo attuale stato mentale come una <<combinazione di insuccesso, tristezza e rabbia>>, e si emoziona, <<è una realtà molto triste, perché più tempo aspettiamo, maggiore è il numero delle persone per le quali sarà troppo tardi…ma il provare adesso a fare qualcosa in più è qualcosa che dobbiamo a tutti gli esseri umani>>. Man mano che la percezione della gente comune si modifica, e che le richieste di cambiamento aumentano, Peter Duggan <<continuerà a sbattere la testa contro il muro>> - come afferma lui stesso, motivato a fare del suo meglio anche per i suoi giovani bambini, e aggiunge: <<non penso di avere un’altra opzione alternativa.>>

<<Dobbiamo cercare di navigare al meglio l’esistenza che ci è data come esseri umani>> - chiarisce la Dott.ssa Schmidt, suggerendo che il modo per uscire dalla paralisi indotta dal cambiamento climatico è continuare a vivere nel rispetto dei propri valori più importanti e a fare ciò che possiamo con le capacità di cui disponiamo.>> Un’analogia per descrivere questo atteggiamento lo paragona all’atto di piantare semi. <<Magari non potremo sapere in quali luoghi tali semi germoglieranno, ma piantare questo tipo di semi utili è un nostro obbligo morale, perché l’unica certezza che nessuna nuova pianta nascerà è smettere del tutto di piantarli, i loro semi.>>

Traduzione: Andrea De Casa

Link: https://www.aljazeera.com/features/2024/6/16/what-grief-for-a-dying-planet-looks-like-climate-scientists-on-the-edge-2