• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Educazione alla gestione nonviolenta dei conflitti

Non sono un cultore di letture sulla nonviolenza. Pur non studiandone i fondamenti teorici, provo, per quanto e per come vi riesca, a praticarla. Per questo forse - e la mia affermazione potra' apparire azzardata a molti/e - a me pare che la nonviolenza non sia iscritta nell’ordine naturale delle cose.

Il mondo, la vita sono impastate di violenza. Basta pensare alla catena alimentare per rendersene conto, al fatto che la vita di ogni essere vivente inizia e si conclude con avvenimenti - la nascita e la morte - in cui la violenza e' ben presente. La psicologia e la stessa esperienza personale ci insegnano che chi subisce violenza e' portato anche inconsciamente a restituirla ad altri, pure se non esattamente agli stessi che gliel’hanno fatta. La nonviolenza e' dunque il portato di una costruzione culturale. E come ogni costruzione culturale va custodita e sviluppata.

Per quel che mi riguarda il rifiuto della violenza - oltre che da un’avversione istintiva che e' questione caratteriale - deriva dalla constatazione della sua inefficacia come mezzo per migliorare lo stato delle cose. Anzi dalla constatazione che i suoi effetti vanno sempre e comunque in direzione opposta, perche' la violenza genera violenza e moltiplica gli odi: mai come in questo campo e' vero che ad ogni azione ne corrisponde un’altra eguale e contraria. Obiettivi dunque di giustizia, di liberta', di pacificazione non si riesce a perseguirli con la violenza. Le lotte del XX secolo ci hanno peraltro insegnato che per essere efficaci bisogna ricorrere a mezzi affini alle finalita' che ci si propone, anche se cio' richiede tempi lunghi.

Questo vincolo solleva il problema della gestione nonviolenta dei conflitti. Il conflitto sia a livello individuale, sia a livello di classe, di popoli e di stati e' ineliminabile. Una situazione pacificata, la stessa pace - come acutamente insegna Lidia Menapace - non sono segnate dall’assenza di conflitti, ma sono il luogo dove i conflitti  si gestiscono con l’obiettivo non di far soccombere via via le parti in causa finche' una sola resti dominante, bensi' con quello di mediare tra le contrapposizioni per ricercare le modalita' possibili per la coesistenza degli interessi che configgono.

Essere pacifisti e nonviolenti vuol dire dunque essere protesi verso la ricerca di mezzi di gestione dei conflitti - senza negarli e nemmeno sminuendone il peso - che anzitutto non li aggravino e mediante i quali si possa perseguire la coesistenza degli interessi contrapposti nella consapevolezza che non esistono soluzioni definitive e permanenti ma che via via vanno continuamente rinnovati e sperimentati equilibri instabili.

La gestione nonviolenta dei conflitti e' ovviamente impresa assolutamente difficile. Non si puo' improvvisarla, ne' bastano buone intenzioni e buoni sentimenti. Si tratta di sperimentare percorsi impervi e problematici per  imparare a scegliere in ogni conflitto la parte per cui schierarsi e sostenere le sue ragioni, senza per questo negare le ragioni della parte o delle parti avverse e tampoco ipotizzarne la soppressione. Sono richieste percio' determinazione, perseveranza, accumulo di competenze ed umilta'.

L’educazione alla pace, a mio avviso, vuol dire proprio questo: educare alla gestione nonviolenta dei conflitti.

Sarebbe percio' auspicabile che nei percorsi formativi ed anche nei programmi scolastici si introducesse un traning alla nonviolenza, per dar modo di imparare a non rispondere con violenza alla violenza. Potrebbe essere questo il primo passo dell’educazione alla pace, che come ho appena detto non puo' a mio avviso che coincidere con l’educazione alla gestione nonviolenta del conflitto.

Vi e' un esempio estremo da cui tutti potremmo apprendere molto: e' quello della resistenza popolare palestinese nonviolenta contro il muro e l'occupazione militare israeliana. Perche' allora non diffondere nelle scuole ed in genere tra i giovani l’appello che il  Coordinamento dei comitati popolari per la resistenza nonviolenta palestinese ha lanciato in vista della conferenza del 19 ottobre a Ramallah? Perche' non proporre ai giovani di partecipare alla raccolta delle olive in Palestina, quale azione concreta e nonviolenta di aiuto al popolo palestinese?

Invece circola tra i giovani in questi giorni la proposta dello stato maggiore dell’esercito di partecipare ad un traning alla vita militare, in cui e' prevista - a quel che sentivo stamane dalla radio - anche l’esperienza del tiro con la pistola. Allora c’e' da domandarsi qual e' il futuro che stiamo indicando ai nostri giovani, quali valori proponiamo loro, a quanti funerali di stato vogliamo prepararli.