• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

La nonviolenza oggi in Italia: il dolore innocente

In un 4 novembre credo del 1971 con il movimento antimilitarista padovano abbiamo interrotto la preghiera dei fedeli nella Basilica del Santo, alla Messa per la vittoria (sic) officiata dal vescovo Bordignon. Io portavo un vestito rosso perché il gruppo mi identificasse entrando in chiesa. È finita che ho spiegato ad un colonnello dei carabinieri che non poteva arrestarci sul sagrato della Basilica: il Santo è extraterritoriale. Nonviolenza in questo caso è stato... farci proteggere dal Vaticano, suo malgrado e nostro malgrado. Detto questo non so se sono nonviolenta. Certo preferisco la nonviolenza al pacifismo. Ma se ci sono i mercanti nel tempio, che fare? Le pratiche nonviolente (Gandhi) richiedono una disciplina interiore molto dura, una coerenza che a volte mi pare non del tutto realistica. Ammiro vite come quella di Capitini. Forse il mio modello è stato Alex Langer, ma alla fine anche lui avrebbe scelto di intervenire con le armi a Sarajevo.

Etty Hillesum è il mio modello. La capisco. Per essere nonviolenti ci vuole molto lavoro su di sè ed essere aperti a tutto. Ma sento anche di aver molto odio dentro e rabbia: come liberarsi della violenza più consueta, quella verso le persone che amiamo e che vorremmo “come noi”.
Faccio fatica ad accettare persino le diversità dei miei figli.

Leggere solo libri di donne; qualche uomo... dopo averci pensato bene. Anche i nonviolenti mi sembrano spesso... senza misericordia. Tuttavia da adolescente il mio modello è stato Albert Schweitzer e leggendo alcune sue opere teologiche ecumeniche mi pare che sarebbe la strada giusta, anche per credere.

Detesto abbastanza gli impegni collettivi, campagne, etc.:  forse perché vengo da molti anni di militanza femminista e da sette anni di Parlamento.

Il femminismo: le donne stanno perdendo terreno e trovo insopportabili quegli uomini che ormai mimano il femminismo per avere uno sgabello da cui farsi vedere. Tuttavia leggo solo testi femministi, evitando le Autrici che credono al post-patriarcato tout court. Occorre ricominciare da capo con umiltà: non capiamo più nulla. Forse rileggere Illich con umiltà farebbe bene (anche se non sono d’accordo con lui...).

Chi si dice femminista dovrebbe essere nonviolenta: ho trovato moltissima violenza da parte delle compagne che iniziavano a parlare dicendo “qui c’è troppa violenza...”.

Un’emergenza per la nonviolenza? Tutto il dolore innocente... Troppo. Il dolore innocente è l’unica prova certa dell’esistenza di Dio. Qualcuno dovrà risarcirlo e noi non siamo all’altezza, mai. Anche se le briciole sono preziose.

Intercultura: sono contraria alla parola; presuppone identità culturale come principio regolatore delle relazioni. A me pare che se parlo con qualcuno, anche se sto sulla mia porta è già mixitè. Aboliamo i predicatori di intercultura: sono violentissimi. Aboliamo la parola “dialogo”. Aveva un senso chiaro negli anni ‘70. Oggi direi “discorriamo”: dove passano le parole, lì ci stiamo toccando e mescolando.
A me va bene anche multiculturalismo: ha una pessima origine ma si capisce che l’identità è una retorica in sè nè buona nè cattiva se assunta come autorappresentazione (individuale e non di gruppo: i diritti di gruppo sono violentissimi; anche quelli “in nome delle donne”).

Per un discorso nonviolento sulla salute mentale, ripartire da Basaglia e dalla follia nostra e tra noi. Sugli specialismi la penserei ancora come Illich, senza esagerare (vado dal dentista...).
Riprendersi cura di sè e decostruire i saperi codificati; darsi reciprocamente cura senza cadere nelle trappole della cura. Per quel che riguarda l’etica del care, mi pare sia un filone molto nonviolento, salvo quando predica la dipendenza come valore. La dipendenza è sempre un disvalore; semmai interdipendenza e autonomia. Sono assolutamente interdipendente dal mio nipotino e lavoro per la sua e mia autonomia. Anche con un malato terminale dovrebbe essere così. Non è un caso che si impara moltissimo in quel tipo di situazioni dalla persone che aiutiamo a morire.

Nonviolenza e morte: estote parati. Il senso della mia fragilità mi accompagna ad ogni ora. Mi devo meravigliare ogni momento perché sono in vita. La morte è l’inatteso sempre presente: lo stupore di ogni respiro.

Sulla scienza e la tecnologia, la nonviolenza insegna radicalmente il senso del limite: difficilissimo se posso affittare l’utero di una donna per diventare una buona coppia di padri gay; sarei violenta, se lo impedissimo per legge? Temo di sì. Ma dico che l’utero in affitto è violentemente immorale.

Etica e bioetica: credo che scegliere di abortire sia nonviolento - quando posso saper cosa faccio - e tuttavia ritengo che si tratti di “abolire” un individuo della mia specie. Anche se non è una persona. Faccio quest’esempio per dire che le scelte morali impongono anche la consapevolezza della decisione violenta. Lasciate decidere alle donne: abbiamo guadagnato la nostra capacità morale col sangue. Su questo sono categorica.

Formazione alla nonviolenza (addestramento solo come scelta molto matura). L’unica formazione alla nonviolenza consiste nel pensiero critico a partire da sè, dalla propria posizione nel mondo, dall’attenzione al potere che esercitiamo.
Addestramento: tenere sempre in tasca un bigliettino con scritto “de-costruire”. Ci accorgeremmo che tanti testi cosidetti nonviolenti sono molto a-critici e fondamentalisti (cioè violenti).

Lo stile di vita nonviolento comincia con un pensiero mattutino: guardarsi dentro e guardare anche altrove (rispetto alle routine che ci assalgono).

“Madre terra”: vengo da una famiglia contadina e sono ahimè abituata a distinguere tra esseri umani ed altri viventi, trovo sciocco abbracciare alberi e simili. L’umanizzazione degli animali comporta la loro cattività: questo posso osservare.
Tuttavia “non uccidere” riguarda anche gli animali, per forza. Perché sentono dolore. Se ti alleni a sentire il dolore di un animale, allora sai chi è, ma non è io.

La direzione è il cammino. Il resto è illusione o superbia.
Non so quale delle due è la mia peggiore tentazione.


Franca Bimbi è docente universitaria ed è stata parlamentare; nata a Castelfiorentino, Firenze, nel 1947, è professore ordinario di Sociologia all’Università di Padova. Afferisce al Dipartimento di Sociologia ed è responsabile del curriculum "Genere, cittadinanza e pluralismo delle identità" per la Scuola di Dottorato in Scienze Sociali. Ha insegnato per molti anni Sociologia della famiglia e Politica sociale. Attualmente tiene i corsi “Culture, differenze, identità” e “Politiche familiari dell’Unione Europea” per le Lauree Magistrali di Strategie di comunicazione e Scienze sociologiche ed il Corso “Mutamento sociale e globalizzazione” per la Laurea triennale in Comunicazione. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le trasformazioni della famiglia e delle relazioni familiari, i modelli europei di Welfare, i processi di cittadinanza delle donne, le definizioni sociali del corpo. Nel 1992-1995 è stata Presidente della Commissione Pari Opportunità della Regione Veneto; dal 2001 al 2008 è stata in aspettativa dall’Università per mandato parlamentare; nel 2006-2008 è stata Presidente della Commissione per le Politiche europee della Camera dei Deputati; referente scientifica del Sindaco di Venezia per il Progetto Cittadinanza delle donne e cultura delle differenze, per l’Osservatorio Lgbt e per il Centro antiviolenza. Tra le sue pubblicazioni recenti: (a cura di, con Alisa Del Re), Genere e democrazia. La cittadinanza delle donne a cinquant'anni dal voto, Rosenberg & Sellier, Torino 1997; (a cura di, con M. Carmen Belloni, presentazione di Massimo Cacciari), Microfisica della cittadinanza. Città, genere, politiche dei tempi, Angeli, Milano 1997; (a cura di, con Rita D'Amico), Sguardi differenti. Prospettive psicologiche e sociologiche della soggettività femminile, Angeli, Milano 1998; "L'Italie. Concertation sans representation" (con Vincent Della Sala), in Jane Jenson, Mariette Sineau (sous la direction de), Qui doit garder le jeune enfant? Modes d'accueil et travail des meres dans l'Europe en crise, L. G. D. J., Paris 1998; "Measurement, Quality, and Social Change in Reproduction Time. The Twofold Presence of Women and the Gift Economy", in Olwen Hufton, Yota Kravaritou (eds.), Gender and the Use of Time / Gender and Emploi du Temps, European University Institute, Centre for Advanced Studies, Firenze, Kluwer Law International, 1999; "The Family paradigm in the Italian Welfare State", in Gonzalez Maria Josè, Jurado Teresa, Naldini Manuela (eds.), Gender Inequalities in Southern Europe. Women, Work and Welfare in the 1990s, South European Society & Politics, 4/2, Autumn 1999; (a cura di), Madri sole. Metafore della famiglia ed esclusione sociale, Carocci, Roma 2000; (a cura di, con Cristina Adami, Alberta Basaglia, Vittoria Tola), Libertà femminile e violenza sulle donne, Angeli, Milano 2000; (a cura di, con Ruspini Elisabetta) "Povertà delle donne e trasformazione dei rapporti di genere", in Inchiesta, 128, aprile-giugno 2000; (a cura di), Sex Worker. Reti sociali, progetti e servizi per uscire dalla prostituzione, Aesse, Roma 2000; "Prostituzione, migrazioni e relazioni di genere", in Polis, 1, 2001; "Violenza di genere, spazio pubblico, pratiche sociali", in C. Adami, A. Basaglia, V. Tola (a cura di), Dentro la violenza: cultura, pregiudizi, stereotipi, Angeli, Milano 2002; (a cura di), Differenze e diseguaglianze, Il Mulino, Bologna 2003; (con Rossana Trifiletti, a cura di), Madri sole e nuove famiglie, Edizioni Lavoro, Roma 2007; "Dietro il velo il corpo", in Luca Trappolin (a cura di), Genere, stereotipi e multiculturalismo, Guarini, Bologna 2007

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo