Pubblichiamo, come approfondimento alla nonviolenza, questa intervista, a Carlo Ruta, storico e giornalista impegnato nelle lotte per i diritti e la giustizia, realizzata da Paolo Arena e Marco Graziotti, della redazione di "Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta", un'esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a Viterbo.
Questo ciclo di interviste verrà utilizzato nei momenti formativi realizzati dall'Associazione.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza?
- Carlo Ruta: È avvenuto per gradi, con lo scorrere degli anni, che mi hanno consentito di riflettere, soprattutto sulla natura dell’atteggiamento violento, rivelatore delle lesioni che fino a oggi hanno egemonizzato la storia. La violenza è un trauma a prescindere, che lascia il segno, sempre e comunque, fino a generarne altre. Ho maturato allora la convinzione che la nonviolenza, sostenuta da una coerente razionalità, sia il modo più consono di resistervi.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché?
- Carlo Ruta: Come tanti, mi sono trovato a fare i conti con le esperienze di Gandhi, Aldo Capitini, Martin Luther King, don Milani. Ho avuto quindi nozione di eventi che, per quanto marginali o apparentemente tali, hanno influito sul “normale” corso delle cose, ponendolo in qualche modo in discussione. Da Machiavelli a Hobbes, a Clausewitz, è stato insegnato che il realismo, se propriamente tale, non può che essere bellicista. Esiste ed è operante nondimeno un realismo della nonviolenza, che sconfessa tale visione monolitica della storia. Tanto più nel tempo segnato dalla tragedia dei genocidi, sono state tracciate e testimoniate vie che è possibile percorrere e che in taluni snodi sono risultate perfino determinanti. Specie dopo l’esperienza gandhiana, la nonviolenza è divenuta in sostanza una possibilità operativa, una metodica, una prassi. E tutto questo per me ha contato.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica?
- Carlo Ruta: La nonviolenza è una fiumana che ha accompagnato il grande fiume della prepotenza. Consiglierei quindi di accostarsi a questo torrente, minuscolo e tuttavia irriducibile, attraverso le opere o i brani di opere che lo hanno meglio rappresentato, sin dall’antichità. Per comprenderne l’essenza e la varietà di sfaccettature, suggerirei comunque la seguente bibliografia minima: William Godwin, Political justice; Henry David Thoreau, La disobbedienza civile; Lev Tolstoj, In che consiste la mia fede; Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale; Mohandas Karamchand Gandhi, Nonviolenza in pace e in guerra e Autobiografia; Hannah Arendt, La banalità del male; don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù; Martin Luther King, La forza di amare e Marcia verso la libertà; Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza; Hans Jonas, Il principio responsabilità; Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Suggerirei altresì la lettura di alcuni brani di Kant: in particolare, i passi della Critica della ragion pratica che definiscono il valore assoluto della dignità umana e le “geometrie” che reggono l’imperativo categorico.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con più impegno? Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia?
- Carlo Ruta: Mi preme ricordare anzitutto l’organizzazione della Freedom Flotilla, che nei mesi scorsi ha pagato il proprio impegno con nove uccisi, per aver tentato di forzare il blocco su Gaza, in sostegno al popolo palestinese. Le realtà che meritano vicinanza e sostegno sono comunque tante. Penso, per esempio, a Emergency di Gino Strada, ad Amnesty International, alle associazioni israeliane e palestinesi che hanno deciso di cooperare sul terreno della nonviolenza. Fra le realtà italiane che si sono distinte per rilievo e costanza dell’iniziativa, mi piace ricordare i Comboniani, Pax Christi, la Rete italiana per il disarmo, la Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Valdese, il Movimento Nonviolento, l’associazione Libera di don Luigi Ciotti, il Centro di ricerca per la pace di Viterbo, Peacelink, Fortresse Europe, L’Arci, i Beati Costruttori di Pace, la Gioventù Francescana. E si potrebbe continuare, giacché sono numerose le associazioni che, legate comunemente al territorio, hanno deciso di seguire la traccia di Aldo Capitini, Alexander Langer, don Tonino Bello. Trovo infine essenziale l’impegno della Lav e di altre associazioni animaliste.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: In quali campi ritiene più necessario ed urgente un impegno nonviolento?
- Carlo Ruta: L’impegno nonviolento chiama a confrontarsi, giorno dopo giorno, con l’emergenza delle guerre, con epidemie e carenze alimentari che colpiscono i continenti, con le offese delle mafie, con la realtà dei migranti, con il disagio della disoccupazione, diffusa in ogni parte della terra, tanto più in periodi come l’attuale. Tutto questo propone sfide che è doveroso raccogliere. Fatto salvo tale dato, imprescindibile, volgerei però l’attenzione su un impegno diverso, per certi versi minimalistico, e nondimeno essenziale. Mi riferisco a due terreni specifici: la scuola e la famiglia. Non credo che la nonviolenza possa stabilizzarsi nelle società, fino a influire nelle cose in modo determinante, se manca un criterio educativo di fondo. Il rispetto della dignità e della vita può essere trasmesso, suggerito, insegnato. Il germe della violenza può essere snidato, isolato, posto in discussione, controllato.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?
- Carlo Ruta: Rappresentata non di rado come una debolezza, la nonviolenza è in realtà una risorsa, una tensione civile, positiva, volta a imbrigliare la hybris che si annida negli esseri umani e nella storia. È il gesto di resistenza al disordine degli istinti, la sconfessione quindi di una concezione totalitaria della biologia che si risolve nell’immanenza del male, in quell’orizzonte onnicomprensivo che i militaristi chiamano regno della necessità. Costituisce altresì un cammino, un tirocinio faticoso e volontario, recante alla base l’assunzione di un impegno radicale, razionalmente fondato appunto, verso sè e gli altri, atto a testimoniare, in primo luogo, la dignità incondizionata della vita.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo?
- Carlo Ruta: Alla luce di tutto, ritengo si tratti di un rapporto inscindibile. Le lotte delle donne del secondo Novecento, che hanno determinato una svolta epocale, non si sono risolte nella sola rivendicazione dei diritti. I movimenti femminili, spontanei e organizzati, hanno offerto e continuano a offrire un contributo straordinario, per quanto non sufficientemente riconosciuto, all’affermazione della nonviolenza, ponendo in campo il punto di vista, il sentire, le differenze della donna. Non è un caso che siano stati perentori nel rigettare talune “pari opportunità” come quella dell’inquadramento negli eserciti e altre dello stesso tenore, non coerenti con i modi d’essere della donna, e abbiano reclamato invece, con altrettanta perentorietà, l’espulsione della guerra dalla storia. Da tale prospettiva l’impegno delle donne è stato e rimane insostituibile, testimoniato comunque da tantissime esperienze: dal Movimento delle madri in Bosnia durante il conflitto scatenato dalle milizie di Karadzic, alla scelta determinata di tante donne statunitensi di scendere in campo contro le guerre in Iraq e in Afghanistan. Importanti lezioni di nonviolenza e di pace, insistono a venire d’altronde dalle donne d’Africa, impegnate in prima linea nella lotta per la sopravvivenza, lungo gli orizzonti infelici delle guerre, della fame, delle dittature, delle epidemie.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza, impegno antirazzista e lotta per il riconoscimento dei diritti umani di tutti gli esseri umani?
- Carlo Ruta: L’impegno antirazzista costituisce un aspetto fra i più rappresentativi della nonviolenza. Direi che ne costituisca anzi il fondamento, opponendosi a quel male assurdo e primordiale che, coltivato dai nazionalismi e dalle ideologie di regime, proprio nel Novecento, definito il “secolo dei diritti”, ha generato le più grandi mattanze della storia. Una domanda torna allora inevitabile: cosa può fare il movimento nonviolento per impedire che ritornino Auschwitz, il Ruanda, Srebrenica? E la risposta, per quanto precaria, è essenzialmente una: giocare d’anticipo, valorizzando i percorsi di coscienza, di educazione alla nonviolenza, con strategie d’impegno complessive, pure di livello sopranazionale, che riescano a interloquire con i legislatori, le opinioni pubbliche, le agenzie civili in senso lato, e a coinvolgere, in modo idoneo, le sedi formative, la scuola.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotta antimafia?
- Carlo Ruta: Inevitabilmente, la lotta alle mafie è stata e tanto più tende ad essere oggi una delle linee più avanzate dell’impegno nonviolento. Costituiva già negli anni Cinquanta-Sessanta un momento essenziale del lavoro civile di Danilo Dolci, che si sostanziò, oltre che in testimonianze sul terreno e nelle analisi sul fenomeno del banditismo di Partinico, in una serrata denuncia, indirizzata ai parlamenti, ai governi e alle istituzioni giudiziarie, sul sistema di potere che vigeva nell’isola, cui facevano capo uomini politici come Bernardo Mattarella, Calogero Volpe, Salvo Lima, Giovanni Gioia, Vito Ciancimino. Nonviolenta era altresì, negli anni Settanta, la lotta alla mafia di tanti ragazzi siciliani che, sulle vie del Sessantotto, avevano scoperto e fatto propri gli ideali di giustizia e pace. Ne ritroviamo l’emblema nell’impegno di Giuseppe Impastato contro i mafiosi del proprio paese e della sua stessa famiglia, che facevano capo a Gaetano Badalamenti. Nonviolenta era altresì l’iniziativa di Mauro Rostagno, che, giunto a Trapani con la comunità Saman, non esitò a sottoporre a una serrata inchiesta televisiva la mafia che dominava la città. Dopo le stagioni delle grandi stragi in Sicilia, e tanto più dopo gli eccidi di Capaci e via D’Amelio, l’impegno antimafia è divenuto infine caratterizzante in realtà nonviolente attive su tutto il territorio nazionale, come Libera, Pax Christi, il movimento Scout, Peacelink, e non solo. Ha ispirato altresì iniziative specifiche come nel caso di “Antimafia Duemila”, l’associazione “Ammazzateci tutti” in Calabria, e così via. Oggi le narcomafie cingono d’assedio numerosi paesi, pregiudicano la vita civile, favorite dalla recessione economica globale, vanno all’assalto della finanza, delle borse, fino a influire vistosamente, in numerosi Stati, sulla formazione del prodotto nazionale. Per i movimenti nonviolenti si tratta allora di insistere, intensificare l’impegno.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte del movimento dei lavoratori e delle classi sociali sfruttate ed oppresse, tra nonviolenza e movimenti sociali?
- Carlo Ruta: Si tratta di una problematica complessa. L’oppressione di classe è violenza. Il diritto degli oppressi a resistere, a battersi per difesa della propria dignità, per l’acquisizione di libertà negate, è perciò un fatto sacrosanto. Dopo le grandi rivoluzioni industriali dell’Ottocento, che hanno messo a nudo l’indole bellicista dei capitalismi, hanno prevalso modelli di lotta di tipo insurrezionale: dalle rivoluzioni del 1848 alla Comune parigina del 1871, dall’ottobre russo del 1917 alla lunga marcia di Mao Tse Tung e alla rivoluzione cinese portata a compimento nel 1949. Era il risultato di oppressioni lunghe, di vere e proprie tirannidi, di condizioni di vita estreme, di grandi calamità e necessità. La lotta delle classi oppresse, procedendo per prove ed errori, determinava beninteso altri modelli, pacifici. È stato comunque lo shock dei fascismi, del secondo conflitto mondiale, della Shoah, di Hiroshima, a portare a maturazione nelle società, nei movimenti operai, progetti di crescita civile pacifisti. Da tali sfondi infatti erompevano, in Italia, la democrazia progressiva di Eugenio Curiel, il socialismo liberale dei fratelli Rosselli, di Guido Calogero e Aldo Capitini, le elaborazioni sui diritti di Piero Calamandrei e Norberto Bobbio. La resistenza al nazifascismo si chiudeva d’altronde con un miracolo civile, giacché si generava nel vivo del paese il rifiuto della guerra quale mezzo di risoluzione delle controversie fra Stati. Anche la Costituzione, alla cui redazione avevano contribuito persone come Lazzati, Dossetti, Scoccimarro, Sturzo, Pertini, La Pira, e lo stesso Calamandrei, finiva con il parlare allora il linguaggio del pacifismo. In realtà, si era a uno snodo, che in tutti i paesi induceva i movimenti popolari organizzati a interloquire con le ragioni della nonviolenza, anche se questa non veniva direttamente evocata. Esemplari possono essere considerate in tal senso le battaglie del movimento contadino nel Sud d’Italia, organizzato dalle leghe e dalla camere del lavoro. Si trattò a tutti gli effetti di un movimento pacifico e nonviolento, non dissimile in fondo da quello gandhiano che, alcuni decenni prima, aveva scompigliato le carte in India con la disobbedienza civile, il digiuno, la marcia del sale. E rimase tale, nel solco di un progetto democratico contrastato ma in evoluzione, quando le reazioni degli agrari, nel palermitano e altrove, si fecero furenti. Ammirato e sostenuto da numerosi uomini di cultura, pacifisti e nonviolenti, dallo stesso Capitini a Carlo Levi, fu d’altronde tale “vento del sud” ad attrarre Danilo Dolci e Franco Alasia nell’isola, dove con quelle lotte poterono interloquire, e a cui vollero contribuire con iniziative emblematiche, come lo sciopero alla rovescia per il lavoro.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e organizzazioni sindacali: quali rapporti?
- Carlo Ruta: Quanto argomentato fin qui testimonia che esiste una naturale assonanza fra nonviolenza e mondo del lavoro. È fin troppo significativo del resto che lo strumento dello sciopero, che ha scandito i passaggi dei movimenti operai sin dalle rivoluzioni industriali dell’Ottocento, abbia avuto un rilievo decisivo nella stessa vicenda del satyagraha gandhiano. Tale assonanza, su talune linee particolari, è andata altresì crescendo e può crescere ancora. Una delle questioni che nei paesi industrializzati meglio definisce oggi il ruolo della nonviolenza è quella degli immigrati. E a tale riguardo è da considerare esemplare la linea di alcune voci del movimento sindacale italiano, in particolare della Cgil, che, attraverso uffici immigrazione locali, promuove l’accoglienza, il rispetto, l’integrazione, lo scambio interculturale, facendo così argine alla xenofobia leghista e alle logiche di espulsione del governo. L’odio razziale cova nel paese sotto la cenere, e può anche esplodere. Ne dà conto quanto è avvenuto in questi anni in centri come Castel Volturno e Rosarno, dove ad “accogliere” gli immigrati sono stati, rispettivamente, i gangster della camorra e i caporali della ‘ndrangheta, con le armi in pugno e con l’intimidazione. Ritengo allora che la coesione fra movimento nonviolento e sindacati, su tale piano, paradigmatico, e non solo su questo, sia fondamentale.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e lotte di liberazione dei popoli oppressi?
- Carlo Ruta: I popoli hanno diritto di opporsi all’oppressione. È indubitabile. Il problema è costituito dai mezzi e dai modi. La decolonizzazione del Novecento, tanto più dopo il secondo conflitto mondiale, è avvenuta a prezzi altissimi. Per liberarsi dal dominio francese, gli algerini dell'Fln non esitarono a ricorrere al terrorismo, e terroristici furono i modi in cui replicarono i francesi. Alle radici di quel terrorismo c’erano lutti e sofferenze, una sopraffazione antica, generazioni di morti che chiedevano giustizia. Frantz Fanon ne I dannati della terra spiegò con efficacia le ragioni della rivolta armata. Era uno psichiatra. Conosceva a fondo i tormenti dell’Algeria. E furono tanti gli intellettuali d’Europa che condivisero le sue parole, a partire da Sartre, che non esitò a firmare la prefazione al libro. Di altro tenore era invece la visione di Albert Camus, che pure in Algeria era nato e vissuto; l’autore de L'etranger preferì ritrarsi da quelle violenze, dicendosene disgustato, al punto da proporre una tregua. La risposta fu istantanea: tanto i Pied-Noirs quanto i militanti dell'Fln lo considerarono un traditore. Si trattava forse di realtà simmetriche? La violenza è cieca, come può esserlo un masso che con impeto si schianta al suolo. Ma quella di un popolo umiliato può essere rappresentata come tale? Si può ritenere che non lo sia, o che lo sia meno. I teologi della liberazione hanno finito con il comprendere e legittimare la rivolta in armi dei diseredati e dei popoli oppressi. Il sacerdote peruviano Gustavo Gutierrez, autore di Teologia della liberazione, ha creduto nella protesta liberatrice dalla povertà. Frei Betto ha creduto e continua a credere nell’esperienza di Cuba. Leonardo Boff, da padre francescano, ha condiviso a lungo la vicenda sandinista, al pari di sacerdoti e teologi come Ernesto Cardenal e Miguel D'Escoto, che parteciparono da ministri al governo rivoluzionario sandinista. Corre, evidentemente, un abisso fra la violenza cieca e sopraffattrice di una giunta militare e quella di un popolo vessato, senza diritti, ridotto alla fame, che ha deciso di rivoltarsi in difesa della propria dignità. La violenza di Ernesto Guevara era altra da quella di Batista. Ma in tutti i casi si tratta di un trauma, di un danno, di un costo altissimo in termini civili. È il dramma della storia, che tuttavia ha indicato possibili vie d’uscita, o almeno delle varianti. In India, alcuni settori radicali del movimento per l'indipendenza sostennero il metodo violento, proponendo pure il ricorso al terrorismo; ma alla fine fu il satyagraha gandhiano a scortare l’uscita dei britannici dal paese. Si tratta beninteso di problematiche aperte, giacché esistono condizioni e condizioni. Non si può non tenerne conto. Sarebbe incongruo chiudere gli occhi davanti all’oppressione dei popoli. Si tratta nondimeno di farvi i conti in modo coerente, con le proprie sensibilità e le proprie aspirazioni, perché possano prevalere le ragioni della vita, così come occorre fare i conti con la tragedia assurda dei terrorismi, che continua a germinare, purtroppo, pure dal terreno degli oppressi.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo, antimilitarismo e disarmo?
- Carlo Ruta: La nonviolenza è l’abc di un pacifismo coerente, la condizione cioè di un pacifismo maturo e senza condizioni. È quindi naturale che nell’agenda dei movimenti che la propugnano, un punto fermo debba essere costituito dall’impegno antimilitarista, per la pace. Si tratta di un compito tra i più difficili, tanto più se si considera che il militarismo intanto ha mutato aspetto, finendo con il non averne più uno distinto. Nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento la guerra veniva nobilitata, esaltata per se stessa, come igiene dei popoli. I militaristi della cosiddetta “età dei diritti”, che è anche età dell’atomica e delle guerre tecnologiche, tendono a ripiegare invece su nozioni più complesse, di ordine morale. La teoria dello Justum bellum, tratta dalla tradizione scolastica e giusnaturalistica, attualizzandola con i passaggi, per certi versi inediti, della supreme emergency e dell’attacco preventivo, oggi costituisce la dottrina ufficiale dell’America. Gli sfondi sono quelli di un ordine che, a dispetto delle resistenze, sempre più tende a porre in discussione alcuni cardini del sistema westfaliano, degli Stati nazionali, proponendosi di fatto, sotto il profilo della sicurezza in primo luogo ma non solo, come unipolare e imperiale. Come è noto, nel 1998, alla vigilia della guerra in Kosovo, il segretario di Stato di Clinton Madeleine Albright replicava ad alcune riluttanze degli europei a ricorrere alle armi con queste parole: "Se dobbiamo usare la forza è perché noi siamo l’America. Siamo la nazione indispensabile. Noi ci ergiamo alti. Vediamo più lontano nel futuro". E gli eventi successivi, tanto più lungo gli anni zero, danno conto di quanto tale linea, a lungo incubata nei delicati equilibri della guerra fredda con l’Urss, già attiva comunque nella prima guerra del Golfo, sia divenuta strategica. A rendere la situazione più pregiudizievole sono d’altronde le rettifiche in direzione dello Justum bellum di intellettuali che tanto hanno interloquito nel secondo Novecento con l’opinione pubblica pacifista... È importante allora che, nell’attuale snodo, i movimenti pacifisti e nonviolenti facciano i conti con tali atteggiamenti, identificandone le radici.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica, alla riflessione sull'etica e sulla bioetica, alla riflessione sulla scienza e la tecnologia, alla riflessione sull'economia? Quali rapporti tra nonviolenza e cultura?
- Carlo Ruta: Chiuso l’Ottocento, con le elaborazioni di Thoreau e Tolstoj, la nonviolenza è divenuta man mano l’architrave di numerose riflessioni, sebbene non tutte situabili con pienezza nell’orizzonte della medesima. Le ragioni risiedono nelle peculiarità del nuovo secolo. Il Novecento ha segnato significativi progressi negli iter del diritto e della democrazia, ma, come si diceva prima, è stato macchiato da guerre e genocidi che per estensione, metodo, tecniche e "razionalità" posta in gioco non hanno avuto precedenti nella storia. È stato altresì il secolo dei totalitarismi. Già nei primi decenni mentre si svolgeva, fra il Sudafrica e l’India, la lezione di Gandhi, il messaggio nonviolento si avvaleva di significativi rilanci. Nelle forme di un sostenuto pacifismo ispirava infatti intellettuali come Romain Rolland, Karl Kraus, Heinrich Mann, Simone Weil, Thorstein Veblen, Mikhail Bulgakov, e molti altri ancora. Ma soprattutto dopo la Shoah e Hiroshima, che hanno smascherato, da due opposti versanti, il fondo buio della razionalità occidentale, il filosofo, tanto più nell’Occidente liberale, si è sentito interpellato e sollecitato a dare risposte, oltre che a porre domande che non erano state mai poste. Il Novecento è così divenuto il secolo che più di ogni altro ha interrogato se stesso sul terreno dei valori e dei non-valori. La domanda etica, pacifista e nonviolenta, ha finito con il "contaminare" altresì, più di quanto fosse avvenuto in passato, i territori della conoscenza e della creatività umana: le letterature, le arti, fino al capolinea del sapere scientifico, che con le sue assunzioni di responsabilità, più di ogni altro dà la misura di quanto sia stata profonda l’autocoscienza del secolo. Pure il fisico nucleare Albert Einstein, a quel punto, ha sentito il bisogno di riflettere da filosofo morale, con posizioni forti contro l’atomica, in favore della pace e del disarmo. Nella primavera del 1955, con Bertand Russell e con altri nove scienziati, da Max Born a Hermann Muller, da Leopold Infeld a Hideki Yukawa, ha firmato un manifesto riconosciuto come il più importante atto di denuncia mai scritto da scienziati sulla minaccia delle armi atomiche per il genere umano. Ad essere colpito di più dall’inquietudine, resa dal nuovo senso dell’imponderabile, è stato comunque il pensiero filosofico, da varie prospettive. Ne L’uomo in rivolta, l’esistenzialista Albert Camus, si espresse con radicalità contro la violenza, la guerra, la pena di morte, rivendicando il valore assoluto della solidarietà. E si possono citare ancora i filosofi della scuola di Francoforte, Adorno, Horkheimer, Marcuse; Agnes Heller che evidenzia che le guerre non possono mai realizzare istanze morali, a dispetto delle intenzioni; Hannah Arendt. Tale impegno anziché estinguersi insieme con la guerra fredda, insiste peraltro sull’onda dei nuovi processi: la globalizzazione, le imponenti migrazioni dal sud al nord del mondo, dall’est all’ovest europeo, le nuove guerre: "preventive" e "umanitarie". L’economista bengalese Amartya Sen ha forzato gli orizzonti della scienza economica introducendo tra i fattori di progresso materiale la variabile forte della libertà. Hans Jonas ha teorizzato doveri da parte degli individui e delle istituzioni pubbliche nei riguardi delle generazioni che devono ancora venire. Ulteriori elaborazioni sulla solidarietà e il rispetto della vita sono venute da Emmanuel Levinas, Giuliano Pontara, Fulvio Cesare Manara, l’australiano Peter Singer e molti altri. E, ovviamente, si potrebbe continuare, con la presa d’atto che la nonviolenza e il pacifismo costituiscono una risorsa non indifferente del pensiero contemporaneo.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e informazione?
- Carlo Ruta: C’è un rapporto strettissimo, perché l’informazione può rivelare le cose. E a volte basta davvero poco per rivelare un mondo. L’immagine della bambina di Hanoi che fugge dai bombardamenti, senza vesti e deturpata dal napalm, è bastata a dare agli americani e agli europei il senso profondo della guerra in Vietnam. Ha costituito un tarlo che si è insinuato nel sentire di intere generazioni, senza più uscirne. In sostanza, nel loro svelarsi, nel loro irrompere nella coscienza sociale, attraverso il linguaggio di un cronista, i fatti sono in grado di fare memoria in modo denso, fino a scandire fino in fondo gli itinerari civili delle società. Il reportage, di concerto con altri saperi, con altre consapevolezze, è in grado di concorrere allora alla memoria resistente delle cose, di forgiare la “scatola nera” di questa modernità, mentre tanti abusi, delitti, torti alla dignità della vita, rischiano di rimanere ignoti, quindi “inesistenti”. La vicenda dell’ultimo secolo e il presente suggeriscono beninteso che l’informazione può essere anche altro. Può scendere come pietra tombale sui percorsi di conoscenza. Può scortare addirittura l’iter di un regresso. In tali casi, il giornalismo finisce per essere tuttavia altra cosa: l’oracolo di una ragione silenziosa, incapace di resistere al buio, purtroppo ritornante, della storia.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali le maggiori esperienze storiche della nonviolenza?
- Carlo Ruta: Come già annotato, le origini sono antichissime. Se il pacifismo è già ravvisabile infatti nelle scelte antimilitariste del faraone Ekhnaton (1377-1358 a. C.), atteggiamenti nonviolenti si riscontrano nel Vecchio Testamento (ad esempio Zaccaria, IV, 6; Isaia, XI, 1-9; Geremia, XXVII) e negli insegnamenti del saggio cinese Lao Tzu. Riguardo al Nuovo Testamento atteggiamenti ispirati alla nonviolenza sono particolarmente evidenti; e si veda ad esempio il Discorso della montagna (Matteo, 5, 43-44), e nelle lettere di Paolo quella Ai Romani, 7-21. Esperienze pacifiste e atteggiamenti nonviolenti si rilevano ancora nel cristianesimo dei primi secoli. Nel medioevo, quando era opinione comune che vi potessero essere guerre giuste, si ispiravano alla nonviolenza i Valdesi. Più tardi tali idee vennero accolte dalle sette protestanti dei mennoniti, seguaci di Menno Simons (1496-1561), e degli ammanniti, seguaci di Jacob Amman, vissuto nel XVII secolo. Contrario a ogni forma di conflitto armato fu inoltre il movimento religioso dei quaccheri, fondato da George Fox (1624-1692). Fra il Settecento e l’Ottocento il credo pacifista, variamente influenzato dall’illuminismo e dall’ideale romantico, venne sostenuto, fra gli altri, da William Godwin e dal poeta Percy B. Shelley. Riguardo al Novecento, che ha costituito una svolta epocale, ho detto nelle risposte precedenti.
- Paolo Arena e Marco Graziotti: Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto?
- Carlo Ruta: Formazione storico-filosofica. All’attivo studi storiografici, riguardanti soprattutto l’età moderna e contemporanea. In particolare, ricerche su Portella della Ginestra, il passaggio in Italia fra prima e seconda Repubblica, casi politico-giudiziari irrisolti. Impegno giornalistico e inchieste su vari fronti: criminalità finanziaria, poteri forti, mafie, tematiche civili in genere. Due saggi di prossima pubblicazione. Il primo: “Logiche di guerra. Gli argomenti di Walzer e le strategie dell’America”. Il secondo: “Mafie e crisi. Perché e come è scoppiato l’eldorado”.