• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

La nonviolenza oggi in Italia: Paolo Arena e Marco Graziotti intervistano Raffaele Mantegazza

Pubblichiamo, come approfondimento alla nonviolenza, questa intervista, a Raffaele Mantegazza, prestigioso pedagogista, docente all'Università di Milano Bicocca, componente del comitato scientifico del Centro Studi "Primo Levi" presso la Fondazione Fossoli, realizzata da Paolo Arena e Marco Graziotti, della redazione di "Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta", un'esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a Viterbo.

Questo ciclo di interviste verrà utilizzato nei momenti formativi realizzati dall'Associazione.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza? Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché?

- Raffaele Mantegazza: Ho incontrato la nonviolenza nel corso delle mie ricerche sul potere e soprattutto nella definizione di una pedagogia della resistenza; mi interessava soprattutto la forza con la quale la nonviolenza insiste sulla relazione mezzi-fini nelle strategie di azione e di rivolta. Non ho mai considerato la nonviolenza solamente come un repertorio di tecniche (per questo sono distante da pensatori quali Ebert e soprattutto da Galtung) ma come una filosofia complessiva nei confronti di tutti gli aspetti della vita (per questo il mio interesse è sempre andato a personalità quali Gandhi, Capitini, Dolci, ecc). Mi interessa poi specificatamente la dimensione nonviolenta all’interno delle grandi religioni, soprattutto abramitiche.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali?

- Raffaele Mantegazza: Mi sembra che soprattutto alla fine del XX secolo, un secolo caratterizzato dallo scatenamento della violenza politica e religiosa, si sia sentita l’esigenza di una riflessione profonda e non estemporanea sul rapporto tra politica e violenza. La violenza è stata trattata non solo come una possibile risposta adattiva del soggetto all’ambiente, come gli etologi sottolineano, ma anche come  stortura strutturale di un sistema che su di essa si appoggia per poter vivere e perpetuarsi: per questo il paradigma nonviolento si caratterizza fin da subito a mio parere come critica al capitalismo e al suo sistematico uso della violenza; è questo aspetto di denuncia precisa e circostanziata a differenziare l’approccio nonviolento da qualsiasi approccio irenistico o conciliatorio: non si tratta di eliminare la violenza con un atto di buona volontà ma di studiarne e criticarne l’insinuazione nelle pieghe del soggetto anche al disotto della sua consapevolezza e soprattutto in ambito educativo. Ciò significa che è  essenziale al pensiero nonviolento l'aspetto della critica,  dello smascheramento, dello sguardo fisso sulla negatività presente, sul male operante qui e ora e sulla denuncia delle responsabilità individuali e collettive, anche quelle che coinvolgono direttamente o meno chi si oppone allo status quo; non si tratta di una colpevolizzazione fine a se stessa, perché sono le strutture di violenza ad essere denunciate, quelle strutture che sostengono i gesti individuali, che certo non sono ignorati ma rimessi al loro posto nella cornice più ampia del sistema: ogni tendenza autoassolutoria è bandita ma lo è anche ogni facile pacificazione. Per poter praticare la nonviolenza non basta opporsi astrattamente all’idea di violenza: occorre sapere di volta in volta a che cosa ci si oppone, per evitare di combattere battaglie di retroguardia. La nonviolenza è conoscenza del nemico e suo smascheramento.

È tipica del paradigma nonviolento l'attenzione esplicita alla correlazione tra mezzi e fini, una attenzione che ha profonde ricadute sul pensiero pedagogico: non è infatti possibile educare alla nonviolenza  utilizzando gli stessi strumenti e le stesse strutture che realizzano un’educazione all'odio, alla guerra, alla sottomissione, al dominio; l’attenzione è qui rivolta dunque alla forme, alle strutture, alle metodologie dell’educazione.

La nonviolenza smaschera allora la pretesa neutralità dei gesti e delle opzioni perché si permea letteralmente di politica: vuole riportare alla politica quel campo che è stato invaso dalla violenza, anche dalla violenza della presunta neutralità, del non prendere posizione, dell’ignavia. Qui sta la forza della promozione di gesti esemplari e concreti, tipica della nonviolenza: l'educazione nonviolenta, in particolare rivolta ai giovani, mostra la radicalità di gesti quali il boicottaggio, il commercio equo e solidale,  l'obiezione di coscienza, l'obiezione alle spese militari, gesti di rottura che sono anche parte del progetto formativo nonviolento, ne costituiscono elementi essenziali perché ribaltano la violenza del sistema contro il sistema stesso senza aggiungerne di propria; attenzione: questo non significa che i risultati dell’opposizione non abbiano anche un versante violento ma si tratta di una violenza appunto rimpallata contro l’aggressore, una violenza non omicida, e che permette all’aggressore di ritornare sui propri passi, di rivedere le proprie premesse, di redimersi.

Ma per una seria educazione alla politica è vitale la chiarezza sui limiti dell’approccio nonviolento. Occorre un esercizio di realismo: non ci si può illudere che la lotta per la liberazione dal dominio possa essere esclusivamente nonviolenta; almeno in situazioni di oppressione e di conflitto acuto il problema della violenza non si può risolvere con una parola d’ordine: in ambiti di oppressione acuta e di deprivazione di ogni diritto la resistenza violenta e armata non può assolutamente essere esclusa a priori. Questo non significa che essa sia auspicabile e per certi versi nemmeno buona: ma di fronte a processi di liquidazione totale di individui, gruppi umani, popoli, a volte non è letteralmente data alternativa. E così in situazioni nelle quali le ferite della memoria sono ancora troppo brucianti, il paradigma nonviolento non può essere proposto a priori: per questo nel 1945 non si poteva chiedere ai parenti delle vittime di Marzabotto un gesto di pietà, per questo occorreva bombardare le linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz, per questo la polemica sulla guerra giusta deve riconoscere che la guerra di liberazione dal nazifascismo era una guerra giusta anche se non è giusto che uomini e donne siano costretti a prendere le armi per potersi liberare.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza e pacifismo? Quali rapporti vede tra nonviolenza e antimilitarismo? Quali rapporti vede tra nonviolenza e disarmo?

- Raffaele Mantegazza: Le guerre funzionano: tra le tante modalità di risoluzione dei conflitti internazionali, quella violenta e militare è certamente una delle più efficaci. Se non si parte da questa tragica ed amarissima constatazione è difficile credere che le guerre si facciano ancora. Se si continua a combattere, se la guerra è ancora la più usata tra le possibilità di “continuazione della politica con altri mezzi”, se fioriscono le accademie militari che preparano i futuri tecnici dello sterminio, è perché la guerra rende. La guerra non è mai stata la soluzione ai problemi che si voleva l’avessero causata: ma certamente è stata la soluzione ai problemi di crescita economica delle aziende produttrici di armi, della legittimazione di tiranni e di satrapi, della normalizzazione di territori ricchi di petrolio, gas naturali, materie prime, dello storno delle energie distruttive dei popoli verso il facile obiettivo costituito dal “Nemico”. Ovviamente le guerre non preparano la pace, non garantiscono la sicurezza internazionale, non stabiliscono la giustizia tra i popoli: ma perché meravigliarsene, se è del tutto ovvio che non è per questo motivo che vengono dichiarate e combattute? Basta seguire i notiziari a proposito delle guerre oggi combattute per rendersi conto di quanto la situazione bellica giovi all’industria al capitale.

Educare alla pace, educare allo smantellamento e alla critica nei confronti dell’idea di guerra, fare della guerra il tabù delle nuove generazioni a tutte le latitudini è possibile solamente se si presenta ai ragazzi e ai giovani una idea di guerra che sia all’altezza della realtà. L’idea di guerra sacra, nella quale si combatte per alti principi etici e morali, nella quale è rispettata la dignità del nemico e nella quale tutti i combattenti hanno un bisogno di legittimazione non descrive affatto le guerre del XX secolo, almeno a partire dalla prima guerra mondiale: i codici di guerra che descrivevano un oggetto già di per sè compromesso e ambiguo come “l’onore di un soldato”;  la dichiarazione di guerra consegnata alle cancellerie e vergata con un linguaggio retorico e tronfio; le divise come stemmi di riconoscibilità dei combattenti e come baluardo contro le violenze ai civili; le convenzioni che determinavano il trattamento dei prigionieri, proibivano la tortura e lo stupro: tutto ciò fa parte di un arsenale (è proprio il caso di dirlo) desueto e sconfitto dalla dinamica storica; anche ammesso che le guerre dell’antichità fossero ciò che la storiografia e l’epica ci restituiscono (e non dimentichiamo che quasi sempre a scrivere e a poetare sono i vincitori), oggi questi modelli mentali e rappresentazionali sono del tutto andati in crisi; forse anche nell’epica lo spazio lasciato al singolo e all'eroe, la leggibilità del contesto che rendeva possibile l’epos e dunque la narrabilità, la cavalleria del guerriero che si comportava da vero gentleman, erano finzioni e abbellimenti che venivano usati come schermi per difendere se stessi e i lettori dalla crudezza della realtà; ma non è un caso che non vi sia stato un Omero della prima  e della seconda guerra mondiale, o un epos del Vietnam e della guerra di Spagna; i tentativi i narrare queste guerre, da Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus a I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos, da Niente di nuovo sul fronte occidentale di Eric Marie Remarque a Dov’eri Adamo? di Heinrich Boll, i tentativi di narrare le guerre del XX secolo sono frammentati, dispersivi, lacerati come l’oggetto che narrano: sarebbe interessante studiare quanto la frammentazione della poesia e della letteratura nel XX secolo da Joyce a Eliot a Beckett sia anche debitrice delle esperienze provate in guerra.

Una educazione nonviolenta non può fare a meno dell’idea di conflitto, assolutamente centrale per il processo educativo; e non può fare a meno di sottolineare come il conflitto sia risolvibile ed elaborabile con altri mezzi rispetto a quelli violenti e distruttivi; le tecniche di formazione nonviolenta e di training devono essere rafforzate e sostenute, e la formazione degli educatori deve sottolineare il potenziale educativo di queste tecniche ereditandole anche da culture differenti dalla nostra; ma a livello culturale è l’idea di pace a dover essere riformulata in modo serio e preciso come motore per l’azione educativa. Occorre infatti passare da una idea di pace come assenza di guerra (e dunque di tregua), o peggio come assenza di conflitto (mentre come abbiamo appena ricordato semmai è la risoluzione violenta del conflitto ad essere perniciosa) o ancora come imposizione del forte sul debole (mentre la pace come la democrazia non può essere esportata perché non è una merce, non la si può imporre con la forza come non si può imporre l’amore o la felicità, dunque la “pax romana” non è affatto pace); a una educazione alla pace che dalla scelta individuale di operare condotte nonviolente e di rifiutare la violenza e la vendetta (e sono anche le scelte individuali a fare la differenza anche se non devono essere operate solo e sempre in situazioni di emergenza) mostri come tale scelta possa essere estesa alla collettività formulando una idea di pace come conseguenza di pratiche di giustizia, nella quale  la pace è una scelta collettiva, è un concetto relazionale, è un concetto totale come la felicità, per cui non possiamo davvero essere felici se non lo sono tutti gli altri e le altre; e infine proponga la pace come nuovo paradigma di vita, positivo e non solo contrapposto alla guerra, un paradigma utopico e realizzabile di redenzione del mondo dalla violenza, pacificazione con il mondo animale e vegetale, di recupero della dimensione conviviale.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione filosofica? Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione delle e sulle religioni?

- Raffaele Mantegazza: Sono laico e ribadisco la laicità del mio pensiero. Ma credo che il pensiero laico debba uscire, possibilmente in fretta, dalle secche di una razionalità meramente strumentale: se vuole porsi il compito epocale di suscitare il dialogo interculturale e interreligioso e di parteciparvi, la laicità deve affrontare con radicalità le questioni di senso alle quali comunque le religioni hanno dato risposta. Si tratta allora di cogliere le radici del pensiero dell’alterità presenti nelle religioni e di dar loro le ali che permettano loro di confrontarsi e di confliggere in modo nonviolento; e lo stesso pensiero laico ha bisogno di poderose ali per liberarsi dell’appiattimento sull’esistente e sulla strumentalità della tecnica, che troppo spesso l’ha caratterizzato. Ma la debolezza della laicità, sempre più evidente negli ultimi decenni, non è solamente da attribuire agli attacchi spesso forsennati dei fondamentalismi religiosi, bensì anche e forse soprattutto a un vizio di forma interno a una certa concezione della laicità medesima. Se invece che proporre un proprio discorso sui grandi temi dell’umanità, della vita e della morte, della nascita e della sessualità, e di andare su questi temi a un confronto serrato con le religioni, la laicità si caratterizza come infastidito disinteresse nei confronti della sfera religiosa, essa ha perduto in partenza la sua partita per il dialogo e ha perso legittimità a porsi come spazio di gioco per il confronto tra diverse credenze. Credo che la nonviolenza proponga proprio questa sospensione del giudizio, una epoché sulla verità ultima non significa affatto che si considera la questione della verità come irrilevante o “mal posta”; l’attivazione di un pensiero laico nonviolento su questi temi è l’unica possibile via d’uscita per la situazione attuale, che vede da un lato il crescere degli integralismi religiosi e dall’altro una laicità che si riduce ad essere (quando va bene) una asettica teoria dello stato come meccanismo imparziale e autoregolantesi. Laicità non significa neutralità, soprattutto nei confronti delle grandi questioni dell’esistenza umana: significa invece che, quali che siano le concezioni individuali attorno a questi temi, nessuno può godere del diritto di imporle ad altre persone.  Nè vale dire che in questo modo solamente una parte della popolazione (i laici) concorre alla definizione del contorno del campo di gioco, perché ogni soggetto è laico nel momento in cui decide di affidare la composizione degli interessi, dei conflitti e delle comunicazioni tra sè e gli altri a un meccanismo democratico che è altro dal sistema di dogmi che caratterizzano la sua fede. Solo il sistema democratico laico per esempio permette che un prete cattolico, un pastore protestante, un ulema, un ateo, un rabbino partecipino a pieno titolo a un dibattito sulla fecondazione artificiale e che lo facciano a partire dalle proprie convinzioni (e questo non è mai stato possibile nelle teocrazie, anche in quelle più blande): ma nel momento in cui si legifera, il sistema democratico non può fondare la legittimazione delle sue norme su nessuna delle posizioni religiose esposte nella discussione ma solamente sul meccanismo democratico di partecipazione e di discussione che ha come primo imperativo il presidio dei suoi confini e la propria autoconservazione.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull'educazione? Come caratterizzerebbe la formazione alla nonviolenza? Come caratterizzerebbe l'addestramento all'azione nonviolenta?

- Raffaele Mantegazza: Una volta che si è scelto di prediligere una società del dialogo,del conflitto nonviolento e della democrazia, come si distingue una azione etica da una non etica? E una azione nonviolenta da una violenta? Quali sono le caratteristiche dell’azione nonviolenta? E come si fa ad educare ad essa? Le tre formule classiche dell’imperativo morale kantiano sono a nostro parere riproponibili per un’etica del XXI secolo. “Agisci in modo che la tua azione possa essere universalizzata” significa ancora oggi che l’azione che sto per compiere è etica se tutti i soggetti al mondo possono potenzialmente compierla senza creare danno a se stessi o soprattutto ad altri: occorre allora chiedersi “che cosa accadrebbe se tutti facessero come me? Se tutti usassero l’automobile per percorrere i cento metri da casa all’ufficio postale, se tutti sprecassero l’acqua, se tutti cercassero di prevaricare l’altro?”. Ogni nostra azione lascia una sua impronte sul mondo; il peso specifico delle nostre azioni sull’ecologia del pianeta è stato definito “impronta ecologica”, un concetto che misura scientificamente l’impatto ecologico globale dell’uso di automobili, cucine a gas, bombolette spray ecc. Un concetto che educativamente ci sembra di poter utilizzare per definire i limiti di una azione: quando un comportamento, se generalizzato, provocherebbe una impronta che porterebbe alla distruzione di parti del pianeta, alla morte di esseri umani, allo stermini di specie animali, questo comportamento non è etico ed è da bandire. “Agisci in modo che la tua azione sia autonomamente fondata”: massima profondamente educativa che invita a cercare principi morali che siano autonomi, ossia che letteralmente costituiscano delle norme a se stessi, che dunque si liberino di ogni dipendenza dal denaro, dal potere, dagli integralismi e dei fondamentalismi, di tutto ciò che è eteronomo rispetto alla sfera etica (e politica).

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali esperienze in ambito scolastico ed universitario le sembra che più adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza?

- Raffaele Mantegazza: Dopo la grande stagione degli anni Settanta mi sembra che la nonviolenza non costituisca più una scelta preferenziale per le scuole, sia a livello di tematica, sia a livello di modalità di azione quotidiana. Purtroppo la caratteristica della scuola italiana è rincorrere le mode e questa è ancora la stagione dell’insano innamoramento per le nuove tecnologie, e per tutto ciò che è web, bip, http e altre amenità. A livello universitario, la struttura del potere accademico è così assolutamente violenta in ogni sua manifestazione, così impregnata delle peggiori forme di dominio, di umiliazione del reprobo, di anestetizzazione del dissenso, di promozione del vassallaggio e della cortigianeria, così impegnata nell’unica finalità che le è rimasta ossia quella dell’autoconservazione a tutti i costi, che è già nonviolento vivere il mondo accademico senza esserne stritolati o senza stritolare i giovani. Ai colleghi che riempiono le bibliografie di testi di Galtung ed Ebert (pochi in verità) verrebbe da chiedere in senso non polemico quanto di tutto ciò poi viene vissuto quotidianamente nei rapporti con i giovani collaboratori, con gli studenti, con i dottorandi, con quel sistema feudale e sconcio che è il metodo di reclutamento attuale dei docenti e dei ricercatori.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quale le sembra che sia la percezione diffusa della nonviolenza oggi in Italia? I movimenti nonviolenti presenti in Italia danno sovente un'impressione di marginalità, ininfluenza, inadeguatezza; è così? E perché accade? E come potrebbero migliorare la qualità, la percezione e l'efficacia della loro azione? I movimenti nonviolenti dovrebbero dotarsi di ulteriori strumenti di comunicazione? E con quali caratteristiche?

- Raffaele Mantegazza: La nonviolenza è minoritaria. In una società violenta è ovvio; altrimenti la società sarebbe nonviolenta. Sembra un truismo ma non lo è. Francamente sono stanco di sentire lamentele sul fatto che i portatori di certi valori sono pochi e minoritari. Da Socrate a Gesù mi pare che le cose siano sempre state così. Certo, c’è il rischio dell’elitarismo, dello scambiare questa solitudine per un marchio di superiorità o addirittura di crogiolarsi in essa, con lo stupido slogan “meno siamo meglio stiamo”. Per ora però, siamo pochi; e allora innanzitutto contiamoci. Poi non perdiamoci di vista. E stiamo molto attenti a non vendere l’anima al diavolo; che per me è il web (dia-ballo, il grande separatore, che separa le persone dalla vita - “dalla lotta, dal dolore e dalle bombe”). Proprio la nonviolenza che ha inventato la relazione mezzi-fini non può pensare che, per diventare maggioranza, si possano utilizzare i mezzi della maggioranza. Un conto è non scomparire e cercare di fare proseliti; un conto è vendere la propria merce scoprendo che nel processo di vendita questa si è deteriorata ed è diventata altro.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e istituzioni, nonviolenza e forze politiche, nonviolenza e organizzazioni sindacali, nonviolenza e politica: quali relazioni?

- Raffaele Mantegazza: La politica come scontro nonviolento tra differenti opinioni e confronto tra argomentazioni può solamente essere un risultato che deve essere conseguito partendo da quel terreno nel quale vale la legge del più forte, la violenza, la brutalità e la volgarità (terreno al quale le forze della reazione e del fascismo vogliono, oggi come ieri, ridurre tutta la politica). È dunque una zona delle emozioni, o meglio una zona mista, non più solo emozione, non ancora politica, che costituisce il campo d’azione di una educazione nonviolenta alla politica; che rifiuta la facile alternativa del fermarsi al prepolitico ma che cerca invece di farlo crescere, prendendone sul serio le istanze proprio nel momento in cui le critica, affrontandone le dimensioni irrazionali e prerazionali per condurle almeno in parte all’ambito caratterizzato dall’esercizio della ragione. Per fare qualche esempio: non è possibile una educazione alla differenza e all’alterità che non parta dalla constatazione, amara fin che si vuole, che per l’uomo occidentale così com’è oggi l’altro e il diverso si presentano anzitutto come minaccia nei confronti di una vita stabile e benestante; non si potrà pensare a una reale educazione alla pace e alla convivenza  pacifica senza una riflessione sull’indiscutibile fascino che la guerra esercita soprattutto sui giovani maschi; non sarà possibile pensare a una educazione al consumo critico e consapevole se non partendo dall’analisi dei meccanismi che rendono i prodotti della multinazionali affascinanti e seducenti fino quasi a renderli indipensabili nelle coscienze dei soggetti.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: La nonviolenza dinanzi alla morte: quali riflessioni?

- Raffaele Mantegazza: La morte chiude nel duplice mutismo di chi se ne va e non può più articolare parola, e di chi resta e sente il silenzio accoglierlo, anche cullarlo, certamente farlo proprio. Per questo la morte esibita è oscena: perché è un modo vile per non esibire la nostra solitudine e a volte anche la nostra impotenza, per non mostrarci nudi, infermi e fragili di fronte a ciò che non capiamo. La morte è così davvero enigma, sfondo, inquietudine. L’enigma di una vita che, per quanto possiamo rischiararla con l’irrinunciabile lume della ragione, ci sfuggirà sempre comunque, almeno per un suo lato; perché sarebbe troppo delirante, troppo antropocentrico pensare che il mondo si sveli solo e soltanto alla nostra ragione, un pezzo di mondo che riflette su se stesso. Lo sfondo che ci accoglie e che ci include dentro i suoi disegni e rispetto ai quali i nostri sensi sono “provvidenzialmente miopi” come disse una persona scampata dall’incomprensibile, Primo Levi, che non aveva mai smesso di credere nella ragione ma non ne aveva mai fatto un articolo di fede o un dogma. L’inquietudine che ci abita da sempre, che ci toglie le parole, ci secca la gola, che fa vibrare a vuoto le corde vocali, fin da quando da ragazzi abbiamo contemplato il piccolo cadavere del nostro gatto e abbiamo posto la più terribile delle domande: “Perché?”. Ricostruite le sequenze che hanno portato alla morte, condannati i colpevoli, consolati i vivi, fatta giustizia, resta la morte, che anche in una società più decente di questa resterà con il suo morso freddo. Nei confronti della morte allora il pudore del silenzo è la dimensione da sollecitare. Tacere significa correre il rischio: il rischio che c’è dietro ogni fine della vita, ma anche dietro ogni fine di un progetto educativo. Dal silenzio di fronte alla morte carnale, speriamo gli educatori imparino che dopo la morte del loro progetto formativo non c’è più nulla da dire: almeno a quei soggetti. E imparino a prendersi il rischio del silenzio, che per gli educandi è il rischio della vita, il rischio di essere lasciati soli e autonomi ad incontrare il mondo, senza la parola del maestro a guidare ma anche a limitare la libertà di scelta e di azione. Non sappiamo che cosa ci sia dopo la morte. Non è detto che sappiamo che cosa ci sia dopo l’educazione. Di questo bisogna tacere: lo scopriranno i soggetti, lo scoprirà chi se ne è andato, chi non c’è più, chi non possiamo più cullare, accarezzare, sorvegliare e punire. I nostri sensi provvidenzialmente miopi non vedono di là dalle soglie, quelle vere e quelle fittizie: non vedono che cosa c’è oltre l’educazione, non vedono che cosa c’è oltre la morte. La morte ci rigetta nella nostra creaturalità, nella nostra solitudine: ma è una solitudine collettiva, è la solitudine di tanti, delle creature di fronte alla vita, di chi vuole resistere all’alienazione e all’espropriazione fino alla fine, per poi tacere. L’utopia di chi resiste, anche alla morte ingiusta, è che un giorno la si smetta di resistere. Che ci sia data la possibilità di stare zitti, e che questo silenzio non sappia di tradimento. Che ci sia concesso di riposare. E di  potere, dopo tanto gridare, goderci il diritto di addormentarci in pace.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia; nonviolenza e critica dell'industrialismo, nonviolenza e rispetto per i viventi, la biosfera, la "madre terra"; nonviolenza e coscienza del limite?

- Raffaele Mantegazza: Qual è il corretto rapporto tra uomo e natura in chiave nonviolenta? A che cosa deve educare la pedagogia interculturale a questo proposito? Occorre costruire strade, dighe, ponti oppure astenersi dal farlo? E laddove una montagna sta per franare addosso a un villaggio, occorre lasciarla cadere perché “naturale” oppure intervenire per limitare i danni? È forse all’estinzione di ogni gesto, all’astensione da ogni azione che occorre educare i ragazzi e le ragazze? Forse che il paesaggio ritroverebbe la sua bellezza e la sua armonia solo con l’estinzione della specie umana? Crediamo fermamente di no: “chi sfrutta il suolo sa fargli rendere la maggior quantità di prodotti pur rispettandone il fascino dei paesaggi o addirittura accrescendo con arte la loro bellezza”. La consapevolezza della bellezza del paesaggio porta l’uomo ad aumentarla, anche a mutarla di segno,  inserendovi le proprie azioni in modo cosciente. Il paesaggio oggetto di coltivazione è allora “bello” proprio in quando vi si ritrovano le tracce di un agire umano armonioso e nonviolento: “formazioni storiche, molte volte in relazione col loro ambiente geografico (...) vengono sentite come belle”. Dunque la natura può essere imponente, può causare la sindrome di Stendhal, può garantire l’esperienza del sublime in senso kantiano e schilleriano, ma la bellezza del paesaggio è storica ed è garantita e suscitata dall’intervento umano: “la storia si è impressa ai paesaggi opera di coltivazione come loro espressione, la continuità storica come loro forma”; Machu Picchu senza costruzioni preincaiche, Rapa Nui senza statue, Nazca senza tracciati sulla sabbia sarebbero imponenti ma non letteralmente belli: “senza una memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza”. Occorre allora educare i ragazzi a “quel potere che ha l’agricoltura di sfruttare la terra a suo vantaggio pur rendendola più bella ”. La terra è da coltivare e da abbellire; non si può abbellirla senza coltivarla, senza lasciare sulla sua superficie e nelle sue profondità delle tracce profonde; si può e si è potuto purtroppo coltivarla senza abbellirla (e il nostro Paese ne è la testimonianza vivente).

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Nonviolenza e internet: quale relazione? e quali possibilità?

- Raffaele Mantegazza: Ci si vuole far credere che i new media siano la nuova koinè del XXI secolo, che Internet ne sia la nuova agorà. Facendo felici Bill Gates e i giovanissimi inventori di Yahoo, si scambia il mezzo per il fine e si dice che le nuove forme di comunicazione realizzano nella loro struttura la società educante, ed educano alla democrazia ed alla libertà. Per noi è vero il contrario; basti pensare che mentre il libro nasce storicamente come strumento di rottura di una costrizione e di emancipazione individuale, il web nasce come strumento imperialistico di controllo assoluto e globale; e noi crediamo fermamente che tutti i prodotti e gli strumenti culturali portino nella loro struttura le tracce profonde della loro origine, come una sorta di peccato originale tecnologico. Una analisi spassionata e critica della nuova educazione lasciata totamente ai new media potrà rendere conto di un’altra preoccupante dimensione della fine dell’educazione come sapere critico e potenzialmente sovversivo. Una caratteristica di tutti i new media è la riduzione dei tempi di riflessione per chi li utilizza; non tanto nel senso di insegnare a riflettere più rapidamente, ma semmai di sottrarre alla riflessione il “di più” rispetto al compito immediato, alla efficacia di una risposta che fa impallidire i teorici del comportamentismo: lo si vede nelle e-mail, negli sms, nei teletext: linguaggio ridotto all’osso e soprattutto risposte pronte, monosillabiche e immediate, senza permettere che la riflessione abbandoni l’ambito dell’immediatezza per volare su altre cime, quelle della trascendenza e della critica. Chiunque abbia frequentato una chat o un blog ne conosce l’imbarbarimento linguistico e comunicativo. Nelle chat e nel blog l’oggetto della discussione letteralmente scompare per lasciare il posto a strani accenni pseudo-relazionali tra i fantasmi umani presenti on line; nelle chat non si discute, se discutere significa prestare attenzione all’oggetto, costruirlo man mano che lo si interpreta, restituirsi a vicenda dimensioni per l’altro invisibili, come nella fiaba indiana dei quattro saggi ciechi che descrivono l’elefante. Oggi l’elefante scompare, sommerso da un linguaggio che vuole solamente avere la ragione della forza, e si disinteressa della forza della ragione. Un ragazzo che nel 2005 annunciò il suo suidicio on line non solo non venne creduto, ma diede luogo a una strana comunicazione nella quale i soggetti partecipanti parlavano non si sa bene di cosa, certamente non dell’annuncio e delle sue conseguenze. Nessuno chiese al giovane sul suo blog i motivi del suo gesto: il ragazzo si gettò da un ponte pochi giorni dopo. Quello del web è un linguaggio che vuole fare più punti dell’avversario e vuole farli in fretta. Si assiste in rete alla “sportivizzazione del discorso” , che non vuole più dire la verità o comunque creare un rapporto con l’altro/a, o inserire l’oggetto in nuove costellazioni, ma  semplicemente far acquisire a chi parla il massimo numero di punti. Le parole tornano quasi allo stadio della formula magica rituale, non nel senso di stabilire una alleanza segreta con il reale ma rafforzando il loro carattere ipnotico, sganciato da ogni possibile referenza, come si trattasse di ordini provenienti da una autorità nascosta ed irrazionale: e tale potere è pagato dal soggetto da un lato con l’elisione della sua soggettività (sostituita dalla logica al contempo pseudo-anonima e pseudo-soggettiva del nickname), dall’altro con la fine della pretesa di un possibile rapporto dinamico con l’oggetto. Il nuovo linguaggio, con il suo  abuso delle abbreviazioni, con il suo ignorare (che non significa trasgredire) le regole dell’italiano o dell’inglese, dà luogo a un  discorso ridotto a prestazione sportiva dal quale viene eliso il di più della metafora, della poesia, della critica. Nel momento in cui si spegne la possibilità per il linguaggio di dire le cose e di significare il mondo, accennando così anche al di là di queste cose e di questo mondo, si apre lo spazio per un doppio delirio linguistico: il delirio del linguaggio scientifico, di carattere strumentale, che si perde nella contemplazione della sua totale trasparenza, che vuole essere unicamente lo strumento di misurazione e quantificazione del mondo, non significando però più gli oggetti ma lavorando unicamente sulle loro definizioni, e il delirio della letteratura che, avendo perso la possibilità di ri-significare il mondo, è costretta a  significare solo se stessa. Due linguaggi che corrono in parallelo senza dire null’altro che se stessi: in questa claustrofobia linguistica si spegne la possibilità per le parole di essere cose, di dire le cose, di significare le cose e soprattutto di andare al di là delle cose: ora la parola può essere solo “flatus vocis”, anzi, baluginante luccichio su uno schermo, insieme di bytes irrelati, apparire subito spento di una frase sgrammaticata in un blog; il campo è libero per un linguaggio che si illude di poter essere mero strumento di manipolazione, accorgendosi però di non lavorare su null’altro che su se stesso, come un mulino che infinitamente non macina altro che la propria perfetta, narcisistica autosufficienza.

L’educazione cui i new media sottopongono in forma anonima i giovani provvede l’ipermediazione della esperienza: non si tratta qui del problema della mediazione che è sempre stata presente da quando il primo primate ha utilizzato un utensile; l’esperienza si presenta all’uomo sempre sotto forma mediata e questa mediazione può anche essere una protezione purché la si possa riconoscere, decostruire e criticare. Parliamo invece della mediazione della mediazione, dell’infinito gioco di mediazioni tipico della rete, della neo-tv e della loro logica:  abbiamo seguito la prima guerra del golfo in tv: osservando il giornalista italiano che ci diceva quello che stava dicendo la Cnn che riferiva quanto riportato da Arnett che nel suo albergo osservava le immagini di Al Jazeera. Schermi che guardano schermi che raccontano schermi, il che comporta la perdita radicale dell’esperienza (rimandata di schermo in schermo a un luogo che c’è - in Irak le persone morivano davvero - ma è così inaccessibile da risultare virtuale - non sono forse del tutto virtuali e sganciate da ogni referente reale le scene delle persone che si gettavano dalle Twin Towers in fiamme?). Ciò che si ottiene è la virtualità di tutti i discorsi, la loro anonimia ed equivalenza: chiunque può dire tutto ovunque, tanto è certo che la parola che smaschera e mette in crisi il reale non sarà mai pronunciata. Questo è il totalitarismo essenziale alla nuova tecnologia; un totalitarismo in chiave estensiva (la rete si vuole universale), in chiave politica (la tecnologia porta oggi al non riconoscimento della legittimità dell’avversario, squalificato a priori e non ascoltato), in chiave intensiva (nulla come le nuove tecnologie ha la capacità di penetrare dentro di noi, nel profondo delle nostre coscienze). La tecnologia è diventata una forma di potere, al di là delle ideologie e del suo uso: è la tecnologia ad usare gli uomini e le donne e a costituirsi come una nuova koinè che non mette più in discussione i fondamenti del mondo nel quale essa si autoriproduce. Per questo essa ha una straordinaria portata educativa, per questo è educazione nel suo intimo, per questo è capace di creare soggetti, di provvedere processi di antropogenesi, di essere pedagogica; per questo il problema di un suo controllo e di una sua gestione pedagogica è molto più complesso di quanto gli apologeti dei new media vogliono farci intendere.

 

- Paolo Arena e Marco Graziotti: Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto?

- Raffaele Mantegazza: Sono professore di pedagogia interculturale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Milano-Bicocca. Sono stato insegnante di scuola superiore e allenatore di pallacanestro. Svolgo corsi di aggiornamento e consulenze individuali per docenti, infermieri, educatori, genitori, medici, allenatori ecc. Ho svolto ricerche interculturali in Kosovo, Giappone, Romania, Germania, Israele, Senegal. Mi occupo del progetto di una pedagogia della resistenza nei confronti dei potere e del dominio. Tra i miei libri L’odore del fumo (Troina 2001); Pedagogia della morte. L’esperienza del morire e l’educazione al congedo (Troina, 2004); Sana e robusta costituzione. Percorsi educativi nella Costituzione Italiana (Molfetta, 2005); Se mio figlio gioca con Mohamed (Milano, 2005); L’educazione e il male (Milano, 2007); Educazione e poesia (Troina, 2009). Attualmente mi occupo delle tracce pedagogiche nelle religioni abramitiche e nei misticismi. Faccio politica a livello locale. Sono sposato con Gabriella,  abbiamo un bimbo, una bimba e due cagnoline. Viviamo ad Arcore, ma non in una villa...