Caro compagno,
ho ancora nelle orecchie l’eco del tuo intervento al Congresso, ascoltato alla radio in un freddo pomeriggio romano: intervento colto e non convenzionale. Eppure è il tuo - piu' che le gelide banalita' dei notai dell’ortodossia - quello che mi ha rimescolato dentro il sedimento d’indignazione che cerco di tenere sopito perche' la disillusione non diventi rancore (nulla di peggio, alla nostra eta').
Tu difendi la svolta della nonviolenza e lo fai con stile, cercando di sfuggire ai balbettamenti da neofiti, al piu' recente e obbligato introibo ad altare dei come un tempo furono la dittaturadelproletariato, il frontepopolare, il partitodimassa, l’autodifesamilitante, l’autoriformadelpartito...
E io, in eguale misura femminista, pacifista, antirazzista, animalista, vegetariana (elenco i qualificativi nella loro coerente processualita' storica), io che trovo ovvio prestare soccorso a un ratto ferito e sottrarre farfalle alle fauci dei miei cinque gatti, temo che questa vostra scoperta - da neofiti, appunto - non sia altro che di maniera, artificiale, superficiale, priva di spessore: una tattica, una delle tante che si sono susseguite nel vostro serpeggiante percorso teorico e politico.
Troppo repentina infatti e' la svolta perche' il vostro recente passato non meriti una riflessione profonda. Il violentismo (perdona il neologismo inelegante), voi l’avete per troppo tempo coltivato o blandito - ricordi l’atto avanguardistico dell’ariete lanciato contro l’ente del turismo turco? - anche quando esso era ormai nient’altro che gesto dannunziano o grottesco futurismo fuori tempo.
Quando, in un’assemblea pubblica dopo l’omicidio di Carlo Giuliani, osai dire, con molti distinguo problematici, che la mimesi della violenza - i caschi, gli scudi, le testuggini, gli arieti... - e' forse cosa perfino peggiore della violenza, che l’obiettivo di espugnare questa o quella “zona rossa” poteva apparire come una metafora feticistica della guerra, che la pratica del “mettiamo in gioco i nostri corpi” era ancora tributaria della cultura della forza, che essa, dopo Genova, oltre tutto appariva ridicola rispetto alla forza vera messa in campo dagli apparati della repressione: bene, quando tentai un abbozzo di analisi di tal tipo, fui messa a tacere.
Non e' sterile recriminazione, ti prego di credermi. E’ piuttosto il tentativo di porti delle domande. Possono essere nonviolente formazioni politiche che non sanno essere gentili? Che non sempre mostrano di conoscere il valore del rispetto? Che non hanno mai tentato di sperimentare nel proprio seno una democrazia radicale? Che sono cosi' ostinatamente sessiste, autoctone e biancocentriche? (sara' per questo che non citate mai Gandhi?) Che spesso hanno un rapporto del tutto strumentale con i propri iscritti tanto da trattarli come merce usa-e-getta? Che esprimono fastidio od ostilita' verso ogni pensiero e comportamento che non si adeguino alla vulgata del momento? Che trattano con sospetto chiunque, esterno all’empireo dei dirigenti maximi e dei loro cooptati, faccia loro dono di impegno, intelligenza e cultura senza perseguire alcun interesse personale?
Penserai che sono domande mal poste, che assolutizzano difetti relativi, dei quali nessun partito e nessuna aggregazione politica sono mai riusciti a mondarsi. Ma voi vi siete incamminati per una strada ardua, che quindi pretende profondita' e rigore. Io ti so tanto intelligente da essere consapevole che la nonviolenza esige radicalita', altissimo senso etico, rispetto profondo per le persone, umane e non umane, e per tutte le forme di vita. A mio avviso, un partito di sinistra non potrebbe articolarla se non nella forma di una religiosita' laica, immanente e tollerante (nel senso piu' alto del termine). Una religiosita' cosi' intesa - che puo' essere agnostica o perfino atea - non si guadagna omaggiando una sola delle incarnazioni storiche del trascendente e neppure concedendo qualche riconoscimento a ognuna delle grandi religioni. No, la vaga conversione a una spiritualita' d’accatto, i riferimenti a san Paolo, alle “radici cristiane dell’Europa” e al Papa non sono adeguati a sostenere una scelta cosi' impegnativa: nel migliore dei casi, sono una retorica e/o una tattica del discorso; nel peggiore, una concessione alle ragioni del moderatismo.
Ben altro ci vuole per potersi dire nonviolenti. Quando avrete inserito nei vostri programmi e nella vostra pratica politica i valori della com-passione e della solidarieta', dell’amicizia e della convivialita', quando avrete dato prova di aver compreso che rispetto e giustizia, liberta' e uguaglianza, democrazia e partecipazione o sono s/confinati o non sono, o valgono in eguale misura per uomini e donne, bianchi e neri, maggioritari e minoritari, nativi/e e migranti o non valgono per alcuno, allora forse potrete dirvi nonviolenti.
Fonte: Centro di Ricerca del la Pace di Viterbo