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Nonviolenza: intervista ad Ettore Masina

Pubblichiamo, come approfondimento sulla nonviolenza, questa intervista di Giselle Dian della redazione di "Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta" ad Ettore Masina, giornalista, scrittore, fondatore della Rete Radiè Resch, già parlamentare, è una delle figure più vive della cultura e della prassi di pace. - Giselle Dian: Quale eredità ha lasciato nella cultura statunitense e mondiale l'esperienza di Martin Luther King, la lotta contro il razzismo e il movimento per i diritti civili?  
- Ettore Masina: Martin Luther King. Sono abbastanza vecchio per poter dire che sono stato educato a un razzismo patriottico e dunque violento. Mio padre, i miei nonni e un certo numero di miei zii e cugini più grandi di me erano ufficiali pluridecorati. Mia madre era figlia di un generale. Da bambino ho abitato tre anni in Cirenaica, parte della Libia ridotta a colonia italiana. Ho imparato a considerare gli arabi un popolo inferiore. Durante la seconda guerra mondiale, mio padre ha combattuto in quei luoghi contro gli insorti libici, considerandoli banditi senza nobiltà. Dopo la Liberazione, ho  potuto rivedere molte convinzioni che mi erano state instillate in famiglia e a scuola, dove mi insegnavano a marciare, in divisa, a cantare "Nell'Italia dei fascisti / Anche i bimbi son guerrieri..." e a smontare e rimontare un moschetto. Sono diventato più consapevolmente cristiano e ho cominciato a cogliere la perversione della violenza. Ho letto Tolstoj e mi ha conquistato con il suo messaggio d'amore. Ho letto Gandhi e ho fatto a tempo a seguire, fra il 1945 e il 1948, le sue vicende. Non so perché, tuttavia, ho provato nei suoi confronti, come nei confronti di Tolstoj, un certo distacco emotivo. (Ben più profondamente mi avrebbero scosso le testimonianze di due donne: Rosa Luxemburg e Simone Weil). Forse fu la sensazione di un contesto ambientale e (quanto a Gandhi) anche culturale e religioso a mantenermi in uno stato di superficialità critica che oggi non riesco a comprendere. Ero comunque più maturo quando Martin Luther King comparve sulla scena internazionale. Aggiungo che egli arrivò sui mass-media mentre la cultura afro-americana (una letteratura di grande vigore: romanzi e poesia, per non parlare di musica) aveva un forte impatto anche fra noi. Le capacità oratorie del leader nero, il suo rifiuto a consolidare un movimento razzista di segno contrario, con la visibilità data ai "bianchi" che condividevano il suo sogno (del resto egli non nascondeva di muoversi nel solco del "bianco" Richard Gregg), il suo intuito nel cogliere le emersioni di nuovi valori, la creatività, il coraggio suo, dei suoi familiari e dei suoi seguaci, la straordinaria coerenza evangelica, tutto questo portò molti di noi ad accettarlo come maestro. Il suo assassinio fu la conferma della grandezza della sua rivoluzione nonviolenta; se Tolstoj era stato un profeta isolato dalla sua stessa classe sociale e Gandhi il condottiero di masse che poi si erano divise nella separazione (forzatamente violenta) di due stati (dunque, alla fine, un profeta sconfitto) il sogno di Martin Luther King non fu ucciso dai razzisti. Credo che non vi sia stato da allora movimento autenticamente rivoluzionario nel mondo (e certamente nessuno dei movimenti con i quali io sono stato in contatto in America Latina, in Africa e in Palestina) che non si sia interrogato sulla nonviolenza e, almeno in certe occasioni,  non abbia cercato di utilizzarne le tecniche. I gruppi argentini delle Madres, delle Abuelas, dei Familiares de la Plaza de Mayo sono esempi ammirevoli di questa scelta.

- Giselle Dian: La solidarietà internazionale con il movimento antiapartheid in Sudafrica ha caratterizzato gli anni Ottanta; e ad essa anche gli artisti (delle arti visive, della musica, della letteratura, del teatro e del cinema) hanno dato un contributo rilevante, particolarmente sul versante della sensibilizzazione. Poi, negli anni '90, la liberazione di Nelson Mandela, la sua elezione a primo presidente democratico del Sudafrica, e l'esperienza straordinaria della Commissione per la verità e la riconciliazione, costituiscono eventi di portata mondiale ed epocale. Quali riflessioni si possono trarre da questa vicenda?  
- Ettore Masina: Ho avuto il privilegio e l'onore di poter visitare Nelson Mandela nella sua casa di Soweto, cinque giorni dopo la sua liberazione. Mi è sembrato un uomo stremato dalle emozioni e dalla fatica di ricevere continuamente personaggi pubblici e vecchi amici. Inflessibile nella sua scelta della nonviolenza. Disse subito a me e ai miei colleghi (un gruppo di deputati italiani) che di lì a pochi giorni, nella prima grande manifestazione di massa avrebbe chiesto a tutti di deporre le armi se davvero volevano costruire uno stato libero e giusto. Le sue parole ci emozionarono per la forza etica e politica che contenevano, ma non ci meravigliarono. Sapevamo di una scelta lungamente maturata. Quello che mi colpisce maggiormente, ricordando quei giorni, è un incontro avuto con il signor Meyer, ministro dei rapporti con il Parlamento nel governo Botha. Ci disse, a un certo punto, che i suoi colleghi avevano compreso la necessità dell'uscita dall'apartheid. Si arrestò un istante e tornò sul discorso: "compreso anche emotivamente", chiarì. Meyer era (è) un boero, dunque appartenente alla minoranza afrikaner, la più razzista. Quel suo discorso conteneva dunque una preziosa lezione: nonviolenza vuol dire anche controllo delle emozioni, riscatto delle emozioni.
In quegli stessi giorni avemmo la fortuna di poter parlare a lungo con Desmond Tutu. Questo piccolo uomo dai capelli candidi e dal volto color carbone si muoveva disinvolto nella grande sede dall'arcivescovado anglicano di Cape Town, senza nessun imbarazzo per i  grandi ritratti dei suoi predecessori inglesi che sembravano guardarlo con sospetto dalle pareti. Sorridendo diceva cose enormi, sottolineando i progressi del popolo nero piuttosto che le lotte sopportate. Stava studiando la Commissione per la verità e la riconciliazione, di cui sarebbe stato il presidente. Mirava a una pacificazione inter-razziale, da realizzarsi però senza la cancellazione della storia e senza lasciare in solitudine le vittime e i loro parenti. I colpevoli di tante violenze avrebbero ottenuto il più ampio perdono se l'avessero richiesto ammettendo le proprie colpe. A questo modo verità, giustizia e amore si sarebbero abbracciate.

Fonte: Centro di Ricerca per la pace di Viterbo