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Riflessioni sulla nonviolenza: parliamone con Augusto Cavadi, Alberto L'Abate, Roberto Mancini ed Enrico Peyretti

Raggruppandole, come se fosse una tavola rotonda, pubblichiamo queste interviste sulla nonviolenza fatte singolarmente da Marco Ambrosini e Marco Graziotti, della redazione di "Viterbo oltre il muro"(1), a Augusto Cavadi, Alberto L'Abate, Roberto Mancini ed Enrico Peyretti.

Marco Ambrosini e Marco Graziotti: Nella storia del Novecento la nonviolenza ha caratterizzato importanti esperienze, dalle lotte condotte da Gandhi dapprima in Sudafrica e successivamente in India, alle esperienze di resistenza nonviolenta contro il nazifascismo, alle lotte di Martin Luther King contro il razzismo, fino alla lotta di Aung San Suu Kyi. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza alla storia degli ultimi cento anni?

  • Augusto Cavadi: Un seme. Come tutti i semi può essere spazzato via - è stato spazzato via tante volte - dai venti avversi, ma potrebbe - può - maturare e diventare albero. Fuor di metafora: da esperienza minoritaria e profetica potrebbe diventare mentalità diffusa, anzi comune. Il contrassegno di una nuova tappa evolutiva nella storia dell'animale umano

  • Alberto L'Abate: Credo che la nonviolenza sia stata la vera rivoluzione sociale di questo secolo che ha cambiato, o meglio sta cambiando, l'andamento della storia. Prima si credeva che per fare una rivoluzione sociale, o difendere un paese da un attacco nemico, fosse necessario avere molte armi e difendersi o attaccare con la violenza, attualmente è sempre più chiaro che la vera forza trasformativa è quella di una nonviolenza portata avanti da intere popolazioni ben preparate e coscienti di quello che fanno. È difficile arrivarci ma è la strada principale per raggiungere una società più giusta e più pacifica.

  • Roberto Mancini: Nella storia dell'ultimo secolo la nonviolenza ha dischiuso un paradigma inedito di assunzione collettiva della morale, di lotta politica, di rifondazione della convivenza su basi di riconoscimento interumano e non di dominio. Questo è il contributo principale, consistente nel mostrare che la via nonviolenta è possibile, praticabile e feconda su scala politica, storica, e non solo di esperienza individuale. Una svolta simile ha permesso tra l'altro il ripensamento dell'idea di giustizia in quanto giustizia intera, che non fa vittime, che non riproduce le violenze che vuole combattere. Inoltre questo paradigma inedito ha consentito anche di ripensare l'universalità delle fedi, delle culture, di ogni riferimento umano alla verità, in modo che la logica di monopolio, di possesso, di persecuzione della differenza possa risultare non necessaria, inattendibile e nociva, perché è possibile e doveroso trovare forme nuove di riferimento alla verità e di corresponsabilità per la condizione storica comune dell'umanità. Proprio la nonviolenza ha dimostrato che il senso della politica non è dato dallo scopo di vincere sugli altri, ma dallo scopo di imparare a convivere pacificamente ed equamente.

  • Enrico Peyretti: La nonviolenza attiva e positiva è la via di scampo dalla discesa nella distruzione intrapresa dalla politica di potenza, che ha predisposto mezzi e fenomeni di distruttività fino alla fine. La nonviolenza è l'alternativa all'andare delle cose, che nessun'altra cultura e prospettiva vede e possiede così chiaramente. Tutte le culture politiche concedono troppo alla piega automatica presa dalle tecniche, e alle concezioni dominanti.

 

Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione nonviolenta si è intrecciata con varie tradizioni del pensiero politico, ha apportato contributi fondamentali, ed ha costituito e costituisce una delle esperienze maggiori della filosofia politica odierna. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero politico?

  • Augusto Cavadi: Non sono uno specialista, ma cerco di leggere con qualche attenzione. Ho l'impressione che, nell'ambito della produzione intellettuale sul tema, ci sia ancora molta strada da fare. Il pensiero politico pacifista ha fruito di apporti già abbastanza significativi; non altrettanto il pensiero politico nonviolento. Comunque altri colleghi da voi interpellati potranno regalarci nomi, testimonianze e titoli e a me ignoti.

  • Alberto L'Abate: Credo che una delle teorie politiche che ha avuto maggiore conferme dalla storia di questo secolo è quella del potere elaborata e sviluppata da Gene Sharp nel primo volume della sua trilogia sulla politica della nonviolenza, teoria che lui definisce la teoria diffusiva del potere. Quella concentrata o unitaria del potere ritiene che il potere sia tutto concentrato in chi governa e che, per cambiare, bisogna cambiare il gestore, o con una rivoluzione violenta o con il voto. Quella diffusiva dimostra come il potere sia molto diffuso e che tutta la popolazione ne ha un poco ma spesso, anche grazie all'insegnamento ed indottrinamento dei potenti, non è cosciente di averlo e non l'utilizza. Ma se prende conscienza del suo potere e comincia ad utilizzarlo, il gestore del potere alla fine è costretto ad abbandonare la sua posizione ed avviene quella appunto che potremmo definire una "rivoluzione nonviolenta", non facile da realizzare ma possibile, come dimostrano alcuni casi storici di questo secolo. Un'altra teoria importante che ha avuto numerosissime conferme storiche è quella del cosiddetto "principio di reciprocità", o "effetto reciproco sequenziale" di cui parla Kriesberg nel suo "Sociologia dei conflitti" e da me ripresa in uno dei capitoli del mio libro "Per un futuro senza guerre". Credo che questi siano dei contributi di cui non si possa fare a meno se si vuole non solo comprendere la realtà attuale ma anche trasformarla nel senso possibile e desiderabile (vedi il costruttivismo di Galtung, altra teoria per me fondamentale).

  • Roberto Mancini: Il vecchio paradigma polemologico, reso esemplare ad esempio da Carl Schmitt, prevede che la politica sia l'esercizio dell'ostilità, la contrapposizione a un nemico. Con la nonviolenza l'idea stessa di politica muta il suo orientamento e la sua struttura in quanto non solo si prefigura la pace come meta, ma si approfondisce l'idea della pace come metodo, ossia come via indispensabile per tessere le condizioni della vita comune e per affrontare i conflitti in essa implicati. Dalla svolta della nonviolenza in poi i politologi del vecchio paradigma sono costretti a esplicitare e a delegittimare la via nonviolenta per ripetere la loro concezione giacché ormai è chiaro che un'alternativa è concepibile e probabilmente possibile e praticabile. Questa svolta libera le energie del pensiero politico critico, che deve ancora sprigionare la sua piena capacità euristica nel trovare soluzioni nuove.

  • Enrico Peyretti: La concezione nonviolenta della politica, della gestione della "polis" locale e planetaria, è conservatrice di ciò che è da conservare, cioè le condizioni della vita (imperativo categorico formulato da Hans Jonas), ed è rivoluzionaria in quanto vede non il potere degli uni (fossero anche i migliori santi) sugli altri, come categoria politica finora considerata essenziale da tutte le teorie, ma il "potere insieme", o "potere di tutti" (Capitini) come necessaria concezione base della convivenza pacifica e umanizzatrice.

 

Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione nonviolenta si è intrecciata anche con la ricerca e la riflessione sociologica, dando contributi rilevantissimi. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero sociologico e alla ricerca sociale?

  • Augusto Cavadi: Anche in questo settore le mie conoscenze sono assai limitate. Oltre che il "solito" Danilo Dolci (e, per giunta, limitatamente a una certa data della sua vicenda umana e intellettuale) ci sono sociologi che esplicitamente imperniano nei principi della nonviolenza la loro ricerca?

  • Alberto L'Abate: Ho risposto anche a questa domanda rispondendo alla precedente, dato che, secondo me, non si può separare la sociologia dalla politica e dalla ricerca sociale, a meno di non avere una idea molto limitata della sociologia che la vede solo come disciplina analitica che permette di capire ma non di trasformare la realtà, il che, secondo me, è un grosso difetto ed errore.

  • Roberto Mancini: Analogamente, anche il pensiero sociologico può godere dei frutti liberanti di questo paradigma inedito perché grazie al riferimento alla nonviolenza la sociologia può contare su un criterio per capire e valutare le dinamiche dei conflitti, imparando a riconoscere le loro forme nondistruttive e invece quelle chiaramente distruttive. Così la sociologia può non solo riscontrare e registrare le forme prevalenti di azione collettiva, ma anche individuare il potenziale di liberazione presente, seppure in maniera latente, in una data situazione sociale e culturale.

  • Enrico Peyretti: Non so parlare di sociologia. Posso dire soltanto che la concezione della "società di soci" e non di "rivali" è la base di un pensiero, una ricerca, un'azione sociale che unisce per la vita, e non oppone in una gara ad eliminazione dei più deboli, come avviene nelle dinamiche oggi non solo praticate ma pensate come naturali e necessarie, nell'ideologia violenta delle libertà nemiche tra loro. Credo vera l'osservazione di Kant sulla "insocievole socievolezza" degli esseri umani, cioè sullo spazio fondamentale di autonomia degli individui, come limite del peso della società sulla persona. Ma dall'autonomia alla rivalità c'è un salto inaccettabile, distruttivo. La rivoluzione culturale del Sessantotto euro-atlantico ha rivendicato la persona contro il sistema, ma in prevalenza, negli effetti di massa, ha ceduto alla concezione individualistica separatistica e concorrenziale. Non il comunismo nel vecchio senso sovietico violento e imperativo, ma la cultura dei "beni comuni", che uniscono per vivere e non ci rendono rivali mortali, è il modello nonviolento di società, il solo che possa avere un futuro umano.

 

Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La riflessione e le esperienze nonviolente hanno potentemente investito anche l'economia sia come realtà strutturale sia come relativo campo del sapere. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero economico?

  • Augusto Cavadi: In questo ambito (dove non ho certo competenze più ampie che negli altri toccati dalle vostre domande) direi che molte teorie economiche (alla Amartya Sen) e molte iniziative economiche (alla Muhammad Yunus) che provano a relativizzare il capitalismo - senza nè fughe in avanti appassionanti ma irrealistiche (anarchismo) nè tantomeno cadute in rimedi peggiori del male (socialismo di transizione verso il comunismo) - sono da considerare patrimonio della cultura nonviolenta.

  • Alberto L'Abate: Anche l'economia è una delle scienze sociali e va vista insieme alle altre già citate (con altre come l'antropologia, la pedagogia, ecc.). Credo comunque che il contributo più importante è quello che per una vera rivoluzione nonviolenta non si può solo cambiare i dirigenti attualmente al potere ma che bisogna modificare del tutto l'attuale modello di sviluppo che sta arricchendo i più ricchi (come persone e come paesi) ed impoverendo gli altri, e sta rovinando la natura intorno a noi e sprecando, in modo del tutto irresponsabile, tutte le risorse del nostro pianeta. Purtroppo questo aspetto non è ancora compreso anche da una buona parte della cosiddetta opposizione politica del nostro paese che si rifà sempre al modello attuale di sviluppo credendo che basti cambiare i gestori attuali e mettere loro al loro posto perché tutto possa cambiare. Una grande illusione!

  • Roberto Mancini: In questo campo si devono ancora fare molti passi; le vie nuove sono state segnalate da quanti, ispirandosi a Gandhi, come nel caso di Narendar Pani e di altri, hanno focalizzato l'irriducibile tensione tra nonviolenza e capitalismo e hanno delineato un'idea di economia che si fonda su nozioni quale il bene comune, l'affidamento fiduciario di beni, mansioni e ruoli professionali, la relatività della proprietà, il valore dei territori come luoghi di comunità umane corresponsabili della risposta ai bisogni e ai diritti delle persone. Il paradigma della nonviolenza fornisce la base teorica, analitica ed euristica più radicale per la critica della logica del capitalismo, così come della logica di ogni statalismo totalitario. Chi in nome del marxismo tradizionale guarda con sufficienza alla nonviolenza non si è minimamente reso conto di questo potenziale radicalmente trasformativo che ci porta oltre la vecchia e falsa alternativa tra riforme che accettano il sistema e rivoluzione violenta che s'illude di cambiarlo con la forza, la costrizione e il terrore.

  • Enrico Peyretti: Ancor meno so parlare di economia. Direi in una parola che, come ancora in qualche buona misura sottoponiamo all'etica universale (almeno la "regola d'oro", il principio di eguaglianza di tutti davanti alla legge, l'inviolabilità dei fondamentali diritti della persona) i rapporti interpersonali, così deve essere culturalmente sottoposta alla stessa etica l'attività economica, la gestione dei beni che hanno valore, significato, effetto sociale su molti viventi e sulla natura. Il contrario, l'economia senza etica, è delitto.

 

Marco Ambrosini e Marco Graziotti: La teoria-prassi nonviolenta ha recentemente avuto uno svolgimento importantissimo nel campo del diritto e specificamente del diritto penale, con l'esperienza sudafricana della "Commissione per la verità e la riconciliazione" e con le numerose altre iniziative e successive teorizzazioni che ad essa si sono ispirate. Come definirebbe e descriverebbe il contributo della nonviolenza al pensiero giuridico e alla pratica del diritto?

  • Augusto Cavadi: Nella mia città (Palermo) abbiamo provato a immaginare, e a raccontare in un libro ("Nonviolenza e mafia", a cura di V. Sanfilippo, Di Girolamo, Trapani 2005), cosa potrebbe significare affiancare (non sostituire!) l'attuale apparato giudiziario-repressivo con un sistema di prevenzione e di recupero sociale dei criminali mafiosi e, soprattutto, della cerchia di familiari e simpatizzanti che ruota intorno a ciascuno di loro. Successivamente qualcuno di noi è stato invitato anche a lavorare in iniziative di dialogo con adulti condannati (per reati minori) a pene alternative alla reclusione carceraria. Ma si tratta di micro-esperimenti che difficilmente, a mio avviso, potranno compensare il peso schiacciante del pessimo "esempio" di Stati grandi e potenti che praticano la tortura e la pena di morte. Non vedo spiragli sino a quando l'elettorato non imporrà ai partiti politici e, tramite i loro rappresentanti in Parlamento e al Governo, di inserire queste tematiche nei programmi elettorali fra cui scegliere. Certo, l'Italia o la Spagna non potranno convincere la Cina o l'Iran a cancellare pratiche violente e disumane; ma, almeno, potranno denunziare a chiare lettere l'ipocrisia di Stati occidentali, come gli Stati Uniti d'America, che criticano quanti preparano ordigni nucleari come se ne fossero privi essi per primi; o come quegli Stati europei che vedono nella pena di morte un ostacolo insormontabile alla cooptazione della Turchia, ma non alla sinergia politica e militare con gli Stati Uniti d'America.

  • Alberto L'Abate: Questa domanda mi fa venire in mente quella che gli amici nonviolenti indiani chiamano la "rivoluzione totale", una rivoluzione che coinvolga non solo la persona umana nel suo intimo e nei suoi pensieri, ma anche tutte le strutture sociali intorno a lei, comprese quelle giuridiche, senza cadere in quei due miti di cui parla Galtung nei suoi scritti, "il mito della yoga e quello del commissario". Il mito dello yoga è quello di chi crede che basti modificare l'essere umano per avere una società migliore e più giusta, quello del commissario è di credere che basti modificare le strutture sociali intorno a lui per avere quello stesso risultato. Sono tutti e due miti perché se cambio solo l'essere umano e non le strutture sociali, queste riusciranno a modificare anche il primo e ritornare alla posizione precedente, ma anche il secondo è un mito perché anche se cambio solo le strutture e non l'essere umano succederà la stessa cosa. Per questo bisogna lavorare contemporaneamente alla modifica delle strutture sociali e dell'essere umano. È questo che ci insegnano Gandhi, Capitini, Freire, Galtung e tanti altri.

  • Roberto Mancini: Qui il contributo della nonviolenza ha avuto e ha una funzione precisa, quella di sviluppare l'idea e le implicazioni operative del concetto di giustizia restitutiva, cioè una giustizia volta non a colpire ma a guarire, non a infliggere sofferenza ma a risanare le situazioni. L'influsso del paradigma della nonviolenza è emerso soprattutto nel costituzionalismo dal secondo dopoguerra a oggi, nell'ottica del rispetto e della risocializzazione di chi ha riportato gravi condanne penali. Le politiche per la trasformazione della pena sono la naturale espressione della percezione dell'universale dignità umana tipica della concezione nonviolenta della vita e del cammino dell'umanità.

  • Enrico Peyretti: L'esperienza sudafricana citata mi pare che abbia un grandissimo valore e un forte significato indicativo della via da seguire verso una giustizia riparatrice nonviolenta. Alla vendetta giuridica - pena legale come male in risposta al male del delitto (in realtà, aggiunta non riparatrice di male a male, violenza legale aggiunta alla violenza illegale) - si è cercato, con grande sapienza pratica e discreta efficacia, di sostituire una giustizia riparativa e ricostruttiva: la riconciliazione mediante il riconoscimento del dolore inflitto, la restituzione da parte del colpevole della dignità offesa nella vittima, il perdono giudiziario. Nessun risultato è pieno e perfetto, ma qui c'è una indicazione necessaria, profondamente redentiva nella vicenda umana, per ridurre la giustificazione della violenza, e guarire il male che ci facciamo con il bene che possiamo farci, nel rispetto. Guardare, capire, rispettare il dolore degli altri, è la via che può disarmare il pensiero e la mano, tanto del singolo che della società. Come cento anni fa con Gandhi nei rapporti civili, è in Sudafrica che la nonviolenza ha compiuto questo passo nel campo del diritto giudiziario.

 

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo

Impaginazione Tipografica: AadP

 

(1): Spazio di informazione nonviolenta, un'esperienza nata dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a Viterbo.

 

Paolo Arena e Marco Graziotti, dell'Associazione "Viterbo oltre il muro", che opera nell'ambito della formazione alla nonviolenza, hanno proposto singolarmente agli intervistati queste domande.

Come Accademia Apuana della Pace, nel pubblicare queste interviste,abbiamo deciso di raggrupparle , in modo da permetterne, nella lettura, un confronto tra le diverse posizioni.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo