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Il diritto di avere diritti. per una cittadinanza condivisa (Maria G. Campari)

Dal sito dell'Università delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente relazione di Maria Grazia Campari tenuta a Firenze il 4 novembre 2006 nell'ambito del secondo ciclo di incontri seminariali sul tema "Città reale / città possibile. Mappe della convivenza. Periferie e materialità del vivere", promossi dalla "Libera università Spazia”. Maria Grazia Campari è una prestigiosa giurista e intellettuale femminista, impegnata nei movimenti per la pace e i diritti

Sono molto sollecitata dal concetto di città come bene comune e da una ricerca indirizzata alla realizzazione di mappe di convivenza. Vi ritrovo alcune suggestioni che personalmente ho tratto da una serie di incontri tenuti negli ultimi due anni presso la Libera università delle donne di Milano.
Eravamo partite - con un seminario dal titolo significativo "Paura/sicurezza" - dalla constatazione che la profonda disuguaglianza dei livelli di vita e il drastico ridimensionamento dello stato sociale allargano la forbice fra garantiti ed esclusi, determinano nei primi l'insorgere di un egoismo proprietario che costruisce muri, in difesa di cittadelle del benessere assediate. Casi recenti nel Lombardo Veneto confermano la permanenza della fase e illustrano il concetto alla lettera, con la costruzione di muri e valli per impedire l'ingresso a immigrati e rom. Del resto, già negli anni Novanta del secolo scorso l'insicurezza era divenuta paura a causa delle guerre da globalizzazione e dei provvedimenti securitari, pretesamente difensivi dell'Occidente, in realtà fonte di disastri umanitari e di reazioni belliciste (attentati, minacce di armi atomiche, chimiche, batteriologiche).
In questo secolo, la pretesa sicurezza dell'Occidente produce la guerra permanente e preventiva.
Si instaura un circolo vizioso: la paura suscita bisogno di sicurezza e legittima risposte che, in nome della sicurezza, riproducono paura.
A livello globale viene sancita una politica di pura potenza che rimuove qualsiasi pretesa di obbedienza ad un ordine giuridico precostituito. Anzi, le stesse regole esistenti vengono rimosse attraverso comportamenti di costante e impenitente disapplicazione: le violazioni di diritti umani e di principi costituzionali di "habeas corpus" attuate nella prigione statunitense di Abu Ghraib, modificano la giurisprudenza e la stessa legislazione di quel paese.
Una situazione che induce a chiedersi se possa ancora ritenersi che sopravvivano principi fondamentali di diritto rispetto ai quali non è possibile alcun compromesso.
La categoria della sicurezza consente agli apparati pubblici di disporre della vita dei cittadini (sudditi) eliminando, in tendenza, i diritti universali. Ogni intervento di forza del potere diventa legittimo.
Non solo, la difesa securitaria del sè separato e distinto, diviene rigetto dell'altro, crea il clima sociale che "normalizza" esclusione e violenza, chiusura in fortini identitari e familistici, che funzionalizzano le donne a ruoli tradizionalmente previsti, negandone l'identità di soggetti costituenti della società, consegna a pochi ogni potere decisionale.
È così che l'appropriazione privata della democrazia si traduce in una rapina di soggettività per quanto riguarda le donne.
Il nostro compito, io credo, è scompaginare questo ordine, affrontare questa tematica usando un altro punto di vista, affermando un esteso "diritto di avere diritti", secondo la prospettiva suggerita da Hannah Arendt.

Il diritto di avere diritti, significa riconoscere ad ogni essere umano, indipendentemente dalla sua cittadinanza nazionale, lo statuto universale di persona.
Ciò comporta, sviluppare un regime internazionale che sganci il diritto di avere diritti dalla nazionalità.
Pensare ad una cittadinanza plurima, condivisa fra differenti.
Il diritto dell'umanità nella propria persona comporta il riconoscimento di ciascuno come portatore di eguale diritto all'interno di un gruppo di consociati; un'uguaglianza civica o politica che non si riferisce all'identico, ma prevede il rispetto della differenza. La formazione di un popolo democratico che si costituisce come corpo politico autonormante, può essere vista come un continuum di trasformazione e sperimentazione che derivano dalle relazioni discorsive e dagli scambi culturali fra i residenti in un territorio.
Il governo democratico è esercitato in nome di uno specifico corpo costituente, che è il "noi, il popolo" dell'autoregolamentazione.
Una comunità che si vincola e si autodefinisce, territorialmente e in termini civici sulla base di un ordinamento giuridico scelto e condiviso.
Come nota Seyla Benhabib ("I diritti degli altri"), ancora oggi, nel corpo sovrano autocostituito, non tutti sono membri a pieno titolo.
Storicamente, la comunità civile ha conosciuto limiti più o meno mobili.
Da un lato, i membri del corpo sovrano, dall'altro, coloro che non godevano dei pieni diritti di appartenenza al corpo politico e al progetto di cittadinanza autonormata, coloro che non partecipavano alla elaborazione delle regole che governano la polis, definiti da Kant "dipendenti della comunità": donne, uomini non possidenti, servi, schiavi.
Le donne godevano di cittadinanza di seconda classe nel corpo politico, potendo essere considerate parti del corpo sovrano in virtù di legami familiari, sociali, religiosi.
Ciò fino all'acquisizione del diritto di voto, ma, a questo proposito, sarebbe opportuna un'approfondita riflessione sul diritto di elettorato passivo, ancora non disponibile direttamente per le donne, sulle implicazioni rispetto alla cittadinanza.
Oltre alle donne, altri residenti possedevano e possiedono ancor oggi uno status di seconda classe, essi non appartengono al popolo sovrano a causa di qualche significativo criterio identitario, cioè non soddisfano ai criteri in base ai quali il popolo identifica se stesso, per lo più provengono da altri territori, appartengono ad etnie considerate estranee.
I loro diritti rientrano (teoricamente) nei diritti umani e sono governati dal diritto internazionale, sono soggetti eteronormati.
La storia dimostra che questa situazione genera mostri.
Sul versante femminile - quello che conosco maggiormente - sono convinta che la condizione di estraneità ai livelli decisionali alti, di estromissione dai destini della polis, comporti l'esibizione di personalità represse e succubi, determini nelle donne e anche negli uomini un blocco della libertà interiore, che rende molto difficile la pratica della libertà individuale e lo sviluppo di personalità aperte alla relazione paritaria con l'altro, quindi alla pratica della democrazia. Con una conseguenza, che la gran parte degli esseri umani desidera essere governata, seguire supinamente un leader, dismettere ogni libera partecipazione al farsi della vita pubblica democratica.

Come si può, allora, favorire un disegno di libertà capace di emancipare dalla soggezione e dalla deresponsabilizzazione? A me sembra importante favorire la libertà di movimento e di residenza, la condivisione dei nostri spazi territoriali con parità di diritti.
Inoltre, mi sembra importante individuare misure capaci di favorire l'accesso allargato e articolato allo spazio pubblico, la condivisione ampia dello spazio politico.
La libertà di movimento, sottolinea Arendt, è il gesto originario dell'essere liberi, la condizione primaria dell'azione che veicola l'esperienza umana primaria di libertà nel mondo.
Il concetto di libertà è preciso: la libertà è quella che si gioca nel mondo cioè nello spazio pubblico che sorge fra le persone, spazio in cui ogni individuo diviene visibile e udibile e si assume la responsabilità di produrre regole, ordine/ordinamenti giuridici, che rendono compatibile la libertà di ognuno con quella di ogni altro.
Allora, una possibile via di uscita dal presente infelice stato delle cose potrebbe essere quella di rendere il territorio luogo delle relazioni fra tutti i residenti e la cittadinanza una modalità allargata di partecipazione e di contaminazione reciproca, per la reciproca civilizzazione.
Nei tempi presenti, è più che mai importante mettere in comunicazione esperienze diversificate, valorizzare la circolarità dell'esperienza umana per fondare una cittadinanza plurisoggettiva condivisa, destinata a trovare un apparato di regole universali che possano filtrare le differenze senza opprimerle nell'unicità, favorendo lo scambio fra diversi.
Un'esperienza cui ognuno potrebbe partecipare come agente delle proprie ragioni e desideri, essendo responsabile di esperienze collettive condivise.
Ciò che opera, in prospettiva, l'allargamento delle sedi di discussione e dei livelli decisionali circa i mezzi e i fini che la società si propone e può determinare una riorganizzazione delle regole che la reggono.

Nel momento attuale, il terreno di questa sfida è, secondo me, l'Europa che dovrà in un prossimo futuro elaborare una diversa e più democratica carta costituzionale.
Quel testo dovrebbe trovare il suo cardine in una ridefinizione della cittadinanza europea come cittadinanza plurisoggettiva, cosmopolita, condivisa con l'altro, il diverso rispetto al cittadino della tradizione borghese patriarcale.
In questa ipotesi, il diverso transita dall'essere oggetto di una definizione da parte del soggetto all'essere egli stesso soggetto nel discorso, nella societa, nella politica.
È posta all'ordine del giorno l'ideazione di una cittadinanza non incapsulata in una nazione, una comunità, un gruppo, un soggetto, ma libera da processi di inclusione/esclusione, articolata orizzontalmente su tutto lo spazio territoriale.
Il concetto si può estendere, mutarne il segno.
A questo fine le città possono diventare laboratori di buone pratiche, integrando l'altro nel tessuto discorsivo e decisionale sui temi della vita associata, allargando la cittadinanza fino a ricomprendere tutti coloro che sono presenti e decidono di spendersi, di darsi parola e responsabilità.
Le pratiche politiche locali possono, trovando le opportune mediazioni, influenzare il livello globale.
Un ordine diversamente orientato e condiviso può essere rielaborato ai margini delle istituzioni date. Non è necessario (forse non è utile) negarle in radice, ma occorre modificarle e riarticolarle per crearne di nuove, opera di soggetti differenti.