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L’ORA, Palermo, la mafia

Vent’anni fa il quotidiano siciliano chiudeva i battenti, dopo quasi un secolo di vita e dopo decenni di battaglie ai ferri corti con la mafia. Gli slanci, le motivazioni e le lezioni di quell’avventura in redazione in una conversazione con Letizia Battaglia, fotoreporter storica del giornale.
di Carlo Ruta

La fine de L’ORA era stata annunciata diverse volte lungo i decenni, perché i problemi, soprattutto economici, in questo piccolo giornale non erano mai mancati. Ma nel 1992 la storia del quotidiano di Palermo era all’epilogo. In quei momenti i redattori speravano ancora che la loro «fenice» riuscisse a risorgere, prima che le rotative si fermassero. Falliti però tutti i tentativi di accordo tra la cooperativa dei giornalisti, il PDS, proprietario della testata e degli impianti, e il nuovo editore, la NEM, le possibilità erano nulle. L’8 maggio 1992, l’ultimo numero del quotidiano intitolava, in modo significativo, «Arrivederci», e aggiungeva: «Oggi il giornale sospende le pubblicazioni ma non vogliamo dire addio ai nostri lettori». Nell’editoriale di quel giorno era Michele Perriera a spiegare cosa era stato e cosa aveva reso importante l’esperienza del giornale, ma anche i motivi che lo avevano costretto alla chiusura. Lo scrittore palermitano riteneva che l’errore principale fosse quello «di credere che sarebbe stato il Nord a salvare il Sud, e che quindi non convenisse investire troppo nel Sud caotico e corrotto». E questo errore, a nome di tutta la redazione, l’editorialista lo imputava alla proprietà, cioè al Partito Comunista, cui sarebbe sempre sfuggito che «il destino della democrazia italiana si può riqualificare solo a partire dal riscatto delle sue zone più martoriate e più malsane».

L’ORA, da Gian Luigi Ingrassia a Vittorio Nisticò, da Etrio Fidora a Vincenzo Vasile, non possedeva le risorse finanziarie per poter essere un giornale «perfetto». Non godette mai di una diffusione importante, nella stessa Sicilia. Nei primi anni settanta, quando era all’apice del suo impegno investigativo e di denuncia, vendeva solo 20mila copie al giorno, in gran parte a Palermo, città che contava allora quasi 700mila abitanti. Era però una voce diversa e un’esperienza complessa, pure sotto il profilo intellettuale. L’importanza che riuscì a conquistare crebbe quindi a prescindere dai numeri e dalle ristrettezze aziendali. Giuliana Saladino, che ne era una delle firme più incisive, nel 1972 lo ritraeva come «un giornale con pochi soldi, disordinato e coraggioso», che collezionava «errori impennate cadute salti all’indietro e salti in avanti», e che comunque, «abbarbicato con le unghie e con i denti ad una certa linea sicilianista», non si stancava di denunciare gli scandali e di gridare contro la mafia che dominava la vita pubblica siciliana. Pagò per questo modo di essere un prezzo alto, con attentati, di cui uno distruttivo, e, soprattutto, con tre morti: un caso unico nella storia del giornalismo italiano del secondo Novecento. Cosa che ne faceva, a ben vedere, non solo o non tanto un giornale in un teatro di guerra, ma un giornale in guerra. Per paradosso, alla fine ha dovuto arrendersi non ai poteri territoriali che aveva a lungo sfidato, ma alle leggi di mercato e alle implosioni della politica.

In Italia la scomparsa del giornale palermitano passò quasi inosservata. «Il Corriere della Sera» e «La Stampa» la ignorarono. Solo «La Repubblica» ne accennò, in decima pagina, in un articolo breve che segnalava pure la crisi de «L’Indipendente». Al centro dell’attenzione generale c’era altro. Era già partito, dopo poco meno di mezzo secolo, il count-down dei governi a base democristiana, sotto il peso delle inchieste di Milano, e andavano aprendosi le brecce che avrebbero introdotto il Paese nella cosiddetta seconda Repubblica, con il collasso dei vecchi partiti e la scesa in campo di Silvio Berlusconi. Dopo l’incalzante sequela di uccisioni dei primi anni ottanta, che aveva decapitato il ceto dirigente della Sicilia, i riflettori sull’isola, in particolare su Palermo e Trapani, non si erano mai spenti. La mafia aveva continuato ad attaccare lo Stato, colpendo soprattutto magistrati e funzionari di polizia, cui il 416 bis, voluto da Pio La Torre e introdotto dopo l’assassinio del generale Dalla chiesa, aveva conferito maggiori facoltà di contrasto alle economie criminali. Dal 1988 al 1991 erano caduti, tra i tanti, l’agente di polizia Lorenzo Mondo, il presidente di Corte d’Appello di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano, il sostituto procuratore di Agrigento Rosario Livatino e il sostituto procuratore in Cassazione Antonio Scopelliti. Nel 1992 si arrivava poi a un punto cruciale.

Il 30 gennaio la Corte di Cassazione confermava gli ergastoli comminati al gotha della mafia nei primi due gradi di giudizio del maxiprocesso. Partiva allora una nuova campagna di terrore, ispirata soprattutto dalla vendetta. Il 12 marzo i boss corleonesi assassinavano Salvo Lima e alcune settimane dopo, il 4 aprile, era la volta del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, noto per il suo acume investigativo. Palermo balzava tuttavia al centro dell’attenzione pubblica, italiana e internazionale, il 21 maggio, appena 15 giorni dopo la chiusura del giornale, quando esplodeva la bomba che uccideva Falcone, la moglie Francesca Morvillo e diversi agenti di scorta. La strage di Capaci e, il 19 luglio, quella di via D’Amelio, in cui perdevano la vita Paolo Borsellino e cinque agenti di polizia, costituivano un trauma per l’intero Paese.

La vicenda de L’ORA, in quel clima tragico e surreale, diventava ancora più minuscola. Per paradosso, il destino del giornale che più di ogni altro aveva sfidato i poteri criminali, fino a divenire un simbolo della lotta alla mafia, in Italia e all’estero, in quei frangenti non evocava più nulla. Alla vigilia della chiusura numerosi esponenti della cultura e della politica avevano sottoscritto un appello, e si continuava a lavorare per un ritorno in edicola. Ma i mesi passavano pressoché inutilmente, mentre la mafia consumava altre vendette: a settembre veniva assassinato infatti Ignazio Salvo, già potente esattore della Sicilia. Nel dicembre 1993, quando si consolidava nell’informazione siciliana l’asse tra gli Ardizzone di Palermo e il catanese Mario Ciancio, editori dei due maggiori giornali della regione, era la Lega delle Cooperative a lanciare una proposta, che suggeriva la ripresa delle pubblicazioni, per i primi tre anni con i fondi sequestrati ai clan mafiosi. Contestualmente la cooperativa dei giornalisti apriva una trattativa con una catena editoriale italiana e con diversi imprenditori dell’isola. Non ne usciva nulla. Infine la vendita del palazzetto liberty de L’ORA e degli impianti tipografici poneva fine a ogni illusione. Il triestino Etrio Fidora, che era stato direttore del giornale negli anni settanta, spiega: «Solo a quel punto ho compreso che era davvero la fine».

Sono passati venti anni da quel congedo. L’arrivederci è diventato un addio, e i rimpianti si sommano ancora oggi ai rimpianti, per quello che poteva essere fatto e non è stato fatto. Ma cosa è stato il giornale palermitano nella sua quotidianità? Qual era il rapporto dei suoi redattori con la difficile città di Palermo? E ancora, quale eredità esso ha lasciato al giornalismo nazionale e al Paese civile? Rivolgiamo questi quesiti, ed altri, a Letizia Battaglia, che per 18 anni ha illustrato per L’ORA, da fotoreporter, la vicenda siciliana.

 

Letizia, cosa è stata per te, fotografa d'arte e fotoreporter, l’esperienza de L’ORA?

Quando Vittorio Nisticò mi invitò a lasciare Milano per venire ad occuparmi della fotografia del giornale, non ebbi nessun dubbio. Era l’occasione che aspettavo: ritornare a Palermo dopo che avevo lasciato la città quasi fuggendo. In verità i tre anni a Milano erano stati formidabili, collaboravo con alcune testate, avevo incominciato a fotografare ed a vendere le mie foto. Ma non ero ancora preparata ad affrontare il gran lavoro che mi attendeva a Palermo. Non avevo una reale esperienza della cronaca, quella che si deve raccontare minuto per minuto, piova o ci sia il sole cocente, notte e giorno. Il coraggio non mi è mai mancato e così  nell’ottobre del 74 incominciai a vivermi la nuova avventura. Avevo un contratto da esterna, dovevo organizzare il lavoro di un gruppo di cinque fotografi scelti da me, distribuito nelle 24 ore.

Purtroppo ebbi come direttore Nisticò solo per alcuni mesi. Poi lui andò via e nei 18 anni che seguirono se ne alternarono molti altri. Era carismatico e di poche parole, aveva fama tra i vecchi fotografi di “tagliare” bene le fotografie, di valorizzarle nell’impaginazione. Era un gran giornalista. Anche quando andò via la sua lezione fu per molti anni un esempio da seguire.

Nel mondo variegato del quotidiano io non ebbi mai un vero rapporto con i giornalisti. Il fotografo non veniva considerato un vero collega, stava un gradino sotto. Non ebbi maestri. Mi abbonai a Camera, rivista svizzera , preziosa, indimenticabile.  Sfogliavo libri su libri, mi innamorai di Diane Arbus, guardavo con rispetto le foto di Sellerio, ma più che altro mi sentivo sollecitata dal lavoro degli americani, Wegee, per esempio. Tutto questo non toglieva attenzione e tempo all’assillante inseguirsi degli eventi. Lavoravamo come soldatini, sentivamo la responsabilità dell’impegno preso, volevamo essere bravi come i giornalisti con cui capitava spesso che andassimo in giro.  Giovani “biondini”, con la notizia nel sangue, o giornalisti di lunga esperienza. Erano i migliori. Ancora oggi non posso che sentirmi fortunata per avere vissuto per tanti anni questa esperienza professionale e politica.

 

Quale peso aveva la fotografia nella costruzione dei servizi di mafia di questo giornale?

Aveva un gran peso. Anche perché si era in competizione con l’ANSA e il Giornale di Sicilia. Il giornale L’ORA pretendeva di pubblicare le fotografie che gli altri non riuscivano a fare. Ma si lavorava con quello che si era riusciti a fare nei pochi minuti che ci erano concessi. Dipendeva dall’ora in cui avvenivano i fatti. Appena arrivava la notizia di un fatto, per esempio un omicidio alle 9 del mattino, Io e Franco, oppure Ernesto, o Fabio, o Natale con la vespa o un’auto arrivavamo sul luogo del fatto. Dove in genere c’era già una macchina dei carabinieri o della polizia a barrare il passo. I giovani poliziotti ci impedivano di arrivare sul luogo, dovevamo aspettare i superiori, ma intanto il tempo passava, le foto dovevano essere consegnate entro le dodici ed erano già le undici. Poi avremmo dovuto sviluppare, fissare nell’acido, lavare, asciugare. E poi stampare su carta e poi correre lungo una strada con il fiato in gola a consegnare le foto ancora bagnata al capocronista o al direttore se il fatto era grosso. Il secondo fotografo che rimaneva sul luogo avrebbe poi coperto tutto il susseguirsi dell’arrivo dei magistrati o dei politici ed avrebbe consegnato il giorno dopo. Noi cercavamo di fare tutto il possibile, di raggirare gli impedimenti, Forze dell’ordine, parenti dell’ucciso, amici, mafiosetti, sembravano tutti odiare le macchine fotografiche. Boris Giuliano, capo della squadra mobile, persona eccelsa, aiutò molto noi e i giornalisti, Ma non sempre era presente. Allora e per lungo tempo, non fummo mai veramente soddisfatti delle foto che facevamo. Troppo poco tempo per cercare una buona composizione, una buona luce, per esprimere la nostra commozione o qualche altro sentimento.

 

Cosa era per te la mafia?

Alla fine del 74, non ne sapevo molto, Ero una ragazza di quasi 40, vivace, generosa, con ideali libertari e vagamente comunisti, sapevo che c’era la mafia, ma come lo sapevano un po’ tutti. Non la sentivamo come un pericolo per la società. La gente diceva: si ammazzano tra di loro, e poi  continuava a fare la vita propria senza volerne sapere di più. Ma, intanto, era arrivata la droga, i giovani della borghesia incominciavano a rovinare le loro vite qualche volta sino a morirne, la città veniva devastata dalla speculazione edilizia, era già sparito il giornalista Mauro de Mauro, veniva ammazzato un colonnello dei CC, non si ammazzavano più soltanto fra di loro. Dalla mia posizione di fotografa di un quotidiano antifascista e antimafioso che registrava gli eventi anche con la fotografia incominciai a capirne un po’ di più. Al sentimento di compassione che aveva sostenuto il mio lavoro di fotografa si aggiunse quello della rabbia e poi anche quello del disprezzo. Mi sembrò intollerabile la complicità tra politici e mafiosi. Mi sembrò la fine del mondo quando la carneficina assunse dinamiche da guerra civile. Quando negli anni che seguirono caddero ammazzati per mano mafiosa molti di coloro che la mafia la combattevano sentii profondamente, come buona parte della società, che bisognava agire, che bisognava schierarsi.

 

Ti sentivi libera quando lavoravi in questo giornale?

Si, ero libera. Facevo le foto che volevo. Non volevano di più da me. Quando poi entrai in politica- perché volevo agire, oltre che testimoniare, e diventai assessore nella giunta di Leoluca Orlando, quella della primavera- tutti noi fotografi venimmo licenziati in tronco. Il rapporto tranciato di netto. Anche dentro il giornale stavano succedendo cose non costruttive. Difatti L’ORA finì, dopo un po’ di tempo, le sue pubblicazioni.

 

Qual è l’eredità de L’ORA che più è stata raccolta dal giornalismo italiano?

I giovani “biondini”, ambiziosi e capaci, sono stati, e sono ancora, tra i migliori giornalisti dell’editoria italiana. Sparpagliati un po’ dappertutto hanno dato il meglio di sé. Gli anni duri trascorsi al giornale L’ORA, sono stati per tutti noi una scuola formidabile di formazione che nessuna scuola di giornalismo può offrire.

 

Come vivevano i palermitani questo giornale? Che rapporti instauravano con voi, giornalisti  e fotoreporter?

Culturalmente il giornale ebbe per tanti anni molto credito. Scrivevano per noi grandi scrittori ed anche la cultura internazionale aveva un grande spazio. Si organizzavano dibattiti di costume ed anche politici, molto affollati e partecipi. Ma nello stesso tempo il fatto che fosse così palesemente comunista, antifascista e antimafioso, specialmente quando la corruzione politica e sociale incominciò a prendere il sopravvento, quando si mescolarono le carte, quando i mafiosi  incominciarono a frequentare i salotti della borghesia e quelli dell’aristocrazia, lo rese ostico a buona parte della società. Personalmente io, come fotoreporter del giornale L’ORA, ebbi sempre un certo credito. Penso che addirittura fossi amata. Nei quartieri popolari, in particolare. Forse perché ero donna mi venivano aperte le porte delle case ed ero bene accolta, non si dubitava di me. Ancora oggi, sono trascorsi 25 anni, mi riconoscono e mi abbracciano.

 

Come cambiava L'ORA negli anni settanta-ottanta, che erano quelli in cui hai lavorato per questo giornale?

La partenza di Nisticò lasciò certamente un gran vuoto incolmabile. Oltre ad essere un grande giornalista era anche un abile manovratore di rapporti. La sua presenza era una garanzia per tutti. Proprio in quegli anni si passò all’offset, e così anche a causa della nuova veste grafica il giornale perdette un po’ del vecchio fascino. Arrivarono direttori dal nord, nuovi capocronaca, abbastanza sconvolti da tutto quello che avveniva in Sicilia. Erano gli anni terribili, anche cinque omicidi in un giorno e mentre la mafia conquistava potere era evidente che si perdevano significati e valori un po’ dappertutto. Io comunque conobbi questo L’ORA. Con quei direttori e con quei giornalisti vissi la mia esperienza lavorativa per 18 anni, uno dietro l’altro, e nonostante le tante difficoltà, devo dire che fu una opportunità molto importante, che mi ha segnato per sempre. Nel bene e nel male.

 

Nel 1992 era tutto finito. Cosa ha significato per la Sicilia la scomparsa del quotidiano?

Se ne andava, e per sempre, una grande voce di sinistra. Ancora limpida e pura.

 

Puoi raccontare un episodio emblematico della tua vita al giornale? Qual è il ricordo o il rimpianto che più ti porti dietro?

Io non avevo il diritto di stare dentro la redazione, non potevo neanche partecipare all’assemblea di redazione. Il mio contratto mi negava questa possibilità. Mentre in Italia si lottava perché i fotografi venissero assunti in pianta stabile, il mio giornale privo di mezzi finanziari adeguati, non poteva prevedere questa ipotesi. Quando con una lettera molto burocratica mi si comunicò, dopo 18 anni! che il mio periodo di prova era terminato e che avremmo avuto altri rapporti in futuro, piansi molto. Io a quel giornale volevo bene. Ma ormai molti giornalisti erano andati via verso altri quotidiani o riviste o uffici stampa e a gestire lo storico L’ORA erano rimasti coloro che poi lo avrebbero chiuso.

 

Hai raccontato con le tue foto i volti della Sicilia, inclusi quelli di molte donne di mafia. Che ricordo hanno lasciato in te?

Sono gli incontri e le esperienze che ho fatto dagli anni della cronaca che mi hanno fatto innamorare di questa terra. Ho fotografato molte donne, quasi esclusivamente donne, con loro ho condiviso dentro di me tutto il dolore o le grandezze di cui erano portatrici o testimoni. Gli uomini li ho fotografati solo per necessità, perché il giornale me li chiedeva, ma una volta pubblicati o archiviati, sono rimasti lì, dimenticati. Donne, tante donne, certo, anche di mafia, complici dei loro mariti o vittime della situazione familiare o sociale. Quasi sempre non le ho giudicate. Un anno fa all’aeroporto di Roma, in attesa, una piccola donna vestita di nero, con delle borse molto  pesanti in mano. Il suo viso dall’espressione circospetta e stanca mi sembrava familiare. E poi ricordai. Era la moglie di Totò Reina, Lo stava andando a raggiungere in carcere, carica di indumenti puliti e cibo ben cotto. Per un attimo, per qualche attimo, sino a che sparì io l’amai. E non la fotografai.

 

Fonte: Rivista mensile Narcomafie