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Tratto da Il dialogo">Il Dialogo



Le banalità dei politici sono un danno colpevole nei confronti del Paese. E i giornali sono i loro divulgatori. Una scuola debole forma un popolo debole

Nikki Bacharach, figlia del famoso compositore, era affetta da una forma di autismo, diagnosticatale dopo la nascita: lo hanno detto i mass media.
Così come il signore de La Palice, nella battaglia di Pavia del 1525, secondo la commemorazione dei suoi soldati, era ancora vivo un quarto d’ora prima di morire.

Una infinità di non-notizie di questo genere costella la giornata di chi legge o ascolta la tv. Sono peggio che stupidaggini, ci disabituano a stare svegli perché scivolano via, penetrando nell’organismo come vi entrano i virus peggiori. Sono un continuo bombardamento antiistruttivo.
Ascoltate la signora Melandri, i vari Cento, Casini, Vito, Rutelli (e altri, naturalmente): sono elaboratori del nulla. Dicono la metà di niente. Il che, per il nostro Parlamento, significa… Il baratro, direte voi. Già, il baratro.

L’istruzione serve a farci parlare correttamente, così da esprimere correttamente il nostro pensiero, le nostre necessità, la nostra disponibilità e nello stesso tempo capire altrettanto correttamente il pensiero, le necessità, la disponibilità di chi ci sta di fronte. Se non ci sappiamo esprimere o ci esprimiamo male non siamo nemmeno in grado di afferrare quello che ci spiega il nostro prossimo.

Noi veniamo istruiti per capirci l’un l’altro, se veniamo de-istruiti non ci capiamo: ci va bene tutto, ci adattiamo a qualsiasi spiegazione, anche se incomprensibile perché falsa. Il nostro cervello si adatta alla banalità e alla confusione. Mancando la chiarezza dei concetti, tende a dimenticare subito quel che ha letto, ascoltato o visto, smette di pensare correttamente, non è più in condizione di fare confronti, viene facilmente distratto da altro. Un individuo che si trovi nel continuo marasma della lingua e delle immagini non impara e non sa più fare confronti. Perde le sue capacità di critica.

L’opinione pubblica formata attraverso questa voluta ignoranza è la base dei regimi autoritari che, una volta consolidati, impongono il loro modo di pensare con un linguaggio chiaro, facile, preciso, ma adattato ai loro scopi: una massa di seguaci, anziché un popolo di esseri pensanti. L’opinione pubblica italiana è già a questo livello? Data la forza smisurata e incontrollabile dei mass media e della propaganda politica che in essi fluisce tra le notizie di cronaca, è utile porsi la domanda.

Il Papa ha parlato dei rischi del gigantismo dei media il 6 gennaio. Intendiamoci, i giornalisti non vogliono deformare, istupidire l’opinione pubblica (talvolta qualcuno lo fa, ma alla fine viene scoperto) con un particolare modo di scrivere. No, quel modo di scrivere e di esprimersi è proprio il loro, è lo stesso di tutti i cittadini che escono dalle nostre scuole.
È la scuola debole che forma cittadini – e quindi anche giornalisti – deboli. Si è mai visto un professore di fisica che va a scuola travestito da arabo, viene filmato e finisce su Internet? Si è mai visto che una classe di dodicenni autoproduce film hard, li mette in circolazione, ma poiché «sono minorenni» non risultano punibili e si pensa che, forse, sono passibili di una sospensione dalla scuola? Ma che vuol dire, forse? Ma che scuole abbiamo? Che generazioni preparano direttori e presidi e professori e maestri che non vedono, non sentono, non parlano? Generazioni di succubi.

E i giornalisti?
Anni fa, un eroe del socialismo moderno, in mezzo a una serie di scandali e di corruttela, inventò per salvarsi «il grande vecchio» detto anche «il burattinaio»: giornali e tv cominciarono a scrivere e a parlare di questa figura senza sapere chi fosse, se nemmeno ci fosse, di quali trame fosse colpevole. Era colpevole di tutte e di nessuna.
Il «grande vecchio» fu una cortina fumogena che durò molti mesi.
Serviva semplicemente ad evitare che i cittadini insistessero sulla giusta strada a cercare la verità.

La deviazione ne provocò altre, un labirinto. La confusione prodotta attraverso i mass media generò curiosità, ansie e aspettative sempre nuove, distogliendo il pubblico dal farsi domande sui reali intenti e sui problemi di quel leader e del suo gruppo che certo non onorava la memoria dei suoi predecessori. La verità avrebbe travolto l’inventore del «grande vecchio» soltanto alcuni anni più tardi, dopo scontri e lacerazioni assai dannosi per il paese. Dopo aver affondato anche il suo partito, l’inventore si autoesiliò in Tunisia.

Questo esempio contribuisce a dimostrare che quando la banalità verbale, le futilità, le frasi di nessun conto ossessivamente ripetute, i falsi in serie, sono utilizzati dal mondo politico o nell’attività sindacale, che è un’altra faccia della politica, i guasti non solo si allargano a macchia d’olio nell’opinione pubblica, ma continuano nel tempo. L’erosione della capacità di pensare autonomamente (fare confronti ragionati tra i vari aspetti della realtà) è invisibile e progressiva.

Mario Pancera Mercoledì, 07 febbraio 2007

Il mio e il nostro: "Il mistero del povero". Dove è il nemico dell'uomo. Rispondono don Milani e don Mazzolari

Don Lorenzo Milani, in un articolo pubblicato sul quindicinale mazzolariano "Adesso" il 15 dicembre 1950, e intitolato "Natale 1950. Per loro non c'era posto", fa un piccolo esame del concetto di "mio". Un chierichetto dodicenne, dopo che il sacerdote aveva spiegato ai fedeli che la società civile avrebbe potuto (anzi, dovuto) distribuire ai senzatetto le case inutilizzate dai loro proprietari, replicò: "No, don Lorenzo, a me la 'un mi torna! Sicché se avessi una casa mia, non potrò buttar fuori chi voglio dalla MIA casa?". E un altro aggiunse: "Se perfino il poppante dice MIO!"

Don Milani conclude: "Già, appunto, è questo. È in quel MIO il mistero del povero che difende il signore. È la bestia uomo che affiora sempre. Grullo che sono stato a sfiduciarmi. E non è sempre così? E non è dentro sempre il Nemico del primo, del secondo, del sesto comandamento? E non è questa la mia, la nostra lotta di sempre?". Le maiuscole e il corsivo sono nell'originale, poi apparso nel volume "Esperienze pastorali". La parola "signore", oggi meno usata, sta naturalmente a significare ricco, padrone, proprietario.

Come mai il povero difende il ricco, il servo difende il "signore"? Per il concetto di proprietà: il mio è mio, non di altri. La casa è mia, la strada è mia, la scuola e il lavoro sono miei, la città è mia, il paese è mio: fuori di qui tutti gli altri, mendicanti, stranieri, pezzenti e così via. La porta è aperta ai ricchi, chiusa ai miseri. I poveri vogliono salire di classe, non scendere: in questo sono uguali ai ricchi. Via i lavavetri, via i venditori di collanine, via chi dorme in baracche, sotto i ponti, tra gli sterpi, il fango, lo sterco, le strade e autostrade di periferia che si intrecciano sopra e sotto: sopra, utili a chi lavora e in qualche modo vive; sotto, utili a chi cerca di sopravvivere - e talvolta, invece, vi muore di miseria.

Questi ultimi sono i miserabili, mentre i poveri sono una sorta di società intermedia tra loro e la borghesia. I poveri trovano difensori, costituiscono una classe sociale, protestano, votano, cercano in qualche modo di difendersi, di uscire dalle ristrettezze. I miserabili, invece, sono niente, peggio di niente: infastidiscono i mercanti, i politici, i borghesi, anche i poveri stessi che si vedono minacciati dal basso.

Dei miserabili non si occupa nessuno (dovrebbe, deve, occuparsene la cristianità, per cui tutti siamo uguali). I poveri vedono nella borghesia il traguardo della loro emancipazione: logico che, all'idea di possedere finalmente una casa propria, dopo tante lotte di genitori, di nonni e di bisnonni, il chierichetto voglia la libertà di difendere la propria casa, da chiunque la minacci. È una sua proprietà, intende disporne come vuole. Il povero, il proletario, tende a diventare borghese; vuol fare un salto di classe. Sente di aver diritto a una vita concreta migliore. Il possesso, il MIO, consacra il suo diritto.

Rivolgendosi a Dio (lui lo chiama il Buon Dio), dopo essersi poste le domande sul Nemico che è dentro l'uomo, don Milani sembra illuminarsi, capisce e, da sacerdote, conclude: "Ora non ho più paura, ho fiducia. Son pochi i cristiani. Qui come in tutto, come nella purezza, come nel perdono. Non importa. Ne abbiamo viste ben altre, vinceremo anche questa col tuo aiuto". Si ponga mente: "col tuo aiuto". Solo così si può, si deve, lottare per vincere cioè per strappare i miserabili dalla strada, dalla droga, dalla fame, dalla delinquenza, dal terrore di essere cacciati ovunque e da chiunque.

Per il suo "Adesso", ormai più di mezzo secolo fa, don Primo Mazzolari ideò da subito una rubrica intitolata: "La parola ai poveri". Rispondeva ai critici che non si parla dei poveri, né ai poveri, né in nome dei poveri: "Dare la parola ai poveri è altra cosa", scriveva sul primo numero del quindicinale, 15 gennaio 1949: "Più facile dare loro una bandiera, una tessera, un canto, un passo, una bomba a mano, un mitra.Più facile dare loro ragione. Non chiedetemi subito perché sia tanto difficile dare la parola ai poveri [.] E vorrei pure pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poveri, chi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore". Non c'è commento, sembra oggi.

Caro presidente Veltroni,

le scrivo perche' ho capito dalle sue scelte, e in particolare dalla candidatura del prefetto Achille Serra alle prossime elezioni, che lei intende affrontare nel prossimo parlamento una questione strategica per il nostro paese: la credibilita' delle forze di polizia, messa in discussione e in parte compromessa da eventi recenti, in particolare i fatti del G8 di Genova del 2001.

Il 16 novembre 1922, Benito Mussolini, che aveva costruito il Partito nazionale fascista su sua misura, dopo aver tanto gridato sulle piazze, stracciò in Parlamento i princìpi, i valori e gli ideali dei rappresentanti degli altri partiti con una sola frase: «Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli di camicie nere.». Fu una ingiuria plateale, dopo la quale i parlamentari avrebbero dovuto insorgere e cacciarlo. Non accadde nulla. Solo un socialista riformista, Modigliani (fratello del pittore) gridò: «Viva il Parlamento», ma gli altri lo zittirono, impauriti da tanta audacia. Tre anni dopo, aggredito e ferito, dovette espatriare.

L'Italia non fascista avrebbe dovuto scendere nelle strade a difesa della propria dignità e della propria libertà, guidata dai leader di quei partiti che erano stati così svillaneggiati e offesi: e con essi era stato insultato e offeso il Paese. Da tempo tutti sapevano quel che avevano in mente i fascisti: il potere. Mussolini voleva tutto, senza intese di alcun genere, anche se aveva finto di trattarle. Il re Vittorio Emanuele III, garante della Costituzione di quei tempi, non mosse un dito.


I partiti di centro cominciarono a spostarsi e ad affollare i banchi dell'estrema destra, come fece notare l'ex ministro della destra liberale Antonio Salandra. La Chiesa non prese nessuna chiara posizione, i cattolici si divisero, i più coraggiosi si ritirarono poi sull'Aventino. Ci fu lo sdegno, ma invece di chiamare i carabinieri e far mettere in prigione il pazzo che dichiarava di distruggere lo Stato e la sua ancora debole democrazia parlamentare, la maggior parte dei politici cercò, in vario modo, le strade della sopravvivenza. Chi resistette finì al confino, in galera o riparò all'estero.


Chi aveva stracciato le regole del gioco democratico, tappò con i soldi e con le leggi la voce della stampa e i giornalisti, comprati e venduti, vissero per vent'anni sulle «veline» del governo fascista. La magistratura si adeguò. Il socialista Giacomo Matteotti che, nel 1924, prese la parola contro il fascismo, venne ucciso. Quindici anni dopo furono promulgate le leggi razziali e l'Italia si trovò in guerra accanto alla Germania nazista.


Chi contrastò questa guerra, dopo l'8 settembre 1943, fu chiamato variamente: patriota o partigiano dagli antifascisti, bandito dai fascisti della Repubblica sociale italiana: quando veniva catturato, era torturato, impiccato o fucilato. A guerra conclusa, con la fine di Mussolini e della repubblica di Salò, il 25 aprile 1945 fu dichiarato festa della Liberazione. Dopo due decenni, alcuni conflitti e una guerra fratricida, l'Italia si era liberata del fascismo, del mussolinismo e così via. Tornò la democrazia. I giornali ripresero le loro libere voci. Molti, cattolici e non, in mezzo a mille difficoltà si adoperarono giustamente per sanare le ferite e riappacificare gli animi.


In pochi anni il Paese permise ai reduci della Rsi di riunirsi in un Movimento sociale italiano, Msi, poi divenuto partito. Successivamente il Msi è diventato Alleanza nazionale, An, e infine è entrato nel Popolo della libertà guidato da uno degli uomini più ricchi del mondo, attraverso amici e familiari controllore del maggior numero di mass media esistenti in Italia, il quale - ha detto - intende modificare la Costituzione della repubblica per governare nei prossimi decenni.


Cosa chiedono oggi gli eredi dei reduci della repubblica sociale (e, anzi, alcuni vecchi reduci davvero)? Nella convinzione di vincerle e tornare al potere sconfiggendo gli avversari, attraverso il loro leader hanno chiesto che il 14 aprile 2008, giorno delle elezioni del prossimo Parlamento, sia considerato festa della Liberazione. Così cambia la storia.


Buratti Gino, Marchi Pierpaolo, Pancera Mario, Ricci Debora

Rete di donne e uomini per l'ecologia, il femminismo, la nonviolenza: documento conclusivo dell'assemblea di Bologna del 19 aprile 2008


[Da Michele Boato (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) riceviamo e diffondiamo il documento finale dell'assemblea di Bologna del 19 aprile 2008]


Pubblicato su “Il Manifesto” del 15 maggio 2008



Quando mi cade una tegola intesta, l'improbabilità dell'evento non mi consola. Me ne sbatto che la vita media sia di 80 anni se mi viene un tumore a 50: tra la constatazione oggettiva e il vissuto soggettivo si spalanca tutto il baratro aperto dall'irripetibilità della nostra effimera esistenza. Così, non rassicurano la mia insicurezza le statistiche che dimostrano che in Italia il numero degli omicidi cala costantemente e che Roma è una delle capitali più sicure d'Europa.

Per risolvere il problema dell'immondizia, a quanto riportano autorevoli opinionisti, il governo Berlusconi ha trasformato la capitale della Campania, Napoli, in una prefettura, cioè l'ha abbassata di rango. Nello stesso tempo ha tolto alcuni diritti costituzionali ai napoletani obbligandoli allo stoccaggio di rifiuti nocivi e non nocivi nelle stesse discariche, pur di fare presto. Nel resto d'Italia e in Europa questa raccolta è illegale perché, mancando i controlli sull'idoneità delle discariche a ricevere veleni, si prefigura alla lunga un danno per la salute dei cittadini.

Tutto ciò è detto alla tv e scritto sui giornali. Ma, pure nello stesso tempo, la magistratura napoletana scopre e denuncia intrallazzi e maneggi proprio tra alcune persone che oggi si devono occupare legalmente della questione. Ci sono anche arresti. Neppure lo scrittore Roberto Saviano, nel suo «Gomorra», lo aveva previsto. Nel suo libro, ed ora anche in un film, fuori della legge si muove soltanto la camorra. Passano i giorni e ci si dimentica di questa reale insicurezza della cosiddetta sicurezza.

C'è da aver paura dell'illegalità o no? Un editorialista molto autorevole su un molto autorevole giornale denuncia l'azione del governo, ma non fa mai, in tutto il suo scritto in prima pagina, mai il nome del presidente del consiglio. Sembra di essere in guerra: «Taci, il nemico ti ascolta». Un tempo si scriveva il governo De Gasperi, il governo Andreotti, il governo Craxi, in certi casi oggi il governo sembra orfano.

Un altro autorevole opinionista lo aveva preceduto con un articolo pieno di dubbi, ma in sostanza favorevole all'azione autoritaria del governo e contrario a quella dei magistrati, che si permettono di far rispettare le leggi (almeno questo è il loro compito) proprio in questo periodo, concludendo un'azione iniziata parecchi mesi prima. Mi accorgo che anch'io non faccio nomi. I magistrati dicono che alcune norme sono anticostituzionali e protestano sostenendo che così si vanifica la lotta alla camorra. A sua volta protesta il commissario straordinario: afferma che l'azione dei magistrati danneggia il suo lavoro di pulizia.

Nel giro di quarantotto ore, il capo della polizia attacca (è il verbo usato da tv e altri mass media) l'attuale situazione giudiziaria per cui sembra che in Italia, mentre le forze dell'ordine arrestano decine e decine di clandestini colpevoli di crimini, si sviluppi una sorta di «indulto quotidiano», visto che delinquenti d'ogni genere entrano in carcere, escono, rientrano e di nuovo escono a commettere altri delitti (spaccio, furti, rapine, stupri, e così via). Insomma, non è garantita la sicurezza, perché in Italia manca la certezza della pena.

Assistiamo da lettori a una guerra di tutti contro tutti? Capisco che papa Benedetto XVI si rallegri quando vede che i politici cercano di andare d'accordo, ma l'opinione pubblica italiana viene stravolta da queste bufere che, forse, in Vaticano non si vedono. Si guardi bene il palcoscenico: governo, Costituzione, magistratura, polizia, per avere un quadro della situazione. Chi schiaccia chi? Manca il sindacato: è malato dietro le quinte. Anche la libertà di stampa è febbricitante.

Da che parte stare? Dalla parte della legalità o dalla parte della sicurezza? O dalla parte del silenzio? È un problema di libertà cioè di sostanza, non di facciata. Questi scontri sulla uguaglianza dei cittadini e sulla loro libertà di movimento e di parola investono non soltanto la sicurezza materiale, ma anche e soprattutto la sicurezza morale dei cristiani. I cattolici hanno diritto di avere un'indicazione forte e precisa dal loro papa. Visto che riguarda la libertà, più che una semplice indicazione sarebbe meglio un sostegno.
Mario Pancera