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Il volto impresentabile della libertà (Lea Meandri)

Pubblicato su "La nonviolenza è in cammino", n. 1265 di giovedì 13 aprile 2006.
Dal sito della Libera università delle donne di Milano

Tra i molteplici significati che ha assunto la parola libertà, ce ne sono due in particolare che la seguono da sempre come un'ombra: la negazione, la presa di distanza, la fuga da qualcuno o qualcosa, e la parentela con la scena pubblica.
Libero, nel lessico greco e latino, è il non schiavo: maschio, adulto, appartenente a una comunità di eguali a cui è affidato il governo della città, figlio di genitori nati a loro volta liberi, in grado di sostenersi in armi e perciò dotato di poteri politici. È il cittadino guerriero. Fuori, negli interni domestici che la libertà e la politica si lasciano alle spalle, ci sono gli schiavi, le donne, gli adolescenti, esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica ed espropriati della loro stessa vita. Ma, sacrificato sull'altare della polis, è anche l'individuo, sottoposto in tutto, fin nelle sue scelte più intime, all'autorità del corpo sociale.
Un destino comune sembra imparentare perciò all'origine la libertà e la politica: uno strappo, un atto di cancellazione, il bisogno di dislocarsi rispetto a una matrice o a vincoli più o meno dichiarati. Nel vuoto apparente che si lasciano dietro vanno a collocarsi le donne, ma anche i corpi, le persone, le relazioni primarie e le vicissitudini improrogabili di ogni esistenza. Sarà per questo che, anche quando si fanno più articolate, più estese, le libertà - politiche, individuali - restano per larga parte formali, facili a sparire o a farsi inglobare su un versante o sull'altro.
L'esito che Tocqueville delinea per le democrazie occidentali è meno paradossale di quanto sembri: l'atomizzazione porta "ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei suoi simili, a mettersi da parte con la sua famiglia e i suoi amici, in modo che dopo essersi creato una piccola società per proprio uso, abbandona volentieri la grande società a se stessa", ma non può impedire che resti comunque prigioniero dell'opinione generale, che "lo abbraccia, lo dirige, l'opprime".
Individualismo e uniformità, apatia politica ed estensione crescente dei poteri della società sull'individuo, appaiono come le due facce della stessa medaglia, destinate a contrapporsi e a ricongiungersi, a divergere e a divorarsi vicendevolmente. Nel saggio di Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819), l'opposizione è solo apparente: il "piacere vivo e ripetuto" del cittadino antico nell'esercizio della sovranità, e la "felicità dei singoli", il "godimento pacifico dell'indipendenza privata", grandi conquiste dei moderni, hanno bisogno del sostegno reciproco, perché poli complementari di una visione dicotomica che rimanda al protagonista unico della storia: il sesso maschile.
C'è voluto un lungo percorso affinché, dalla zona d'ombra della vita pubblica, condizioni, rapporti dati come "naturali" - le passioni del corpo, la proprietà, le disuguaglianze economiche, i ruoli sessuali, gli impulsi d'amore e di odio - mostrassero, riaffiorando, quanto profonde, ramificate e inafferrabili siano le radici della libertà, quanto sia più giusto toglierle quella desinenza assertiva e parlare invece di "liberazione". Gli "enigmi" che la storia si è portata dietro, riguardanti il sesso, la guerra, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, il dualismo, appartengono al suo retroterra, a quel "mare ribollente, infido" delle cose non-nominate, per usare un'immagine di Asor Rosa, che la trascina a sua insaputa, costringendola a procedere con gli occhi rivolti al passato.
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Oggi sappiamo quanto sono esili i confini tra democrazia e regimi totalitari, quanto il sostrato biologico, considerato la frontiera estrema oscura della ragione, possa diventare, come è stato per il nazismo, la "verità ultima" della storia di un popolo; sappiamo che la guerra può confondersi con la difesa della vita, e quindi con la pace; conosciamo l'ambiguo legame che tiene insieme il bisogno di sicurezza, di protezione, l'attesa verso l'esterno, e la rinuncia alla libertà. Allo stesso modo, non possiamo ignorare che la resa delle donne al dominio dell'uomo è tuttora compensata da risarcimenti secondari, da gratificazioni illusorie e tuttavia durature. Ma non sembra che tale saggezza riesca a scalfire il sedimento secolare delle coercizioni su cui continuano a crescere e proliferare libertà visibilmente fragili, diritti destinati a restare sulla carta, opportunità, eguaglianze solo verbali.
Eppure, si è affacciata in tempi non lontani una rivoluzione pacifica - che non significa esente da sofferenze e conflitti - capace di dare avvio a un'"altra" storia, un'altra politica, altre forme di convivenza tra diversi, altri legami tra individuo e società. Il movimento non autoritario e il femminismo degli anni '70, spostando il centro della teoria e della pratica politica fuori dai luoghi istituzionali dove siamo abituati a collocarle - su corpo, sessualità, infanzia, rapporto uomo-donna -, hanno restituito alla conoscenza e a un possibile cambiamento vicende essenziali dell'umano date come "naturali" e quindi immodificabili. La persona, il sesso, l'inconscio, le relazioni primarie, visti dalle teorie sociali come l'ignoto, l'estraneo, l'indicibile, una volta sottratti a un'indebita naturalizzazione, si sono rivelati componenti inscindibili dell'idea di libertà che abbiamo ereditato, la ragione prima delle sue contraddizioni, delle sue comparse e delle sue eclissi.
Se gli esseri umani sono parsi, per loro "natura", ora buoni ora malvagi, forse è perché è stato difficile, e sembra esserlo tuttora, fissare lo sguardo in quella regione incerta, "bio-psico-sociologica", che sfugge al pensiero settorizzato. È da lì che il movimento non autoritario e il femminismo hanno dato avvio alla loro rivoluzione copernicana, sicuri che da quelle lande, da cui la civiltà sempre prendere inizio e alimento, si potessero ripensare alcune delle convenzioni sociali più refrattarie al cambiamento.
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A proposito dell'asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, aperto nei primi anni '70, Elvio Fachinelli, che ne era stato il promotore, scrive: "Sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte e più prepotente protegge quelli della sua famiglia...
si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza. Già a tre anni di età, molti bambini arrivano all'asilo rattrappiti, coartati; si ha l'impressione che qualcosa che era disponibile è ormai congelato. Si tratta spesso di comportamenti rigidi, che tendono a ripetersi, e che sembrano costringere l'adulto ad assumere una posizione puramente coercitiva, analoga a quella che è stata assunta dai genitori e che è probabilmente all'origine di questi tratti del comportamento. Il rischio di un continuo rafforzamento ripetitivo dell'esperienza precoce è dunque sempre presente. Per tentare di sciogliere queste membra paralizzate è essenziale che si presenti al bambino un adulto diverso... Qui la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio, una politica necessaria, anche se può apparirci impossibile, è una politica radicale, nel senso marxiano del 'prendere l'uomo alla radicè. Qualche tempo fa, discutendo con un rappresentante ufficiale dell'educazione milanese, egli venne fuori a dire: 'Ma seguendo voi, bisognerebbe costruire le case in modo diverso, bisognerebbe cambiare la città!'. Ebbene, io credo che questa sia veramente la posta della nostra azione" (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d'oro, Feltrinelli 1974).
Il "paradosso della ripetizione", la nostalgia che spinge l'individuo a rivivere le esperienze più significative fatte nel periodo della maggiore dipendenza dagli altri, diventa, nell'analisi innovativa di Fachinelli, ostacolo e insieme elemento propulsore della libertà, replica cieca del già vissuto o ripresa aperta verso nuove soluzioni. Sotto questo aspetto, anche il riemergere, in un momento di declino dell'autorità paterna e di forte pressione della società dei consumi, di un fantasma materno "saziante e divorante", poteva apparire al medesimo tempo come minaccia di integrazione e spinta alla rivolta giovanile che nel '68 ha stravolto le tradizionali categorie interpretative del reale e del possibile, dei bisogni e dei desideri, dell'individuo e della collettività.
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Ma dove l'idea di libertà ha subito il suo più radicale ripensamento è stato nelle pratiche del femminismo, nella coscienza che ha riportato fuori dalle secche della "naturalità" il più antico dei domini, quello che ha riservato al sesso maschile non solo il potere di decidere le sorti del mondo, ma il pensiero, la costruzione ideativa e immaginativa che lo sostiene. L'intelligenza dell'uomo, essendosi arrogata le prerogative di unica esperienza compiuta dell'umano, non poteva che dare al processo di individuazione - cioè all'uscita dalla comune condizione animale - il volto di un "neutro", mutilato di quell'appartenenza corporea e di sesso che l'avrebbe rivelato nella sua parzialità. Riportate entro la narrazione della storia personale - attraverso l'autocoscienza e la pratica dell'inconscio - le illibertà non potevano che subire un processo inedito di svelamento: non erano solo quelle presenti nella vita sociale, e neppure ne condividevano modi e qualità.
Rispetto alle coercizioni esterne e a tutte le forme di violenza manifesta, che si sono accompagnate al dominio maschile, "immensa" appariva l'"alienazione dell'io" conseguente all'aver fatta propria inconsapevolmente la rappresentazione del mondo dettata da altri. Nelle conversazioni radiofoniche, tenute su Radiotre da Rossana Rossanda con alcune amiche femministe sulle "parole della politica", Paola Redaelli così descrivere la rivisitazione del concetto di libertà: "Libertà è una parola bellissima.
Per me anzitutto vuol dire libertà di essere. Libertà di essere diversa.
Per cui, a dire il vero, non è senza contraddizioni con uguaglianza.
Libertà di essere diversa malgrado le leggi, al di là delle leggi, anche al di là di quelle che chiamavi 'leggi di naturà. Libertà è poter scegliere senza cancellare niente di se stessi: il proprio essere intellettuale, i propri bisogni materiali, il proprio io profondo. Libertà è poter non trascurare nessuna parte di sè. Trasformare davvero il proprio rapporto con il mondo, fino all'ultimo e senza possibilità di tornare indietro" (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989).
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Per una "libertà che parte da dentro", lo scavo nelle vite, spinto fin dentro la memoria del corpo, sembra non avere mai fine, e il femminismo, che ha aperto questo nuovo orizzonte, appare davvero come "la rivoluzione più lunga", quella che non disdegna le frontiere ultime del pensiero, le esperienze che hanno il corpo come interlocutore e parte in causa. Riportare lo sguardo sulla scena pubblica, come chiede oggi un movimento di donne in evidente ripresa, senza restare ancora una volta respinte o affascinate, comporta un forte ancoramento alla storia e alla cultura che il femminismo ha prodotto, la riattualizzazione di teorie e pratiche che per fretta o paura sono state troppo presto abbandonate. Richiede soprattutto che, pur continuando a parlare di "libertà femminile", non si dimentichi che dominate e dominanti hanno parlato per millenni la stessa lingua, che l'alienazione delle une non è stata senza costi per l'umanità degli altri.
La vita e la politica, oggi intrecciate più che mai, aspettano ancora di essere sottratte alla falsa dialettica che le ha astrattamente contrapposte e perciò spinte di necessità verso ideali o perverse ricomposizioni - le parentele insospettabili tra il sogno d'amore e la biologizzazione della politica, tra la nostalgia dell'unità a due della nascita e la ricerca di corpi sociali compatti, omogenei, incontaminati, che caratterizza i nazionalismi, i sussulti etnici e identitari e, oggi, lo "scontro di civiltà". Aspettano, soprattutto, che si dia un volto, un corpo, un sesso, una storia al protagonista unico che, con una sorta di sdoppiamento, ha creato artificiose, ingannevoli "differenze", cancellando somiglianze e diversità reali.