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Pubblicato su www.carta.org il 24 aprile 2008


Pubblichiamo un testo che non è un appello né tanto meno un documento. è una lettera, che varie persone hanno pensato fosse utile scrivere, correggere, riscrivere ed emendare o semplicemente condividere. Tutto è stato fatto in pochi giorni, la settimana scorsa. Sentivamo un’urgenza: suggerire che, di fronte a quel che sta cadendo addosso a noi cittadini, comunità, società civile o movimenti [ognuno usi il termine che vuole], c’è la possibilità non solo di resistere, ma di cominciare a fondare da subito un altro genere di politica. Non è una novità, questa convinzione. Mesi fa, fu pubblicato un appello intitolato «La politica che vogliamo», firmato da molte persone della società civile, che poi diede luogo al seminario della Rete Lilliput sullo stesso tema che si tenne il 5 aprile, lo stesso giorno in cui Carta e l’associazione Cantieri sociali organizzavano il Cantiere dell’altra politica. E Paolo Cacciari, che aveva partecipato ad ambedue gli incontri, scrisse poi la prima bozza della lettera che pubblichiamo.

Estratto tratto dal libro di Stefano Rodotà e pubblicato su “La domenica della nonviolenza”, n. 167 del 8 giugno 2008


"Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve".

Tommaso Campanella, La città del sole (1602) Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba "evadere dalla vita"? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più moltiplicati e sfaccettati.

Una parte della magistratura costituisce una metastasi, cioè una malattia diffusa e in pratica mortale per la giustizia in Italia: questo il concetto più volte espresso, da anni, dall'attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Lo stesso concetto, con la stessa parola, è stato espresso al congresso socialista da Bobo Craxi, figlio di Bettino, che fu pure presidente del Consiglio ed è morto nel 2000 in Tunisia: per i suoi amici è morto in esilio, per i suoi avversari era un latitante, inseguito da condanne definitive. Il leader socialista Bettino Craxi e l'imprenditore Silvio Berlusconi erano molto amici, si sono aiutati a vicenda raggiungendo entrambi i vertici del potere politico e muovendo entrambi montagne di denaro.

La magistratura può costituire un cancro, che si diffonde nel corpo della società italiana e che soltanto pesanti interventi chimici e chirurgici possono tentare di arrestare: così pensano molti, e anche parlamentari e addirittura ministri. La parola, francamente, fa paura e, più volte ripetuta, tende a mettere a tacere gli oppositori. Va a finire che, a poco a poco, più d'uno pensa: «Forse è vero», e comincia a credere che non solo qualcuno (può succedere), ma molti magistrati siano corrotti, infami, ignoranti, perversi persecutori, dediti a danneggiare il Paese.

Si forma così un'altra metastasi: il dubbio. I cittadini cominciano a dubitare, viene meno la fiducia nella giustizia, si allargano nella società lo scetticismo e il cinismo, crolla il senso dell'uguaglianza di tutti davanti alla legge. In fondo, si pensa, processo più o processo meno, chiudiamo l'argomento e portiamo avanti altri temi importanti: l'inflazione, il precariato, la mafia, la nuova povertà, l'immondezza, i migranti, l'ambiente. Con la seconda metastasi - dimenticare - si copre e si cancella la prima - cercare la verità. Il silenzio rivela un'altra metastasi nel tessuto della società: la paura.

La sera dell'8 luglio, nella trasmissione «Primo piano» su Rai 3, la giornalista Bianca Berlinguer ha intervistato Antonio Polito, direttore del «Riformista» e uomo politico, già redattore dell' «Unità», e Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», quotidiano del Partito della liberazione comunista. Tre nomi, le stesse origini e nessuno, apparentemente, di destra. Il tema era quello della cancellazione dei processi e dell'immunità per il presidente del Consiglio. Polito si è barcamenato, Sansonetti alla fine è sbottato concludendo press'a poco: «Chi se ne frega dell'immunità per le quattro più alte cariche dello stato, i problemi degli italiani sono ben altri». Le parole non erano proprio queste, ma il concetto sì. Dormire, sopire.

Non c'è confronto: davanti al pane, anche lo schiavo non pensa alla libertà. Che discorsi sono, questi? Che confusione si fa? La metastasi del menefreghismo, del lassismo, e diciamolo pure della supponenza e dell'ignoranza, non solo politica, è senza limiti. La libertà e la verità sono soffocate in un qualunquismo che sembra inarrestabile.

Se questi sono gli intellettuali di sinistra, che hanno in mano buona parte dell'informazione televisiva, gli italiani che danno loro credito non possono non aumentare i consensi per rafforzare le neo tentazioni autoritarie. È un dolore, e penso soprattutto ai laici cattolici, vedere come non si trovino più in Italia uomini di stato, che si occupino della politica con amore e con sacrificio, pensando al paese, ai cittadini, al popolo.
Mario Pancera

Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza in cammino", n. 507 del 5 luglio 2008, dal quotidiano "La Repubblica" del 3 luglio 2008 col titolo "Il principe senza legge"

È un'amara estate per chi contempla il panorama costituzionale, sconvolto da iniziative, mosse, parole che ne stanno alterando la fisionomia. La riforma del sistema politico, con il risultato delle elezioni, è stata compiuta senza atti formali, senza bisogno di cambiamenti della legge elettorale. E mentre si discute di un dialogo bipartisan come condizione indispensabile della riforma costituzionale, questa viene implacabilmente realizzata da un quotidiano e unilaterale esercizio del potere.

Erano gli anni di Kakania cioè dell'imperial regio governo degli Asburgo così come l'avrebbe poi immortalato lo scrittore Robert Musil, partendo dalle «k» iniziali: Kakania arrivava fin qua dalle Alpi. Per prendersi quello che oggi è per noi il Trentino-Alto Adige, l'Italia entrò nella prima guerra mondiale. Kakania si dissolse, era il 1918.

Quattro anni dopo, 1922, in Italia nasceva il fascismo; ma dieci anni prima, 1898, a Milano il re Umberto I permetteva al suo generale Fiorenzo Bava Beccaris di prendere a cannonate in piazza a Milano il popolo che protestava contro il carovita. In soli quattordici anni, una monarchia «liberale» e intoccabile militarizzò l'Italia «egoista e marcia» (come l'aveva definita Giuseppe Mazzini) portandola da un massacro legalizzato a una dittatura.

Con la scusa di «ordine e sicurezza» l'autorità suprema del Paese, cioè il sovrano ovvero la più alta autorità dello stato, dava il via libera all'esercito armato per le strade delle principali città, a fermare i teppisti, i pezzenti, i mendicanti d'ogni risma. Per fronteggiare la cosiddetta emergenza, Bava Beccaris era stato nominato commissario straordinario. L'emergenza era dovuta alla fame.

Il regio esercito italiano non era formato da ricchi che cannoneggiavano i poveri che li importunavano, ma da poveri che erano al soldo (soldati) dei ricchi disturbati dalle proteste, anche violente, di altri poveri. Che cosa volevano questi poveri? Il pane. E i ricchi? Mah.

In difesa dell'ordine e della sicurezza (del re e dei partiti al potere), l'esercito dei poveri dislocato nelle strade al comando dei ricchi difese il governo e il sovrano uccidendo un'ottantina di poveri. Bava Beccaris ebbe una medaglia e venne fatto senatore del regno. Esponenti socialisti e cattolici, invece, furono arrestati. Troppa libertà al popolo. Alcuni giornali furono fatti chiudere. Se non sbaglio, tra la folla milanese la Provvidenza infilò anche un anarchico ventenne, un certo Gemelli: un eversore.

Ma è una storia vecchia, altri uomini, altri partiti. Non si sa più né chi era il generale Bava Beccaris, né il re Umberto. Eppure è una storia esemplare oggi che, con la scusa degli infortuni, si vogliono i militari anche sui posti di lavoro. Come diceva l'ex presidente Ciampi parlando di un'altra strage ( Sant'Anna di Stazzema): «Manteniamo la memoria».

Mario Pancera

Riportiamo questo articolo di Roberto Saviano, pubblicato su "L'Espresso", e inviatoci dalla mailing list dolciana "Nessi".


Dodici ragazzi che hanno recitato nel film hanno perso l'anno a scuola. E lo scrittore napoletano racconta quanto questi adolescenti fossero invece bravi, saggi e capaci di discernere tra il bene e il male.

Hanno bocciato Totò e Simone e altri dieci ragazzini che hanno recitato in "Arrevuoto".

La produzione di scarti umani è una delle industrie del capitalismo che non conosce crisi. E sono proprio quegli esclusi dalla società ad essere indicati come l'origine dell'insicurezza.
Un'intervista con lo studioso polacco Zygmunt Bauman pubblicata su "Il Manifesto" del 26 settembre 2008.
Benedetto Vecchi