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Alla ricerca di una politica della speranza

Dalle cronache da basso impero che quotidianamente avvelenano il nostro vissuto, emerge una società lacerata e avvelenata da troppi umori xenofobi, piena di paure e di risentimento.
La Lega veicola, con la sua campagna contro gli immigrati, una parte dello smarrimento sociale di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e l'assenza di visibili alternative di sinistra, a conferma che la crisi non è solo economica ma anche civile e sociale. Certo, dobbiamo essere estremamente umili nel comprendere le condizioni che portano ad adesioni di massa alle campagne emergenziali, quanto determinati a sostenere il nostro punto di vista.

Quel che più impressiona è la rassegnazione malsana che impedisce di andare oltre le lamentele. Sembra che in Italia non emozionino nè coinvolgano più di tanto le rivoluzioni arabe in Nordafrica e Medioriente. Là dove un popolo di giovani scolarizzati e disoccupati sta riuscendo in quello che in Italia non riusciamo più a fare e molti nemmeno a sperare: liberarsi dal regime eversivo vigente. L'infelice paese nel quale ci è dato vivere rischia di diventare un deserto in cui si aggirano morti viventi che non sanno di essere morti. Hanno smesso di desiderare il cambiamento, cioè la vita. Non sanno più immaginare ed emozionarsi, perciò restano abbarbicati alla fragile certezza della loro vita fittizia. Si teme ciò che può avvenire, si teme il futuro.
È un'aria che si respira, che si nutre di una forte carica di rassegnazione. Certo, nessuno chiama tutto questo "rassegnazione"; si preferisce chiamarlo "realismo": la rassegnazione, per essere convincente, parla sempre il linguaggio "ragionevole" e senza enfasi del "realismo". Forse è anche una chiave di lettura dei tempi nuovi, di questo secolo.
Il Novecento - si dice - è stato l'età dell'utopia, il secolo dei sogni. Ma i sogni si sono infranti e la storia ha scottato gli utopisti; così il XXI secolo sembra aprirsi come il secolo delle passioni limitate, dei sogni compressi. Il secolo della morte dell'attesa di futuro, in cui "sperare" e "sognare" sono verbi di vago sapore donchisciottesco.
Tutto questo è stato possibile, ed è possibile, perché si è smarrita una strategia politica di respiro mondiale (l'internazionalismo è atrofizzato, la solidarietà internazionale è declinata come elemosina), da parte di quelle forze (partiti, sindacati e movimenti sociali) che possono costituire leve reali di intervento sulla democrazia rappresentativa. Una strategia che sarebbe invece indispensabile come prospettiva, condizione, visione, fondamento per ciascuna forza politica e sociale reale di cambiamento dell'esistente, in ciascuna parte di ciascun continente.
Per tutto questo bisogna tornare a sperare: "E - vi preghiamo - quello che succede ogni giorno / non trovatelo naturale. / Di nulla sia detto: è naturale / in questo tempo di sanguinoso smarrimento, / di ordinato disordine, di meditato arbitrio, / di umanità disumana, / così che nulla valga / come cosa immutabile" (Bertolt Brecht), se vogliamo rilanciare una sfida credibile per la pace e che non resti inutilmente confinata nell'azzurro dei cieli. Pretendere, così, che l'Onu ritorni ad essere fedele a se stessa, al suo compito, alla sua ragion d'essere, quella di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra".
Con la consapevolezza, certo, che la speranza da sola non basta, in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo. Ma senza speranza non può nascere nessuna pratica politica capace di avere una idea sull'avvenire, concepire piani e progetti; soprattutto liberarci dallo schiacciamento della prospettiva sull'esclusiva dimensione temporale del presente: la politica del giorno per giorno, con il suo pragmatismo privo di principi, di valori, di motivazioni etiche.
Con la consapevolezza che la speranza non sta in aria in attesa di essere afferrata dagli uomini. La speranza è nella storia quella che noi costruiamo, senza di essa un progetto di vita e di società non potrebbero nemmeno darsi. Nessuno che voglia uscire dal pantano in cui siamo sprofondati, con l'obiettivo di ridare prospettive e dignità al paese, può esimersi dal partire da qui.
La speranza è una costruzione sociale, collettiva, si crea: "La Speranza è quella cosa piumata / che si viene a posare sull'anima. / Canta melodie senza parole / e non smette - mai. / E la senti, dolcissima, nel vento. / E dura deve essere la tempesta / capace di intimidire il piccolo uccello / che ha dato calore a tanti. / Io l'ho sentito nel paese più gelido / e sui mari più alieni. / Eppure mai, nemmeno allo stremo, / ha chiesto una briciola di me" (Emily Dickinson).

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo