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La provincia

Nel progetto di soppressione delle province, compresa quella apuana, e della costituzione di nuove province extravaste, quasi delle mini regioni, rilevo un motivo di critica formale ed uno sociologico. Ci sono due valori costituzionali che con tale legge vanno a farsi benedire: il federalismo e la sussidiarietà.  Il primo rappresentava il viatico per il raggiungimento reale della democrazia partecipata, attraverso l’autonomia fiscale basata sulla progressività dell’imposizione tributaria, ed era uno dei pilastri su cui si basava la suddivisione amministrativa (prima ancora che la Lega Nord ne facesse il suo cavallo di battaglia). La sussidiarietà è il metodo di base previsto dalla Costituzione per l’azione amministrativa, nel senso che in essa deve essere favorito l’ente che sta più in basso, che è più piccolo, rispetto al potere centrale, in ragione del fatto che è più vicino ai cittadini ed ha quindi maggiore coscienza dei loro bisogni. Una semplice legge butta a mare tutto ciò, riformando e vituperando la nostra legge fondamentale.

Sul piano sociologico ritengo la provincia la “misura” giusta per la comunità, meglio dei comuni che rappresentano un ventaglio di identità troppo frantumato. La provincia invece rinvia innegabilmente a tradizioni e storie comuni che configurano una identità, concetto anch’esso che è stato sempre promosso, ma mai nei fatti perseguito (addirittura la sinistra per tanti lustri ne fece un vero e proprio nemico), e che invece è sempre rimasto, sotto sotto, un componente oggettivo della coscienza collettiva.

Alla provincia è legato il concetto di periferia, in contro altare al centro. Ebbene questa periferia tanto e da tutti vilipesa rappresenta  il tessuto del nostro paese, forse il suo fondamento. Certo il miraggio del centro ha sempre costituito un richiamo, anche a livello personale, con fughe dalla provincia in cerca del raggiungimento del sé, che nel 99% dei casi sono finite in periferie ben più tragiche, i sobborghi delle grandi città che hanno le loro icone simboliche, cioè non di sola immagine, nelle favelas del terzo mondo. Anche tali derive dovrebbero fare riflettere sui miti che dominano l’attuale sistema sociale, quali l’affermazione personale scaduta a mero arrivismo, quando invece a disposizione c’è un luogo, appunto la comunità locale, che la vita può ben garantirla in tutta la sua positività. E ciò solo nel richiamo a valori ed essenze che possono ancora essere utili, perché messi in atto realmente rappresentano delle risposte praticabili alla crisi generale del modello di vita che occupa il pianeta, oltretutto andando incontro (cioè in direzione) di quel modello di sistema democratico vincente che oggi si definisce con il termine “rete” .

Anche sul piano storico, venendo alla provincia apuana, ci sono dei rimandi significativi. In epoca antica gli apuani combatterono a lungo il sistema romano, e seppur vinti, di fatto si conservarono e si salvarono sui monti, lontani dalle strade imperiali e da ciò che rappresentavano. Dal medioevo sul territorio si configurò un piccolo stato, una sorta di cuscinetto che resistette per secoli alle ambizioni delle potenze vicine e che seppur miserevole, come descrissero poi Montaigne ed altri, rimase autonomo e “sovrano”, il che rappresenta sempre e comunque un principio assoluto.

Per finire se la provincia (ed in senso più largo la periferia) è comunità può ben essere caposaldo di una democrazia partecipata e convinta. Se è sobborgo non può che rappresentarne la fine.

Io temo che le aree vaste conducano purtroppo in questa seconda direzione, e che in ciò ci sia addirittura un disegno.