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Che cosa si nasconde dietro il 5 per mille? (Davide Tondani)

La dichiarazione dei redditi che in queste settimane gli italiani stanno presentando all’Erario contiene una novità rilevante, ossia la possibilità di destinare il 5 per mille delle imposte pagate al sostegno al volontariato, al finanziamento della ricerca scientifica e sanitaria, ad attività sociali dei comuni di residenza.
Tv e stampa, in questo periodo, sono inondati di pubblicità di enti e associazioni dai più apprezzati a improbabili aggregazioni parapartitiche, che chiedono di destinare loro tale quota di imposta.
Non è il caso di soffermarsi sul fatto che associazioni che non hanno mai fatto né volontariato né ricerca concorrono alla spartizione dei fondi, perché ciò rientrerebbe nella casistica degli sperperi e delle regalie all’italiana. E non è il caso nemmeno di fare nomi, perché sicuramente ne dimenticheremmo tanti altri.
La cosa che qui ci interessa affrontare è: quale filosofia, quale idea di società e di bene comune sta alla base del 5 per mille?
La prima reazione dell’opinione pubblica alla novità è stata positiva: potere donare parte delle proprie imposte ad un ente a propria scelta amplia lo spettro delle libertà individuali. Libertà: la parola magica che rende felici i cittadini “liberi di scegliere”.
Ma di quale libertà si tratta? Di una libertà completa e qualificante le persone che compiono la loro scelta, o di pura libertà formale?
Cerchiamo di toglierci il dubbio. Il messaggio sotteso al 5 per mille è: sono i cittadini a scegliere in quale modo indirizzare la ricerca e la solidarietà. Il complemento naturale a ciò è che lo stato se ne occupa molto meno. Anche perché se il 5 per mille dell’intero gettito viene gestito dai cittadini, si riducono gli spazi di manovra per le scelte pubbliche. Inoltre, se lo stato incentiva i cittadini a finanziare a loro discrezione ricerca, solidarietà e quant’altro, ci sarà molto meno bisogno che lo faccia l’amministrazione pubblica. Restringere il ruolo dello stato e permettere ai cittadini di fare una scelta ed eventualmente cambiarla ogni anno a seconda del livello di soddisfazione ottenuto rientra nell’ottica “meno stato più mercato”. Uno slogan accattivante per chi vede lo stato come un vincolo, un peso, una restrizione malsopportata alle proprie libertà, e che assegnerebbe a al pubblico solo i compiti che il singolo non può espletare autonomamente: difendere i confini, garantire sicurezza a tutti, amministrare la giustizia. Insomma, una posizione da “stato minimo”, di matrice libertaria, che non a caso ha trovato terreno fertile in terra statunitense. Negli USA, infatti, sistemi analoghi al 5 per mille da decenni sostengono gran parte dello stato sociale e le iniziative solidaristiche. E in nome del principio che anche le scelte filantropiche non possono essere imposte ma devono nascere dalla libertà personale, lo stato opera solo in via residuale, nelle situazioni di cui nessuno si occupa.
Non è il caso di demonizzare una simile teoria dello stato, che ha conquistato nei secoli fior di pensatori e liberi cittadini e che spesso viene intesa secondo un forzato concetto di “sussidiarietà”. È però il caso di chiedersi: noi cittadini europei e italiani, ci rispecchiamo in questa visione dello stato? La storia ci dice di no: il welfare state è un’invenzione europea, e a vedere dai dibattiti politici, ovunque i cittadini vi sono ancora “affezionati”. Sia il pensiero sociale socialdemocratico che quello cristiano hanno da sempre riconosciuto allo stato il compito primario di operare per massimizzare il benessere, ampliando ( e non riducendo!) così la libertà. Libertà intesa non come “liberi da” vincoli, ma come “liberi di” avere opportunità e garanzie per tutti. Gli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana, che nessuno ha ancora ammesso di mettere in discussione, stanno in questo solco.
Certo la società e il pensiero si evolvono, e allora può anche essere che anche in Italia il libertarismo all’americana faccia sempre più breccia, e i segni ci sono tutti. Ma con tutto rispetto per ogni opinione, per coloro che sottraggono denaro allo stato per assegnarlo ad associazioni che perseguono scopi privati anziché scopi sociali, per quelli che destinano il loro 5 per mille con animo generoso e solidale, è importante abbandonare gli slogan e riflettere sulle scelte “politiche” che stiamo facendo.
Ci domandiamo allora: la ricerca sanitaria e scientifica, che produce benessere e sviluppo non per chi la fa ma per tutti, debbono essere oggetto di una progettazione e di un finanziamento pubblico? La solidarietà sociale, il volontariato, l’attenzione alla povertà e alla marginalità, che assicurano dai rischi tutti i cittadini, o ancora , la cooperazione internazionale, debbono essere un impegno pubblico che il cittadino indirizza con il proprio voto, oppure devono essere demandati all’iniziativa privata?
Questa è la partita che si gioca intorno al 5 per mille: la scelta – sottile e per questo non percepita – tra diversi modelli di convivenza sociale. Ogni cittadino, mentre firma la propria dichiarazione, dovrebbe riflettere, più che sulla bontà del proprio gesto, soprattutto su quale tipo di stato intende costruire.