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Film-denuncia di Hana Makhmalbaf

"Le donne in Iran sono come le molle: più le costringi e più salteranno in alto". Col capo coperto dal velo, ma verde, colore della protesta iraniana, è arrivata ieri alla Mostra del cinema di Venezia Hana Makhmalbaf, la più giovane della celebre famiglia di cineasti capeggiata dal papà Mohsen. Fuori concorso ha presentato Green Day, scioccante documentario sulla repressione del regime di Teheran all'indomani del golpe che ha riportato al potere Ahmadinejad, nonostante i voti schiaccianti in favore del suo oppositore Mousavi. Girato in clandestinità e con molti video "rubati" col telefonino, il film ci porta attraverso l'entusiasmo della campagna elettorale, le strade ingorgate di auto, come da noi dopo le partite, con i sostenitori di Mousavi e poi attraverso l'orrore della repressione. Il corpo di Neda sanguinante, le bastonate dei poliziotti, le torture. "Sono 11.000 le persone imprigionate e violentate nelle carceri del mio paese", denuncia Hana. Gli stupri sono l'aspetto meno noto all'Occidente della violenza del regime. "Negli ultimi quattro anni - prosegue la regista ventenne - la vita di tutti noi è peggiorata. Siamo costretti ai sotterranei: l'arte, il cinema, la musica, tutto è sotterraneo perché la censura non permette più nulla. Il mio popolo è in ostaggio. Io sono in ostaggio".
Eppure, proprio come l'altro giorno ha testimoniato Shirin Neshat, la voglia di lottare degli iraniani è inarrestabile. Come dimostra la massiccia presenza di registi iraniani a questa Mostra. Ultimi, un gruppo di giovanissimi filmaker di Teheran che hanno presentato i loro corti di denuncia alle Giornate degli autori. "Ogni uomo è un esercito, ognuno di noi è ambasciatore - spiega la combattiva Hana -. Ed io col mio cinema sono testimone. Io sono lo specchio del mio paese che non smette di lottare.
Così com'è stato per Hitler e Saddam, il destino di ogni fascismo è segnato, non durerà in eterno". E anche per le donne sarà lo stesso. "Noi abbiamo subito tanto, il doppio degli uomini, ed è per questo che oggi la protesta è donna. Col nostro manifestare vogliamo portare pace e democrazia". Per questo, conclude, "vogliamo che l'Occidente non appoggi Ahmadinejad. Al resto pensiamo noi: il nostro destino è nelle nostre mani, siamo un popolo che combatte da trent'anni per la libertà".

Fonte: "L'Unità" del 12 settembre 2009