• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Oscar Arnulfo Romero e Marianella García Villas. Due vite spese per El Salvador e la dignità umana

Nel 35° anniversario dell’assassinio dell’arcivescovo di San Salvador – la cui beatificazione è stata decisa da papa Francesco lo scorso 3 febbraio – e nel 32° di quello della giovane presidente della Commissione per i diritti umani, ne ripercorriamo le biografie parallele. Qual è la chiave che le accomuna? Che cosa hanno significato per la Chiesa e per El Salvador queste due figure? Quale eredità lasciano?

Lunedì 24 marzo 1980, alle ore 18,25, mentre sta celebrando la Santa Messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che nella nazione centroamericana denuncia violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e complicità. Si tratta di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche, mentre per i poveri e gli oppressi è una voce amica e fedele.

Tre anni dopo, il 13 marzo 1983, viene assassinata, a soli 34 anni, in El Salvador, Marianella García Villas, presidente della Commissione per i diritti umani. Le sue denunce e le sue prese di posizione erano divenute inaccettabili per la giunta militare al potere. Pertanto, come accaduto tre anni prima per mons. Oscar Romero, con il quale aveva a lungo collaborat, anche la sua voce viene messa a tacere per sempre.

Un sacerdote “romano” e una giovane borghese

Oscar Arnulfo Romero  nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, un paesino di mille abitanti. Per la formazione di Romero sono fondamentali i sei anni di studio trascorsi a Roma (1937-1943), presso la Pontificia Università Gregoriana, dove matura un senso più universale della Chiesa. Questo periodo opera in lui una sorta di “romanizzazione”, centrata su un’idea alta della funzione della Chiesa e sull’affermazione del primato dell’ecclesiale e dello spirituale. Gli studi romani sono per il giovane Romero occasione di formazione, non di ricerca teologica. E formazione significa fondamentalmente adesione al Magistero della Chiesa e svolgimento puntiglioso dei propri doveri di pietà religiosa. A 25 anni, il 4 aprile 1942, è ordinato sacerdote. Nell’agosto 1943 lascia Roma e fa ritorno nel proprio Paese.

Marianella García Villas nasce in El Salvador il 7 agosto 1948. La sua famiglia fa parte dell’alta borghesia. Riceve la prima educazione nel collegio La Asunción, un collegio esclusivo di San Salvador. Poi viene inviata in Spagna, a Barcellona, dove studia nei collegi frequentati dai rampolli delle famiglie aristocratiche e borghesi della Catalogna. Tornata in El Salvador, si iscrive all’Università, a Legge e Filosofia. Durante tali anni Marianella entra a far parte dell’Asociación Católica Universitaria Salvadoreña: è un’esperienza fondamentale perché qui si trova a discutere e ad analizzare i documenti del Concilio e di Medellin, a leggere i testi della teologia della liberazione, ad approfondire i concetti di “ingiustizia strutturale”, di “peccato sociale” e di “scelta preferenziale per i poveri”.

Un prete legato alla tradizione, una donna determinata

Fino al 1967, dunque per ventitré anni, Romero presta il proprio servizio nella diocesi di San Miguel assumendo molti incarichi, da quello di segretario del vescovo e di parroco a quello di assistente di diverse associazioni. Il Romero di San Miguel, in continuità con il periodo romano, si rifà per lo più alla tradizione. Le sue preoccupazioni riguardano in particolare la cura dei doveri spirituali e liturgici, la disciplina ecclesiastica, il contrasto alla diffusione del protestantesimo, la lotta contro i massoni, la denuncia del comunismo. La difesa e la trasmissione dell’ortodossia cattolica nella sua integrità rappresentano la sua costante preoccupazione. Nel 1967 Romero viene nominato segretario della Conferenza Episcopale Salvadoregna e poco dopo anche di quella dell’America Centrale.

L’esperienza nell’Azione Cattolica Universitaria aveva invece fatto ben presto capire a Marianella la grave situazione in cui versava il proprio popolo. Il primo strumento che utilizza per cambiare la realtà delle cose è la politica. Nel gennaio 1970 si iscrive alla Democrazia cristiana, entrando a far parte del settore giovanile. Marianella e diversi altri giovani del partito elaborano un pacchetto di idee e proposte molto avanzate: il loro intento è quello di affrontare con coraggio i drammatici problemi del proprio Paese, sulla base delle nuove indicazioni della dottrina sociale cristiana.

Medellin e la teologia della liberazione

Il 1968 è l’anno della II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, che si svolge a Medellin in Colombia dal 24 agosto al 5 settembre. Vengono approvati sedici documenti, sui vari aspetti della vita della Chiesa; quelli che hanno più risalto riguardano la pace e la giustizia sociale. In tali testi si afferma “la scelta preferenziale per i poveri” (opción por los pobres) e si sottolinea la necessità che la Chiesa si impegni in modo concreto nella denuncia delle ingiustizie sociali, presenti in America Latina in forme strutturali.

Il 1971 é anche l’anno della pubblicazione del testo di Gustavo Gutierrez “Teologia della liberazione”. In una lezione a Lovanio, Gutierrez spiegò con semplicità in che cosa consisteva la teologia della liberazione: mentre i teologi europei si preoccupavano del “non credente”, i teologi della liberazione si preoccupavano del “non uomo” (el no hombre). Gutierrez terminò poi la sua dissertazione con queste lapidarie parole: «Para este no hombre se ponga de pié, existe la teología de la liberación (la teologia della liberazione esiste perché questo non uomo si rimetta in piedi)»[1]. La teologia della liberazione, un tentativo di coniugare fede e giustizia, un’attitudine a guardare Dio dalla realtà dell’ingiustizia e della disuguaglianza, preoccupa Romero, perché ne teme una deriva troppo politicizzata. In suo aiuto arriva l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, che gli permette di leggere con chiarezza tutte queste novità che invadono la chiesa latinoamericana: il Papa afferma che la liberazione evangelica è liberazione da tutte le schiavitù, da quelle personali, ma anche da quelle sociali e strutturali che feriscono e degradano l’uomo. Non c’è dunque bisogno del marxismo, basta prendere in mano seriamente il Vangelo per combattere tutte le ingiustizie e parlare di liberazione.

Il 21 aprile 1970 Romero viene nominato vescovo. Il motto che sceglie per il suo ministero episcopale è: Sentir con la Iglesia. È un programma di vita che sta ad indicare un aspetto che Romero non abbandonerà mai: l’amore e l’attaccamento alla Chiesa. Non tutti i preti salvadoregni apprezzano la nomina del nuovo vescovo: i più entusiasti dei cambiamenti provenienti dal Concilio e dalla Conferenza di Medellin vedono nella nomina di Romero una vittoria della tradizione e di quella parte della Chiesa latinoamericana avversa ad ogni cambiamento. Il 15 ottobre 1974 Romero viene nominato vescovo di Santiago de Maria, dove rimane per due anni, manifestando sempre posizioni fedeli alla tradizione. Un vescovo, insomma, conservatore. Tuttavia qui Romero sta tra la gente e ciò lo porta a incontrare la profonda miseria in cui versa gran parte della popolazione e a porsi i primi interrogativi sulla realtà dell’ingiustizia e della disuguaglianza.

Marianella per parte sua accoglie con entusiasmo la scelta per i poveri attuata a Medellin e le analisi della teologia della liberazione. Nel 1974 viene eletta come deputato al Parlamento, all’interno del cartello della Unión Nacional Opositora, che riunisce i democristiani, i socialdemocratici e i comunisti. La maggioranza assoluta resta comunque al Partido de Conciliación Nacional, espressione dell’oligarchia economica. Se il lavoro nell’aula parlamentare risulta frustrante e improduttivo, l’attività nella commissione Bienestar publico (Benessere pubblico) si rivela invece significativa: la commissione infatti si trova a visitare i luoghi in cui avvengono i primi massacri di contadini, colpevoli di reclamare la distribuzione delle terre o salari più giusti.

Con l’inizio del 1977 si avvia in El Salvador una fase di più acuta e violenta repressione, attuata dai militari al soldo dell’oligarchia economica.  In un tale clima si giunge alle elezioni presidenziali del 20 febbraio 1977, che vengono vinte grazie alle intimidazioni e ai brogli dal Partido de Conciliación Nacional, appoggiato dagli agrari e dai settori più repressivi e conservatori delle forze armate.

La “fortezza pastorale” e le armi del diritto

Alla fine del 1976 l’arcivescovo di San Salvador, mons. Luìs Chavez Gonzalez, rassegna le dimissioni per raggiunti limiti di età. L’ausiliare, Arturo Rivera y Damas, sembra il naturale candidato a sostituirlo, ma per le sue posizioni critiche nei confronti del governo non ottiene l’incarico. La scelta, sostenuta dalle massime autorità ecclesiali della regione e anche dall’oligarchia, cade così su Oscar Romero, ritenuto più moderato. L’ingresso a San Salvador del nuovo arcivescovo avviene il 22 febbraio 1977.

Pochi giorni dopo accade un fatto drammatico. Il 12 marzo 1977 il gesuita padre Rutilio Grande, fraterno amico di Romero, viene assassinato a colpi di arma da fuoco. Assieme a lui sono uccisi due campesinos. Rutilio Grande, con la sua vita accanto ai contadini, era visto come colui che li spingeva alla lotta politica e sindacale; dunque era ritenuto un pericolo per gli interessi degli agrari. Romero considerava padre Rutilio un vero uomo di Dio. L’assassinio del gesuita costituisce pertanto un fatto sconvolgente per l’arcivescovo: per la prima volta la violenza del potere lo tocca nei suoi affetti più cari e lo costringe a interrogarsi a fondo sui motivi di tutto ciò. Di fronte al cadavere dell’amico, Romero inizia a comprendere che il Corpo vivente di Cristo, i poveri, sono oppressi e uccisi da un potere politico ed economico che si presenta come baluardo della cristianità, ma che in realtà è inumano e anticristiano. I sacerdoti e i religiosi di San Salvador, fino ad allora tiepidi nei confronti del nuovo arcivescovo, ora si stringono attorno a lui, riconoscendolo come propria autorevole guida.

Tra il 1977 e il 1980 altri cinque sacerdoti vicini a mons. Romero vengono assassinati dalle Forze di sicurezza e dagli squadroni della morte, oltre ad un numero imprecisato di catechisti e di delegati della Parola, di contadini sindacalizzati e di esponenti delle forze di opposizione. Si chiede mons. Romero durante un’omelia:

«Perché si assassinano sacerdoti e cristiani che cercano di essere fedeli alla propria vocazione? Io credo di poter dire - e per me è ragione di orgoglio - che questo avviene perché l’arcidiocesi di San Salvador non vuole essere indifferente né complice della situazione di peccato e di violenza strutturale che esiste nel nostro Paese»[2].

Romero stesso era solito parlare di “svolta” nella sua vita. Preferiva però dire che, grazie al sacrificio di padre Rutilio, Dio gli aveva concesso una particolare “fortezza pastorale”, capace di fargli affrontare con coraggio conflitti e persecuzioni, senza vacillare di fronte al dramma di sacerdoti, catechisti e fedeli torturati o uccisi.

Marianella intanto era uscita dalla Democrazia cristiana, ritenendola troppo tiepida nei confronti dei militari. In una situazione di sempre maggiore repressione e di diffusa violenza, nell’aprile 1978 si decide di costituire una “Commissione per i diritti umani”, con il compito di coordinare le difese dei prigionieri politici e raccogliere prove e testimonianze sulle sempre più gravi e diffuse violazioni dei diritti umani. Marianella è tra i principali promotori di questa Commissione e in seguito ne diverrà Presidente. Nell’ufficio della Commissione è un continuo via vai di persone, che denunciano soprusi e violenze, presentano reclami, chiedono di essere difese, sollecitano ricerche per la scomparsa di familiari e amici. Marianella, abbandonata l’attività politica diretta, sceglie dunque le armi del diritto per opporsi alla dittatura militare.

«Questo è diventato il nostro lavoro prevalente, correre dalle sei del mattino fino a notte a riesumare cadaveri nascosti sotto un palmo di terra. Li fotografiamo per permettere la identificazione da parte dei parenti e per documentare le torture, e poi via, di corsa, con il povero corpo straziato per dargli una vera sepoltura. È una sequela di scene strazianti. Uomini e donne che vengono e guardano le nostre foto, con la speranza di non trovare quella del figlio, del fratello, della moglie o del marito scomparso»[3].

Il 12 maggio 1978, nel corso di una manifestazione di campesinos, Marianella García Villas viene fermata e condotta a forza alla centrale di polizia; poi, mentre è ancora in stato d’arresto, viene violentata da un uomo del servizio di spionaggio della polizia nazionale. Il giorno dopo, una volta rilasciata per l’intervento di dirigenti della Democrazia cristiana, si reca a confidarsi, ancora piena di odio e di desiderio di vendetta, con mons. Romero. Alla fine di quel drammatico colloquio Marianella decide che non si sarebbe vendicata e che anzi avrebbe continuato la propria lotta con ancora maggiore determinazione .

Nel solo mese di maggio 1979 si contano in El Salvador 115 morti, 55 arrestati, 92 feriti, 28 edifici incendiati o lesionati. Ad ogni segnalazione di violenza, Marianella e gli altri componenti della Commissione accorrono nel luogo indicato per documentare quanto accaduto: devono arrivare prima della polizia, per scattare liberamente delle foto ai cadaveri ed evidenziare così le brutalità perpetrate, le torture, e raccogliere le dichiarazioni di eventuali testimoni.

Insieme contro la repressione

A Oscar Romero, divenuto la voce di un popolo oppresso e perseguitato, ogni fine settimana Marianella fa pervenire informazioni dettagliate su quanto avvenuto nel Paese: uccisioni, torture, massacri, sparizioni. Così l’arcivescovo può preparare la propria omelia domenicale, utilizzando anche le informazioni che gli arrivano dal “Socorro Juridico”, un organismo diocesano.

Alla messa che ogni domenica alle otto celebra nella cattedrale sono spesso presenti giornalisti stranieri, americani ed europei, pronti a raccogliere le precise denunce che Romero pronuncia dal pulpito. Per l’arcivescovo compito del sacerdote è annunciare la Parola di Dio, senza però separarla dalla realtà storica. La vita va illuminata con il Vangelo. Le sue omelie, ascoltate e quasi venerate da una parte, temute e osteggiate dall’altra, sono diffuse in tutto il Salvador dalla radio diocesana Ysax. Esse rappresentano il tentativo di illuminare con la Parola di Dio i momenti difficili e tragici che il Salvador sta vivendo. Scrive l’arcivescovo:

«Una predicazione che non denunci il peccato, non è predicazione del Vangelo. Una predicazione che accontenti il peccatore, perché si consolidi nella sua situazione di peccato, tradisce la chiamata del Vangelo. Una predicazione che svegli, una predicazione che illumini, questa è la predicazione di Cristo[4].

È molto facile essere servitori della Parola senza dar fastidio al mondo, una Parola molto spiritualista, senza impegno con la storia, che può risuonare in qualunque parte del mondo, perché non è di alcuna parte del mondo: una Parola così non crea problemi, non genera conflitti. Ciò che genera i conflitti, le persecuzioni, ciò che segna la Chiesa autentica, è quando la Parola bruciante, come quella dei profeti, annuncia al popolo le meraviglie di Dio, perché vi creda e le adori, e denuncia i peccati degli uomini che si oppongono al Regno di Dio, perché li estirpino dai loro cuori, dalle loro società, dalle loro leggi, dai loro organismi che opprimono, che imprigionano, che calpestano i diritti di Dio e dell’umanità»[5].

Ben presto i vescovi del Paese, ad eccezione di Arturo Rivera y Damas, contestano fermamente l’operato di Romero. Lo accusano di fomentare le rivolte, lo dipingono come sovversivo, come comunista. L’arcivescovo è molto amareggiato per queste accuse dei suoi confratelli e per la divisione che così si crea nell’episcopato salvadoregno, ma non può fare altrimenti: la sua fedeltà deve essere al Vangelo e a Cristo. La posizione di questi vescovi e quella del nunzio, pure critico con mons. Romero, viene sfruttata dalla Giunta militare per legittimare le proprie attività di repressione. Scrive l’arcivescovo:

«La dimensione politica della fede non è altro che la risposta della Chiesa alle esigenze del mondo reale e socio-politico in cui la Chiesa vive. Non che la Chiesa consideri se stessa come un’istituzione politica. È qualcosa di più profondo ed evangelico: è l’autentica opzione per i poveri, l’opzione di incarnarsi nel loro mondo, di annunciare loro una buona notizia, di dare loro una speranza, di incoraggiarli a una prassi liberatrice, di difendere la loro causa e di partecipare al loro destino. È perché ha optato per i poveri reali e non fittizi, perché ha optato per coloro che sono realmente oppressi e repressi, che la Chiesa vive nel mondo del politico e si realizza come Chiesa anche attraverso il politico. Non può essere diversamente se anch’essa, come Gesù, si rivolge ai poveri»[6].

Da Roma è Paolo VI a incoraggiare e sostenere l’arcivescovo di San Salvador. Un deciso appoggio a Romero viene anche dal superiore generale dei gesuiti, padre Pedro Arrupe, e dal cardinale argentino Eduardo Pironio, prefetto della Congregazione per le religioni.

L’assassinio dell’arcivescovo e l’esilio di Marianella

Con gli inizi del 1980 la situazione in Salvador va sempre più degenerando. Le forze armate e gli squadroni della morte continuano nella loro opera di repressione contro la guerriglia e contro le forze sindacalizzate, contro i sacerdoti e i catechisti più impegnati nella pastorale, contro gli esponenti delle comunità di base. Gli appelli di Romero a cessare la repressione e attuare le riforme restano inascoltati. L’arcivescovo si rivolge, senza successo, anche ai gruppi rivoluzionari ai quali pure chiede di abbandonare la strada della violenza. La via che Romero propone a tutti è quella evangelica della nonviolenza e della civiltà dell’amore:

«Mai abbiamo predicato la violenza, solo la violenza dell’amore, quella che lasciò Cristo inchiodato in una croce, quella che fa ciascuno per vincere i propri egoismi e perché non ci siano disuguaglianze così crudeli fra di noi. Questa violenza non è quella della spada, dell’odio. È la violenza dell’amore, della fraternità, quella che vuole trasformare le armi in falci per il lavoro»[7].

Il 17 febbraio 1980 Romero prende un’iniziativa senza precedenti: scrive al presidente americano Carter, in carica dal 20 gennaio 1977, per chiedergli di non concedere aiuti militari alla Giunta salvadoregna, poiché essi avrebbero favorito la repressione. La richiesta non viene accolta[8]. Domenica 23 marzo, ultima di Quaresima, Romero celebra la messa nella basilica del Sagrado Corazón. Nell’omelia si appella direttamente ai soldati perché non obbediscano a leggi ingiuste e non agiscano contro la legge di Dio, che chiede di non uccidere. Il giorno successivo, lunedì 24 marzo, mentre sta celebrando la Messa nella chiesa dell’ospedale della Divina Provvidenza, Oscar Romero viene assassinato.

Marianella riceve la notizia dell’assassinio di mons. Romero mentre si trova nella sede della Commissione. Nonostante l’arcivescovo fosse da tempo nel mirino delle forze militari e  degli squadroni della morte, il suo assassinio getta Marianella e i suoi compagni nello sconforto: c’era sempre stata la speranza che così in alto non si sarebbe mai giunti a colpire. Dopo lo sconcerto e lo sconforto, dalla Commissione partono telefonate per tutto il mondo.

Con l’assassinio di Oscar Romero, il Paese scivola lentamente verso la guerra civile.

L’elenco delle persone vittime della repressione si allunga sempre più. La Commissione dei diritti dell’uomo registra tutto, al fine di documentare quanto accade in Salvador davanti agli organismi internazionali. Per El Salvador e per diversi altri Paesi dell’America latina si può parlare dunque di un vero e proprio martirologio, ossia di un lungo elenco di uomini e di donne che sono andate incontro al martirio.

All’indomani dell’assassinio di mons. Romero, la Commissione salvadoregna per i diritti umani trasferisce la propria attività a Città del Messico, per le continue minacce e violenze di cui era fatta oggetto. Marianella rientra comunque diverse volte in Salvador per condurre indagini sulle brutali violenze delle forze militari.

Nel primo anniversario dell’assassinio di Oscar Romero, Marianella ricorda l’arcivescovo sul bollettino della Commissione per i diritti umani chiedendo a gran voce di «non lasciare seppellire insieme con il profeta anche le sue parole»[9].

Un vescovo educato dal popolo, una donna avvocata del popolo

Dopo l’assassinio di Oscar Romero da più parti si chiese a gran voce la sua beatificazione. Soprattutto in America centrale e meridionale l’arcivescovo-martire da subito venne comunque considerato un santo e venerato come “San Romero de las Americas”.

La causa di beatificazione di Oscar Romero, avviata nel marzo 1994, ha ricevuto un decisivo impulso nel gennaio di quest’anno con il riconoscimento, da parte del collegio dei teologi della Congregazione per le cause dei santi, del martirio dell’arcivescovo salvadoregno, assassinato in odium fidei.  Poche settimane dopo, il 3 febbraio, papa Francesco ha firmato il Decreto per la Beatificazione. La sua morte è stata riconosciuta come una forma di martirio, perché ucciso in odio alla fede e non solo per motivi politici. Nel suo ministero pastorale infatti è riuscito a coniugare fede e giustizia, intervenendo sulle questioni politiche e sociali del suo Paese senza confondere i piani e senza sconfinare così nell’attivismo politico, ma neanche separandoli, estraniandosi dal contesto storico. Così potrà infine essere beatificato Romero, un santo che ha incarnato lo stile pastorale della “Chiesa in uscita” (cfr. Evangelii gaudium, nn. 20-24).

La lapide posta sulla tomba di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: sentir con la Iglesia. Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando fedelmente ancorato alla Chiesa. Soprattutto nei tre anni in cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente sentito e accolto il grido del proprio popolo. Si schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi, convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata, indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei massacri. Come ha scritto il card. Carlo Maria Martini, Oscar Romero è stato dunque «un vescovo educato dal suo popolo».

In qualità di Presidente della Commissione per i diritti umani, Marianella, soprattutto dopo l’ssassinio dell’arcivescovo, si reca spesso all’estero per illustrare la situazione del proprio Paese e per chiedere aiuto e sostegno per il proprio popolo. Nel novembre 1979 è in Italia, a Firenze, al Congresso della “Federazione internazionale per i diritti umani” e in tale occasione viene eletta vicepresidente di tale federazione. Nel 1981 e nel 1982 torna più volte nel nostro Paese e tiene incontri a Padova, Brescia, Bologna, Milano, Parma, Livorno, Roma.

Marianella viene poi accreditata a Ginevra presso la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, dove si reca a più riprese per presentare a livello internazionale i drammatici problemi che interessano il proprio Paese.

Dal 9 al 12 febbraio 1981 Marianella è a Città del Messico, dove è riunito il Tribunale dei Popoli per prendere in esame la situazione di El Salvador.  Marianella mostra al Tribunale le immagini fotografiche che ha raccolto nel corso della sua attività e le prove delle brutali torture che vengono praticate nei confronti degli oppositori del regime o anche solo di quanti sono sospettati di contrarietà al governo militare. Alla fine, dopo numerose altre audizioni, il Tribunale emette la propria sentenza di condanna della Giunta Militare di El Salvador come responsabile dei seguenti crimini contro l’umanità: genocidio, pratica della tortura e delle “sparizioni” e violazione dei diritti fondamentali del popolo di El Salvador. Per complicità viene sanzionato anche il governo degli Stati Uniti.

La situazione nel proprio Paese permane esplosiva, ma Marianella e i suoi compagni continuano nella loro attività di denuncia a livello internazionale. Scrive la giovane salvadoregna su un giornale spagnolo:

«Per noi che viviamo quotidianamente le angosce di questa vita, per noi che sentiamo quotidianamente sulla nostra pelle la morte degli altri, per noi che tocchiamo le ferite, i segni delle torture sui cadaveri, per noi che raccogliamo corpi senza testa, teste senza corpo e le ossa dei nostri fratelli, per noi che abbiamo fotografato le vittime, per noi che abbiamo ascoltato i testimoni, il pianto silenzioso e anonimo di familiari anonimi di vittime anonime, tutto questo è un panorama abituale, parte sostanziale della nostra vita, sempre appesa al filo del caso. Tutto questo è la nostra vita quotidiana, che si riflette nei nostri occhi, che invade il nostro olfatto, che impregna le nostre mani. Ma è anche ciò che rafforza e legittima la nostra azione e la lotta del nostro popolo per la conquista del diritto alla vita, a un tetto, a un libro, a un tozzo di pane.

Non ci importa se ci chiamano sovversivi, traditori della patria; non ci importano gli arresti e le vessazioni che abbiamo patito per difendere i prigionieri politici; non ci importano le distruzioni con le bombe delle nostre sedi e delle nostre case. Continuiamo a lottare con la voce e con la penna, e con il pensiero certo angosciante che possa arrivare la morte»[10].

Per Marianella la stessa fine di Monsignore

Il 19 gennaio 1983 Marianella torna in El Salvador e si reca a Chalatenango, Morazan, San Vicente, Yucaplan, da dove giungevano notizie sempre più frequenti circa l’uso di armi chimiche, al fosforo bianco e al napalm, da parte delle forze armate salvadoregne. Marianella viene catturata dal battaglione Atacatl il 13 marzo, mentre sta raccogliendo per la commissione Onu sui diritti umani le prove, anche fotografiche, sull’uso di queste armi da parte dei militari. In quella stessa operazione decine di campesinos rimangono uccisi. Condotta in elicottero alla Scuola Militare di San Salvador, viene brutalmente torturata e infine dilaniata da proiettili esplosivi. Il giorno dopo, 14 marzo, il suo corpo martoriato viene riconsegnato ai familiari. Da pochi giorni era terminata la visita di Giovanni Paolo II in El Salvador.

L’assassinio di Marianella provoca una grande impressione anche in diversi Paesi europei, dove la giovane salvadoregna era venuta più volte per chiedere appoggio alla causa del proprio popolo. In Italia numerosi parlamentari presentano al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri delle interrogazioni per sollecitare una presa di posizione. Intervengono, tra gli altri, anche il filosofo Norberto Bobbio, che invia un telegramma alla Commissione salvadoregna per i diritti umani per esprimere tutta la propria vicinanza e solidarietà, e padre David Maria Turoldo, che scrive un telegramma a papa Giovanni Paolo II chiedendogli di additare al mondo intero il sacrificio di Marianella.

Un mese dopo l’assassinio, esattamente il 18 aprile 1983, Marianella viene ricordata a Roma, in Campidoglio, da Raniero La Valle[11] e da Luigi Bettazzi, alla presenza di un commosso Sandro Pertini, presidente della Repubblica, e di Nilde Jotti, presidente della Camera.

Due restauratori della dignità umana

Marianella García Villas e Oscar Romero, e come loro tanti altri anonimi e sconosciuti martiri, sono stati testimoni di un’altra storia possibile: hanno dimostrato con la loro vita che perseguire il diritto e la giustizia rappresenta la strada maestra per costruire una società più umana e più rispettosa di tutti.

Marianella e Oscar Romero hanno offerto la vita per il proprio popolo e di entrambi va fatta memoria, per fare nostri i loro esempi e per trarre dalle loro azioni motivi per un impegno sempre più incisivo nella difesa e nella promozione della dignità umana, come ha puntualmente osservato Ettore Masina:

«Romero e Marianella, questi due santi che ricompongono l’identità dei poveri, questi due restauratori della dignità umana violata, mi sembrano viventi icone che noi dobbiamo contemplare con venerazione attiva. È questo che siamo chiamati a fare, se non vogliamo perderci in inutili rimpianti o nostalgie o, peggio ancora, rituali celebrativi. Fare memoria, infatti, non vuole dire ricordare, vuol dire vivere profondamente come nostri e attuali gli esempi di fede che cerchiamo di rileggere, sentendoli parte integrante della nostra storia; vuol dire renderci conto della verità che Ernesto Balducci ci spiegava dicendo che i santi ci sono dati perché noi non possiamo più vivere come se essi non ci fossero stati. E cioè per offrirci una nuova qualità di vita, per stanarci dalle nostre pigrizie e dai nostri pessimismi, per dirci che, attraverso noi, ma non senza di noi, un altro mondo è possibile»[12].

Anselmo Palini[13] - (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - http://www.anselmopalini.it/)

Articolo pubblicato su “Aggiornamenti Sociali”, rivista mensile dei gesuiti del Centro San Fedele di Milano,  n. 3, marzo 2015


[1] In M. De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Emi, Bologna 2006, p. 167.

[2] Citato in E. Masina, L’arcivescovo deve morire, Il Margine, Trento 2011, p. 203.

[3] «L’Unità», 18 gennaio 1981.

[4] O. Romero, La violenza dell’amore, Città Nuova, Roma 2002, pp. 46-47.

[5] Ibidem, p. 32.

[6] Dal discorso a Lovanio del 2 febbraio 1980, in occasione della consegna del dottorato honoris causa, riportato in La voce di Oscar Romero, Testi e omelie, Borla, Roma 2007, pp. 146-159.

[7] R. Morozzo Della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, Milano 2005, p. 168.

[8] Con i due mandati della presidenza di Ronald Reegan gli aiuti militari alla Giunta salvadoregna aumenteranno ulteriormente.

[9] E. Masina, L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo, cit., pp. 339-340.

[10] Questo testo, pubblicato originariamente sul giornale spagnolo “El Pais”, e stato ripubblicato in Italia da «Famiglia Cristiana» nel numero del 17 aprile 1983, poche settimane dopo l’assassinio di Marianella García Villas.

[11] Di R. La Valle e L. Bimbi si veda, Marianella e i suoi fratelli, Feltrinelli, Milano 1983. Raniero La Valle ha anche realizzato un’intervista a Marianella trasmessa dalla Rai a “Spazio 7” il 21 gennaio 1981.

[12] Ettore Masina, I nomi dei poveri. Nel XXII anniversario del martirio di Oscar Romero, «Il Margine», mensile dell’associazione Oscar Romero di Trento, 5/2002, p. 14. Si veda anche: Bartolomeo Sorge, L’eredità di mons. Romero, «Aggiornamenti sociali», marzo 2005.

[13] Autore di Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo” editrice Ave, Roma 2010 e di Marianella García Villas. Avvocata dei poveri, compagna degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi, editrice Ave, Roma 2014, con prefazione di Raniero La Valle e postfazione di Linda Bimbi. 

(per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - http://www.anselmopalini.it/)