• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Avanti popolo cattolico, alla riscossa!

«I poveri non possono aspettare». Il «metodo don Milani» in un doposcuola gratuito per studenti italiani e stranieri

Mario Pancera


Alle 6 del mattino, Hassan si alza, si prepara e corre a prendere l’autobus, poi la metropolitana, poi un altro autobus: parte da un paese della periferia est di Milano per arrivare a un altro paese oltre la periferia sud. Deve essere in classe alle 8,00. Casa e scuola. E al primo pomeriggio, ritorno. È africano, frequenta un istituto tecnico. Ha diciotto anni, fa la quarta superiore. Da cinque anni vive da solo in Italia, in casa di parenti. Nel pomeriggio, quando può, frequenta un doposcuola tenuto da un gruppo di volontari, in un edificio in cui si trovavano tristi aule vuote e, adesso, al pomeriggio sono piene di ragazzi.

È possibile che ci siano giovani così, che, senza soldi per pagarsi le ripetizioni private, facciano ogni giorno questa vita? Sì, a Milano sono tanti. Sudamericani, europei dell’est, asiatici, africani. Studiano lingue oppure fanno studi socio-sanitari (chi vuol fare l’infermiere, chi il medico) oppure ragionieri o qualcosa di simile. Frequentano scuole intitolate a personaggi famosi, ma che quasi mai conoscono. Per forza, direte: sono stranieri. No: il doposcuola è frequentato anche da italiani. Poveri di denaro e di istruzione come gli stranieri. «I poveri non possono aspettare», ha esclamato domenica papa Francesco indicando uno striscione innalzato tra la folla in piazza San Pietro.

Molte sono le ragazze. Le musulmane portano il velo. Quanto a religione, c’è il miscuglio più assoluto. Uno studente, nato a Milano da genitori asiatici, ha il padre cattolico, la madre buddista. Da quel che si vede, lui non ha interessi di fede particolari. Un altro si dice cristiano, sa che cos’è il Natale, ma non ricorda i personaggi del presepio. Peggio, secondo me: non sa che cosa sono il bue e l’asino. Non conosce gli animali.

Ognuno di loro è assistito da un insegnante: un’ora ciascuno, a volte due di seguito. Cinque pomeriggi la settimana. Alcuni sono timidi, nessuno strafottente. Del resto, qui non resisterebbe più di un giorno. Qualcuno, durante la lezione si distrae, è stanco. C’è una ragazza eritrea che deve studiare il primo canto del «Purgatorio» dantesco, un tunisino se la deve vedere con Vico, un’altra straniera deve riferire sulla famiglia Flavia, un quarto deve fare un riassunto di Buzzati e uno di Saint-Exupéry, autori dei quali nessuno gli ha detto mai nulla. Dopo tram, autobus, metro e corse da una capo all’altro della città che cosa possono fare? Per fortuna, tutti hanno voglia di imparare, soprattutto vogliono imparare bene l’italiano.

Non c’è commento. Gli immigrati timidi devono ricordare che ognuno di loro, oltre all’italiano che sta imparando, parla già almeno due lingue: la propria, arabo o indiano o altro, e il francese o l’inglese o lo spagnolo o il portoghese, a seconda della provenienza e delle scuole frequentate in origine. Parecchi italiani, purtroppo, sanno a malapena la loro lingua. Non è un handicap da poco. Si vedano le statistiche dell’Ocse, cioè l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che riguardano l’istruzione degli italiani adulti, dai 16 ai 65 anni. Un dolore.

Per concludere: Hassan è un nome di fantasia, naturalmente. Non di fantasia sono invece gli insegnanti: docenti in pensione, professionisti (esperti di diritto, scienze, ingegneria, informatica) e studenti dell’Università cattolica alla vigilia della laurea. Ragazzi tra ragazzi. L’impiego di questi ultimi ricorda gli insegnamenti di don Lorenzo Milani: chi sa di più aiuta chi sa di meno. L’esempio fa scuola. Insegnano, naturalmente, gratis.

Mario Pancera