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Dopo Parigi: una riflessione dell'AAdP

Stiamo saturando il mondo di armi, questo è il nostro problema. Così produciamo i risultati che poi tutti detestiamo

Zygmut Bauman (Festival Filosofia, Carpi 19 settembre 2015)

La barbarie avvenuta a Parigi richiederebbe, prima di tutto, silenzio... rispetto e dolore per quelle vittime.

Dopo il silenzio occorrerebbe, dinanzi a quella barbarie, per altro non diversa da tante altre barbarie avvenute a Kunduz, nel Libano, in Egitto, in Tunisia, nel Mali, in Afghanistan, il coraggio della “ragione” e la decisione di non seguire il comprensibile impulso della pancia....

Occorrerebbe la capacità di porsi interrogativi, domande... la volontà di porre attenzione alla storia recente, alle azioni e reazioni adottate, ai risultati ottenuti... l'umiltà di cercare di capire gli errori commessi... 

Si è iniziato con l'Iraq, con le menzogne delle armi di distruzione di massa e con il bisogno di importare la democrazia.

Ma la democrazia non si  importa; la democrazia, in un paese, si costruisce se esiste un'opposizione che abbia un progetto di costruzione condiviso dalla popolazione.

Abbiamo così destabilizzato l'Iraq, e abbiamo proseguito in quest'opera - senza la presenza di un'alternativa politica reale e condivisa - con l'Afghanistan, dopo l'attacco dell'11 settembre, con la Libia, con la Siria....

Ogni volta c'era un motivo apparentemente valido per intervenire... ma il risultato è che dal 2001 il mondo è sempre più instabile e insicuro.

Avremmo bisogno di domande, più che di ordini e di nuovi raid... e avremmo bisogno di risposte che indaghino realmente.

Come mai, nonostante le quantità immani di armi e bombe gettate nelle varie aree del Medio Oriente, ci troviamo di fronte un contesto sempre più insicuro ed aree in cui non esiste nemmeno più un governo riconosciuto?

Assad era un dittatore... e l'Isis a suo tempo era una forza di opposizione degna di attenzione da parte dell'occidente... Ci siamo mai chiesti con quanti dittatori si è alleato l'occidente? E quanti terroristi ha allevato – così da trovarsi poi di fronte nemici meglio armati e addestrati – per far fuori i dittatori divenuti scomodi?

L'Arabia Saudita e la Turchia che gioco fanno?

E' più utile destabilizzare aree o creare politiche di collaborazione e cooperazione che diminuiscano le disuguaglianze, che aiutino a creare alternative reali ed efficaci ai regimi dittatoriali?

Il timore però è che non ci si fermi a dare fiato alla ragione, ma si agisca: più bombe, più armi, nuove alleanze non approfondite (come l'Isis), nuovi muri per creare una sempre più netta separazione e distanza tra occidente e mondo orientale.

Nuove politiche di rifiuto, nuove menzogne su presunti nemici, nuove generalizzazioni di linguaggio (il “terrorismo islamico”, a suggerire che tutto quello che è islamico è “male”).

Le stiamo già respirando, parole uscite da leader alla ricerca di un facile consenso, ma non alla ricerca di un mondo più sicuro, più equo, più ispirato al rispetto della persona.

Nel piangere i morti di Parigi, non possiamo non piangere anche i morti dell'aereo russo, i morti di Gaza, i morti in Afghanistan, in Iraq, i morti curdi, i morti russi e ceceni, i morti libanesi, i morti siriani, i morti egiziani, i morti dei vari paesi del medio oriente... quelli dei paesi africani, quelli della Tunisia, della Libia...

Troppi morti... assurdamente tutti uguali, che ci dicono solo che questo mondo è sempre meno sicuro e meno giusto... e ci dicono anche che le soluzioni cercate finora hanno prodotto l'effetto opposto, alimentando sempre più odio e un terrorismo barbarico, che a sua volta si alimenta  delle nostre politiche miopi e violente. Perché il terrorismo, per sopravvivere, per radicare la propria propaganda, per attrarre nuovi adepti, ha bisogno proprio delle nostre politiche militari e delle nostre politiche di rifiuto.

Quei morti non chiedono vendetta, chiedono un mondo più giusto e sicuro, in cui i ragazzi possano tranquillamente andare a sentire un concerto, a cena, a vedere una partita senza rischiare di essere uccisi.

Interrogarci su questo significa anche interrogarci sul modello che stiamo proponendo... Quale idea di società abbiamo in mente? Davvero pensiamo che una società-fortezza sia più sicura? Quali muri pensiamo di poter costruire, per respingere terroristi per cui è motivo di orgoglio seminare morte e trovare essi stessi la morte? O quali frontiere, per terroristi che sono già nel nostro paese?

Non abbiamo bisogno di fortezze, né di frontiere, ma di città aperte... e di rapporti con i nostri vicini che creino un contesto economico e sociale che riduca le disuguaglianze.

Ma allora dobbiamo fermarci, fermare le reazioni di pancia, fermare i politici che per consenso cavalcano quelle reazioni... Dobbiamo ricercare la ragione della convivenza, la ragione dell'essere più umani... Dobbiamo non cadere in quella trappola in cui ci vogliono condurre i terrorismi della morte e che noi stessi occidentali abbiamo contribuito a costruire...

Fermarsi significa cercare una chiave di lettura diversa... una strada diversa da quella della guerra.

Forse quanto avvenuto a Parigi è un attacco di guerra, ma non è detto che sia necessario rispondere con altra guerra: le risposte guerra-contro-guerra finora hanno prodotto solo devastazione.

La strategia della violenza ha fallito, questo è il dato storico che la cronaca ci riconsegna, giorno dopo giorno, nella sua tragicità.

Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: “nonviolenza o barbarie”. Anzi, ancora più secca: intelligenza o stupidità.

AAdP