Il 17 gennaio scorso è uscito il consueto rapporto di Oxfam sulle disuguaglianze e ha certificato che nel tempo della pandemia i 10 uomini più ricchi del pianeta hanno raddoppiato le proprie fortune, mentre l’esercito dei poveri si è ingrossato di 163 milioni di persone. La conclusione è che i 10 super-paperoni detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale.
Solo un mese prima, il 7 dicembre 2021, un altro gruppo di studio, il World Inequality Lab, aveva pubblicato un altro rapporto confermando che le disuguaglianze attraversano il mondo a tutti i livelli: fra nazioni e fra classi. Per un raffronto fra nazioni ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico, che pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione.
IL MONDO IN CIFRE
Da questo punto di vista, la Banca Mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato. Al primo gruppo, anche detto “quarto mondo”, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto “primo mondo”2, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari all’anno.
Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista economico, umano e sociale. Anche perché a un certo punto è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico, che anzi si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di un’inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità che arricchendosi sempre di più allargano costantemente la distanza fra ricchi e poveri. Basti dire che nel 1820, il 10% più ricco intascava il 50% del reddito prodotto a livello mondiale. Nel 2020 la loro quota la troviamo salita al 55%. Viceversa, il 50% più povero, nel 1820 riceveva il 14% del reddito annuale. Nel 2020 la loro quota la troviamo scesa al 6%. La conclusione è che mentre nel 1820 il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte.
Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero è addirittura negativo, segno che i poveri possiedono solo debiti. Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato. Ma Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (25 milioni di individui) è retrocessa dall’11,7% nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dal 1,8% al 5%. Che tradotto in termini monetari, rende ciascuno di loro titolare di un patrimonio medio di 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.
LE CAUSE
Le ragioni di una simile tendenza possono essere ricondotte a tre cause principali: la globalizzazione, la finanziarizzazione, la regressione fiscale. La globalizzazione che eppure era nata come progetto di maggiore interscambio commerciale, alla fine si è tradotta in una riscrittura della geografia mondiale della produzione e del lavoro come conseguenza dell’accresciuta concorrenza fra imprese. Per la verità, quando le multinazionali spinsero per un mercato mondiale sempre più aperto, speravano di ritrovarsi in un mercato così ampio da consentire a tutte le imprese di ritagliarsi il proprio spazio di vendite. In realtà il grande mercato che sognavano non esisteva perché cinque secoli di colonialismo avevano trasformato il 50% della popolazione mondiale in una massa di poveri che non entrano mai in un supermercato. Perciò ne venne fuori una concorrenza all’ultimo sangue che si giocò anche attraverso il trasferimento della produzione in quei paesi dove la miseria è così acuta da indurre la gente a lavorare per salari miseri e senza alcuna tutela. Una politica che trascinò giù salari e diritti anche nei vecchi paesi industrializzati, fino a produrre ovunque un peggioramento nella distribuzione del reddito fra salari e profitti. Così le classi più agiate si ritrovarono con guadagni sempre più alti e di conseguenza con risparmi più consistenti che in tempi normali avrebbero indirizzato verso investimenti produttivi. Ma la caduta dei salari a livello mondiale non deponeva a favore dell’apertura di nuove attività produttive perché i consumi ristagnavano. Per cui i crescenti profitti in ambito produttivo si orientarono verso la finanza speculativa che ha contribuito a concentrare fortune enormi nelle tasche di pochi. Secondo Oxfam i 2153 miliardari del mondo hanno la stessa ricchezza patrimoniale di 4,6 miliardi di persone che formano il 60% della popolazione mondiale.
L’INIQUITA’ DISTIBUTIVA
L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore dei governi tramite il sistema fiscale. Ma ahimè anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di serie imposte sul patrimonio. Per dirne una, nei paesi OCSE l’aliquota sui redditi d’impresa è scesa da una media del 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Così pure si è assistito ovunque a una riduzione delle aliquote sui redditi più alti delle persone fisiche. In Italia per esempio gli scaglioni sono passati da trentadue, nel 1974, ai quattro odierni, con l’ultima aliquota al 43% oltre i 50.000 euro, mentre nel 1974 arrivava al 72% oltre i 258.000 euro. Allo stesso modo si è assistito ovunque ad un alleggerimento sulle tasse di successione, nonostante Picketty ritenga che la trasmissione della ricchezza per via ereditaria sia uno dei meccanismi portanti dell’allargarsi delle disuguaglianze. E per finire la demolizione della patrimoniale. Negli anni novanta del secolo scorso una dozzina di paesi europei disponeva di un sistema di tassazione complessiva della ricchezza delle famiglie. Oggi ce l’hanno solo in tre: Spagna, Norvegia, Svizzera.
L’Italia non compare fra i paesi dotati di una patrimoniale complessiva, eppure la CGIA di Mestre sostiene che le imposte sul patrimonio procurano allo stato un gettito di circa 45 miliardi di euro, pari al 5% del suo gettito tributario. In effetti in Italia esistono varie imposte, quali Imu, Tasi, bollo auto, imposta di bollo, che colpiscono la ricchezza delle famiglie detenuta sotto forma di case, autoveicoli, depositi bancari, pacchetti azionari. Ma si tratta di imposte spezzettate, spesso ad aliquota fissa, su voci trattate singolarmente. Ciò che manca è l’obbligo di dichiarazione cumulativa dei patrimoni con una tassazione sull’insieme della ricchezza netta posseduta, ossia depurata dai debiti. Unica via che consente di avere un panorama completo dello status economico di ogni individuo o famiglia e quindi di applicare una contribuzione progressiva come prevede la nostra Costituzione. Accortezza che invece hanno Norvegia, Svizzera e Spagna, benché adottino ciascuno metodi di tassazione diversificati. La Norvegia ad esempio applica un’aliquota fissa dello 0,85% sul patrimonio complessivo che oltrepassa i 150.000 euro, con lo 0,7% che va agli enti locali e lo 0,15 allo stato centrale. In Svizzera, invece, l’imposta patrimoniale è cantonale, con forme e aliquote differenziate da cantone a cantone. In Spagna l’imposta sul patrimonio è progressiva e va dallo 0,2% a partire da 167.000 euro fino al 2,5% oltre 10 milioni e mezzo di euro, con possibilità di modifiche da parte delle Autonomie regionali.
Oltre ad accrescere le disuguaglianze, le scelte fiscali accomodanti verso i ricchi rendono gli stati sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna. Per di più costringono i governi a cercare di fare cassa vendendo il patrimonio pubblico, impoverendoli sempre di più. Nei primi anni ’80 i governi dei paesi occidentali possedevano il 15-30% della ricchezza complessiva accumulata nei loro paesi, ma oggi siamo attorno allo 0%. In alcuni paesi il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche consistenti in strade, edifici, beni demaniali e quel che resta di qualche attività produttiva. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil. Situazione aggravata dall’ultima riforma fiscale introdotta con la finanziaria 2021, che ha aumentato il debito pubblico di 7 miliardi di euro per alleggerire le imposte sui redditi compresi fra 23000 e 50000 euro.
Storicamente la battaglia contro le disuguaglianze è sempre stata condotta dai più poveri, ma per le dimensioni raggiunte oggi, succede che trovi alleati anche fra i ricchi. Per tre ragioni di fondo: economica, sociale, perfino ambientale. Da un punto di vista economico le disuguaglianze preoccupano perché una ricchezza eccessivamente mal distribuita riduce la capacità di acquisto di una fetta importante di popolazione impedendo la vendita di tutto ciò che il sistema produce. Un rallentamento di vendite che a sua volta si traduce in un rallentamento degli investimenti che a lungo andare provoca stagnazione se non recessione.
DISUGUAGLIANZA E DANNI AMBIENTALI
Le disuguaglianze preoccupano per il loro risvolto ambientale, in particolare climatico. Le Nazioni Unite confermano che il 48% delle odierne emissioni di CO2 sono riconducibili al 10% più ricco della popolazione mondiale. Addirittura l’1% da solo ne emette il 15%, una quota doppia rispetto a quella del 50% più povero che si ferma al 7%. I ricchi hanno un’elevata impronta di carbonio a causa degli alti livelli di consumo, in particolare di energia elettrica e carburante. Da ricerche condotte in paesi per i quali esistono dati, si scopre che il 10% più ricco consuma circa 20 volte più energia di quella consumata dal 10% più povero. Una sperequazione provocata principalmente dai trasporti: i ricchi viaggiano abitualmente in aereo (sia di linea che privati), possiedono barche a motore e auto di grossa cilindrata. Nell’Unione Europea l’1% più ricco ha un’impronta di carbonio corrispondente a 55 tonnellate l’anno, (11 volte più alta del 50% più povero) ed è dovuta per il 41% all’uso dell’aereo. Dunque, più crescono le disuguaglianze, più crescono i consumi altamente energivori della classa agiata e quindi le emissioni di anidride carbonica. Una più equa distribuzione della ricchezza sarebbe l’unico modo per interrompere questo circuito perverso perché sarebbe il solo modo per provocare uno spostamento dei consumi energetici. Vari studiosi ritengono che se distribuissimo la ricchezza in maniera più equa si ridurrebbe la quantità di energia destinata ai trasporti di lusso mentre crescerebbe quella destinata all’ambito domestico. Quell’ambito, cioè, che usa l’energia elettrica come energia prevalente ormai ottenibile da energie rinnovabili.
Francesco Gesualdi, già allievo di don Lorenzo Milani a Barbiana, dal 1985 coordina il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. Ha scritto in questi anni diversi saggi sui temi del consumo critico e responsabile, dei beni comuni e dei rapporti tra Nord e Sud del mondo.
Fonte: Su la testa, 8 giugno2022 - https://www.sulatesta.net/disuguaglianze-male-da-estirpare/