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Milano, 25 marzo 2007



Siamo angosciati per la sorte di Rahmatullah Hanefi. Il responsabile afgano dell'ospedale di Emergency a Lashkargah è stato prelevato all'alba di martedì 20 dai servizi di sicurezza afgani. Da allora nessuno ha potuto vederlo o parlargli, nemmeno i suoi famigliari. Non è stata formulata nessuna accusa, non esiste alcun documento che comprovi la sua detenzione. Alcuni afgani, che lavorano nel posto in cui Rahmatullah Hanefi è rinchiuso, ci hanno detto però che lo stanno interrogando e torturando “con i cavi elettrici”.
Rahmatullah Hanefi è stato determinante nella liberazione di Daniele Mastrogiacomo, semplicemente facendo tutto e solo ciò che il governo italiano, attraverso Emergency, gli chiedeva di fare. Il suo aiuto potrebbe essere determinante anche per la sorte di Adjmal Nashkbandi, l'interprete di Mastrogiacomo, che non è ancora tornato dalla sua famiglia.
Oggi, domenica 25, il Ministro della sanità afgano ci ha informato che in un “alto meeting sulla sicurezza nazionale” presieduto da Hamid Karzai, è stato deciso di non rilasciare Rahmatullah Hanefi. Ci hanno fatto capire che non ci sono accuse contro di lui, ma che sono pronti a fabbricare false prove.
Non è accettabile che il prezzo della liberazione del cittadino italiano Daniele Mastrogiacomo venga pagato da un coraggioso cittadino afgano e da Emergency. Abbiamo ripetutamente chiesto al Governo italiano, negli ultimi cinque giorni, di impegnarsi per l’immediato rilascio di Rahmatullah Hanefi e il governo ci ha assicurato che l’avrebbe fatto. Chiediamo con forza al Governo italiano di rispettare le parola data.
Teresa Sarti Strada
Presidente di Emergency


Pubblicato sul n. 54 di “Voci e volti della nonviolenza”, del 27 marzo 2007

[Dal sito di "Peacereporter" ( www.peacereporter.net ) riprendiamo la seguente intervista del 24 marzo 2007]



Gino Strada in questi giorni ha un altro prigioniero da liberare: Rahmatullah Hanefi, manager dell'ospedale di Emergency a Lashkargah. E stato portato via da uomini dei servizi segreti afgani martedì 20, all'alba, da allora non se ne hanno notizie: nessuna informazione sulle sue condizioni, sulla sua "detenzione" o sui motivi che l'hanno determinata è stata comunicata alla sua famiglia o a Emergency. Non sono state formulate accuse contro di lui nè è stato prodotto alcun documento ufficiale che spieghi perché,, da martedì mattina, Rahmatullah Hanefi si trovi nella sede dei servizi segreti a Lashkargah senza possibilità di comunicare con l'esterno.
Grazie a Rahmatullah, Daniele Mastrogiacomo è oggi a casa tranquillo.
Eppure, non si percepisce grande attenzione sulla sua sorte e impegno istituzionale per liberarlo. Come fosse, e sono in molti a sostenerlo, che Emergency e Gino Strada avessero strappato e gestito autonomamente la trattativa con i talebani.

"Non siamo noi ad essere intervenuti", dice seccamente Gino Strada. "Ci è stato chiesto, mi è stato chiesto di intervenire, di provare a fare qualche cosa. E tutto quel che ho fatto o detto è stato concordato".



- Maso Notarianni: Quando ti è stato chiesto di intervenire? E chi te lo ha chiesto?
- Gino Strada: Ero in Sudan, a Kartoum, dove stiamo per aprire un centro di cardiochirurgia di altissimo livello che cercherà di soddisfare - gratuitamente per tutti - il fabbisogno di una regione vasta più dell'Europa intera. Decisamente in tutt'altre faccende affaccendato, quando ho ricevuto la prima telefonata.

- Maso Notarianni: Chi ti ha chiamato?
- Gino Strada: Prima mi ha chiamato "la Repubblica", il direttore Ezio Mauro. Poi sono stato contattato dal governo italiano. Entrambi, il giornale e il governo, mi hanno chiesto di attivarmi per portare a casa Daniele.
Sapevano del ruolo di Emergency, del rapporto che Emergency ha con la popolazione afgana, della stima e dell'affetto che ci circondano in questo paese. E io mi sono subito attivato, ovviamente. Salvare vite umane è importante sempre e comunque.

Tratto da “La domenica della nonviolenza”, n. 111 del 13 maggio 2007

di Maria G. Di Rienzo

Una tradizione di madri Pochi sanno che la "festa della mamma" fu stabilita come ricorrenza di protesta dopo la Guerra Civile negli Usa, da parte di madri che avevano perduto i loro figli nella carneficina della guerra. Ma molti gruppi di donne pacifiste americane riconoscono quale loro ispiratrice colei che pubblicamente sostenne questa idea e che scrisse il "Proclama del Giorno della Madre" nel 1870: Julia Ward Howe.
Nel Proclama si legge, tra l'altro: "Non permetteremo che le grandi questioni siano decise da forze non pertinenti. I nostri mariti non torneranno da noi con addosso la puzza del massacro, per ricevere carezze ed applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti affinché disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro sulla carità, la pietà e la pazienza. Noi donne di una nazione proviamo troppa tenerezza per le donne di una qualsiasi altra nazione, per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro".
La dichiarazione di Julia Ward Howe chiede inoltre un consiglio internazionale delle donne, un congresso generale senza limiti di nazionalità, che proponga mezzi con cui "la grande famiglia umana possa vivere in pace" e promuova l'alleanza fra differenti nazioni e la risoluzione amichevole delle questioni internazionali.
Numerose madri attiviste statunitensi hanno trovato una leader ed una nuova ispiratrice in Cindy Sheehan, il cui figlio è morto in Iraq, e che ha passato l'agosto scorso fuori dal ranch del presidente Bush per chiedergli spiegazioni al proposito. Una donna "sola", priva del sostegno di associazioni o partiti, forte unicamente della propria determinazione, ha portato con sè 100.000 sostenitori a Washington, nel settembre 2005, e scosso l'intera nazione. Una donna con una domanda semplicissima, amplificata ormai da un coro di migliaia e migliaia di altre voci: "Qual è la nobile causa per cui mio figlio è morto?".
"La logica suggerirebbe", disse Swanee Hunt durante un incontro internazionale di pacifiste nel 2003, "che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio.
Ma invece scopriamo che queste donne dicono: Ciò che è accaduto a me non deve più accadere a nessun'altra, perché io so quanto è terribile, e cosa si prova. Perciò, per favore, non compatite queste donne. Queste donne sono giganti. Sono donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno".

Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006
(Traduzione di Maria G. Di Rienzo dell'articolo pubblicato su "The Guardian)

Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di esse è diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su ciò che le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, è una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell'assediata città di Qaim. Non è sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell'ospedale in cui lavora, è chiaro contro quali difficoltà stia lottando.
Non è usuale che sia dia uno sguardo più da vicino a cosa accade alle donne in città come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali è severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realtà grazie ad una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verità delle vite delle sue connazionali.