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Il Tibet e noi (Enrico Peyretti)

Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza", n. 403 del 23 marzo 2008



In qualche vero modo per ogni persona di sensibilità umana, in modo particolare per ogni discepolo di Gesù di Nazareth, i giorni pasquali, la silenziosa e sospesa giornata del sabato (che è il giorno in cui scrivo), sono un momento più intensamente dedicato a sentire e meditare i dolori e le speranze di vita dell'umanità.
Tra i dolori collettivi, uno di quelli - e non sono tutti - che il caos dell'informazione, ora enfiata, ora impedita, ci porta in questi giorni, c'è la ribellione del Tibet.

Che dire che non sia già stato detto da qualche voce saggia? A che serve aggiungere parole? Serve però comunicarci a vicenda la partecipazione personale intima, quando un popolo grida le sue pene, i suoi diritti.
Scrivere qualche riga che circola, essere presenti ai presidi nelle nostre città, può rafforzare il messaggio che da varie parti del mondo arriva ora al popolo tibetano.

Sapere che altri sanno, e che energie di solidarietà e di resistenza passano, per le vie invisibili, oltre che per quelle della comunicazione sperimentabile e dei rapporti cosmopolitici, nelle vene di tutto il corpo dell'umanità, questo sapere noi speriamo che arrivi a chi soffre e lotta, in questo come in ogni altro simile caso.

"Dire la verità al potere" (Gandhi) è la prima azione, non inutile, anche se per noi qui è molto facile, in aiuto alle vittime di oppressione. Sia pure impedita e frenata, la comunicazione corre oggi più che mai, ed è la prima risorsa, il nostro primo dovere, per sostenere il diritto. Tocca poi ai popoli sostenere e controllare che le istituzioni internazionali vigilino e provvedano, coi mezzi della pace, a difendere pace e diritti.

Chi è come noi cercatore di pace nonviolenta, si augura che i tibetani sappiano e possano tenere alta la qualità della loro lotta, quindi libera da ogni imitazione di violenza e di odio. Ma non si permette di giudicare, perché gli esempi che la parte oggi dominante può dare a quella tradizione morale sono pochi e rari, essendo piuttosto noi discepoli e debitori. Gandhi ha insegnato che il rifiuto, anche se violento, dell'oppressione è più giusto della collaborazione passiva e vile, ma non hanno ragione quanti lo citano fino qui per usarlo a giustificare la rivolta violenta, e tacciono il suo pensiero completo: cioè che il dilemma non è tra violenza e viltà, ma tra azione e inazione, e poi l'azione può e deve essere fortemente nonviolenta, per essere degna e liberante (cfr Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Pisa University Press, 2004, pp. 287-288).

La proposta di boicottare le olimpiadi di Pechino ha avuto pochissime adesioni, se non sbaglio, e certo da parte di chi nei giochi, sempre meno olimpici, ha forti interessi economici, ma anche, nella base, per l'intuizione che si possono boicottare rapporti materiali ma non rapporti umani tra i popoli. La presenza in Cina di atleti, giornalisti, turisti, anche senza cercare la provocazione, può essere occasione per intensificare la comunicazione, che è vitale. La democrazia, i diritti umani, che poteri folli e ciechi dicono di voler esportare e ampliare con le guerre, che invece li distruggono perché la guerra è la peggiore tirannia, possono invece camminare con la visita e l'ospitalità tra i popoli, le culture, i sistemi.