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A Sarajevo 20 anni dopo

Nel 20° Anniversario della cosiddetta “marcia dei 500” del 10 dicembre 1992 l’Associazione “Beati i Costruttori di Pace” è tornata a Sarajevo per ricordare quelle tristi giornate, per incontrare autorità istituzionali e religiose al fine di capire la situazione attuale e per rivivere una giornata di convivialità con molte persone che si erano incontrate in quei giorni e nei mesi successivi durante l’assedio della città. Allora molti volontari dell’associazione si erano fermati in città per svolgere vari servizi in favore della popolazione, soprattutto un servizio di recapito della posta.

​Il ritorno a Sarajevo ha contemplato anche il ricordo del volontario Moreno Locatelli, ucciso con una raffica di mitra, al ponte sul fiume Miljacka che attraversa la città, il 3 ottobre 1993. Era inoltre prevista la visita a Sebrenica, dove si compì nel luglio del 1995 la strage di oltre 8000 civili musulmano-bosniaci da parte dell’esercito serbo-bosniaco, ma le impossibili condizioni atmosferiche ce lo hanno impedito.

​Dopo la guerra in Slovenia e Croazia per essersi rese indipendenti dalla Jugoslavia, nel 1992 sino al novembre 1995 scoppiò la guerra anche in Bosnia. Soprattutto colpita fu la capitale della Bosnia, Sarajevo, cinta d’assedio sai Serbi e praticamente isolata sino alla fine del conflitto.

​Occorre ricordare che Sarajevo era stata per secoli una città di convivenza tra le diverse  popolazioni che l’abitavano - serbi, croati, musulmani - e di convivenza tra i diversi credi religiosi, musulmano, ortodosso, cattolico, ebreo. L’opera distruttiva e mirata sotto la spinta dei vari nazionalismi sorretti da interessi internazionali, attraverso l’utilizzo di cecchini e di stupri, aveva in un primo tempo lacerato la convivenza della popolazione poi fuggita. La città, ridotta da 450.000 abitanti a 180.000, fu poi assediata e sottoposta a bombardamenti e analoga sorte subì tutto il territorio della Bosnia.

​In quella situazione l’associazione dei “Beati” volle compiere un gesto insieme politico, umanitario, solidaristico e lanciò l’iniziativa che tra mille difficoltà e boicottaggi portò, attraverso una intesa diplomatica e rompendo un assedio che si protraeva da mesi, 500 persone a Sarajevo accolte dall’entusiasmo di tutta la popolazione che per un giorno rivisse momenti di pace. Alcuni volontari tornarono poi per svolgere azioni di aiuto e, come si diceva, uno di loro, Moreno Locatelli fu ucciso.

​Il ritorno a Serajevo in questi giorni di 120 persone, alcune presenti alla marcia di allora, altre interessate a ricordare quei giorni, è stato carico di emozioni ma soprattutto di nuova conoscenza e condivisione con le persone che in questi anni avevamo conosciuto.

​Abbiamo però dovuto constatare che la pace siglata nel 1995 ha fatto tacere le armi, ma non ha ancora oggi risolto la divisione che la guerra ha prodotto sulla maggior parte della popolazione.

La Bosnia, stato federale, è divisa infatti in due entità distinte, una Repubblica Serba e una Repubblica Croato-Musulmana, dove Croati e Musulmani sono estremamente differenti fra loro. Basti pensare alle scuole: ogni comunità ne ha una propria dove, ad esempio, si studiano storie diverse. Per poter in qualche modo reggere la situazione si sono creati oltre 40 cantoni. Il Presidente Federale a turno è bosniaco, serbo, croato. Tra poco si farà un censimento per accertare in tutta la Bosnia il numero di Serbi, Croati  e Bosniaci (musulmani) poiché è obbligatorio nelle carte d’identità specificare se si è Serbi, Croati, Bosniaci, non essendo possibile scrivere semplicemente “Bosniaco”. C’è da notare che Bosniàco significa cittadino musulmano della Bosnia, mentre Bosníaco significa “residente in Bosnia”.

​Anche l’economia non decolla, poche sono le attività manifatturiere, mentre le differenze di ricchezza fra la gente sono notevolmente aumentate anche perché l’economia si regge sugli aiuti di alcuni stati arabi, ma soprattutto su finanziamenti a tasso agevolato del Fondo  Monetario che, cinicamente, spinge a politiche di espansione senza una economia reale, costringendo così la gente ad indebitarsi. Così Sarajevo centro è stata rimessa a nuovo e modernizzata, mentre nelle periferie gli edifici portano ancora i segni dei colpi delle armi da fuoco usate nella guerra. La disoccupazione è alta e in questa situazione anche la democrazia langue. I giovani sono portati a vivere alla giornata, forse per dimenticare gli anni della guerra.

​Ben il 62% del PIL è usato per sostenere una burocrazia  farraginosa, dovuta al sistema di divisioni interne di cui parlavo prima, che però rende benestanti quelli che sono potuti entrare in quel sistema politico-burocratico, come ci ha riferito un giornalista locale in uno dei tanti interventi tenuti in assemblea.

​Si spiega con ciò anche una nostra delusione per non aver potuto incontrare i rappresentanti di tutte le comunità con le quali avremmo voluto comunicare e che ci avevano assicurato la presenza che però non c’è stata. Solo il vescovo cattolico e un rappresentante del mondo ebraico hanno celebrato con noi la giornata insieme ad alcuni cittadini e cosa molto significativa insieme a un generale dell’esercito serbo che allora si dimise dall’esercito per fondare un’associazione a favore dei feriti di guerra e per difendere Sarajevo.

Nel viaggio di ritorno abbiamo cercato di fare il punto di questa nuova esperienza, legandola anche alla crisi dei movimenti pacifisti nel nostro paese e del mondo in genere. Ne è scaturita una conclusione pressoché unanime: la guerra distrugge non solo le vite e le cose, ma anche il futuro. Senza un impegno serio e costante delle associazioni e delle persone fuori di ogni velleità di primeggiare non si riesce a costruire una società giusta e in pace.

Occorre tenere alto l’impegno affinché sia possibile influire sulla classe politica e economica perché muti le strutture della società. Ciò sarà possibile solo se si riuscirà ad allargare il fronte delle persone disposte a capire e a lottare. Oggi abbiamo a che fare con gran parte della classe politica che porta come valori dei disvalori, con una opinione pubblica condizionata dai mass-media, con le istituzioni (scuola, società civile, enti locali, ecc) lasciate senza mezzi e risorse. Il compito non è certo facile.

Paolo Zammori