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Sabbah: "Palestina, ingiustificabile l'immobilismo mondiale"

Intervista al patriarca emerito di Gerusalemme. Le critiche e il sostegno al documento cristiano "Kairos", per il quale terrorismo e Hamas sono conseguenza dell'occupazione. "Qui c'è una situazione d'ingiustizia: un popolo opprime un altro popolo". BETLEMME - Settantasette anni e la forza di chi continua a far sentire l'appello alla liberazione e alla riconciliazione. Il patriarca emerito Michel Sabbah è una delle figure chiave per comprendere due importanti eventi che stanno scandendo la vita dei cristiani - e non solo - in Palestina e in tutto il Medio Oriente: il documento Kairos, presentato a Betlemme l'11 dicembre, e i Lineamenta del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, diffusi martedì 19 gennaio. Incontriamo Michel Sabbah a Gerusalemme sul Monte degli Ulivi, dove ora vive.

Mons. Sabbah, a un mese dalla pubblicazione del documento Kairos, qual è il bilancio della sua recezione?
Ci sono state tante critiche, ma anche tante parole di sostegno. Critiche perché il punto di vista del documento è quello dei cristiani palestinesi, che certo non concorda con quello israeliano o 'pro-israeliano'. Per loro l'occupazione quasi non esiste, l'hanno dimenticata. Nel Kairos si parla dell'occupazione come dell'origine di tutto il male. E questa è la realtà: un popolo è sottomesso all'altro e nessuno lo può negare. Ma c'è chi non vuole vedere che questa è la realtà che porta sofferenza: per loro le questioni fondamentali sono il terrorismo palestinese e Hamas che non vuole riconoscere Israele. Noi diciamo invece che ciò è una conseguenza dell'occupazione e quando essa cesserà, tutti questi fenomeni spariranno. Allora Israele avrà la sua sicurezza e i palestinesi avranno la loro.

Come sono descritti i rapporti del mondo cristiano con l'Islam in Medio Oriente nei Lineamenta?

Nei Lineamenta si afferma che musulmani e cristiani sono un solo popolo e sono chiamati a costruire insieme un avvenire comune per tutti i nostri paesi. Ci sono alcune situazioni in cui i rapporti sono diversi, come il caso dell'Iraq. Ma occorre essere consapevoli che questo è dovuto a gruppi non sottomessi ad alcuna autorità, allorché il governo e la società stessa musulmana condannano questi eventi. Accanto alla situazione ordinaria di coesistenza e collaborazione, si pongono i movimenti islamisti che vedono nella religione musulmana l'unica soluzione per tutti i problemi. In futuro, se acquisiscono forza e autorità, questi gruppi possono essere un pericolo per la presenza cristiana. Ma questo non è l'Islam con cui abbiamo vissuto e viviamo ancora. Si tratta di un nuovo fenomeno che minaccia gli stessi musulmani e i cristiani allo stesso modo.

Cosa significa la parola "resistenza" per i cristiani palestinesi?

Il cristiano, secondo la sua fede, crede nell'amore e nella forza dell'amore. Amore vuol dire vedere il volto di Dio, l'immagine di Dio, nell'altro, anche se nemico. L'altro non è solo nemico, l'altro è portatore dell'immagine di Dio. Questo è il primo principio. Il secondo è: amare l'altro vuol dire liberarlo dal male che è in lui. Dunque l'israeliano deve essere liberato dall'ingiustizia e dall'oppressione imposta al popolo palestinese. L'amore comanda al cristiano di resistere ad ogni male: e resistere vuol dire non uccidere, non odiare, ma liberare l'altro e se stessi dal male. La resistenza, dunque, è un dovere del cristiano ma attraverso atti concreti che rimangono nella logica dell'amore.

Come pensa che la comunità internazionale - e in particolare le Chiese nel Medio Oriente e nel mondo - dovrebbero comportarsi riguardo al conflitto in Israele e Palestina?

Qui c'è una situazione d'ingiustizia: un popolo opprime un altro popolo. Il governo israeliano impone l'occupazione, l'oppressione sulla popolazione palestinese. Ciascuno, a cominciare da chi esercita l'oppressione, deve fare qualcosa per mettere fine a questa situazione. L'israeliano stesso deve trovare i mezzi per lasciare liberi e indipendenti i palestinesi nei loro Territori. Da questo punto di vista, l'immobilismo internazionale non può essere giustificato. Rispetto ai problemi sociali che colpiscono la società palestinese, occorre superare l'assistenzialismo in cui ci troviamo oggi. Le Chiese nei paesi arabi e nel resto del mondo devono agire per la giustizia e la riconciliazione. E perciò non si chiede che una Chiesa sia pro-israeliana o pro-palestinese, ma che tutte le Chiese siano per la riconciliazione tra i due popoli. Questo atteggiamento potrà avere frutto. Un atteggiamento parziale, invece, non potrà avere un risultato di pace.
Fonte: Redattore Sociale
29 gennaio 2010