• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Acqua pubblica, o a maggioranza pubblica

Dopo la folle ventata liberista degli anni novanta, in cui tutti - anche un po' a sinistra, ammettiamolo - hanno ritenuto che "liberale" fosse sinonimo di "liberista", che "pubblico" fosse automaticamente sinonimo di "inefficiente", e di conseguenza "privato" equivalesse a "garanzia di funzionamento", ci siamo accorti che ciò non era. Ce ne siamo accorti per la crisi finanziaria, rapidamente divenuta crisi economica e sociale, che ci ha colpito dallo scorso anno: una crisi di paradigma, potremmo dire. Dopo di allora, nulla può esser come prima, e si è visto come la sola "mano invisibile" del mercato in realtà non riesce ad afferrare il benessere collettivo. C'è bisogno dello Stato, dunque, e della "cosa pubblica". Poi discuteremo in che misura, e come miscelare i due, con un accurato confronto di policies. Ma il nesso indissolubile "mercato più Stato" è oramai un dato assodato. In Italia, invece, non solo non si va avanti ma si torna indietro: con il rischio di andare contro un muro. Quello stesso governo che ha fatto poco o nulla per combattere la crisi economica, ha avuto la bella pensata di mettere in discussione anche il monopolio naturale dell'acqua. In tutto il mondo ora si ritiene uno sbaglio voler affidare al solo mercato l'economia. Ma per il governo italiano, il mondo si sbaglia. E dunque rilancia: con il recente decreto legge n.112 2008 di fatto propone che il mercato si appropri di quei monopoli naturali che perfino Luigi Einaudi e i veri liberali ritengono da sempre non privatizzabili. Inserendo il patrimonio idrico in una logica liberista di mercato sregolato.
Eppure tale impostazione ideologica, tipica degli anni novanta, si è già rivelata disastrosa anche sul piano pratico in particolare per quanto riguarda i cosiddetti "monopoli naturali", visti gli effetti distorsivi in termini di efficienza anche industriale così come in termini di diritti di di accesso e fruizione di beni primari da parte dei più svantaggiati: distinguere tra gestione e patrimonio fisso per l'acqua è infatti impossibile. Si rischia allo stesso tempo non solo di depauperare gli investimenti necessari a salvaguardare il patrimonio, ma anche di rendere inefficiente la gestione. Colpendo così i cittadini più svantaggiati. Del resto oggi in tante parti d'Italia il ciclo delle acque è gestito da ottime aziende pubbliche o a maggioranza pubblica.
Noi democratici abbiamo un'altra visione: fare dell'accesso ai beni primari - e soprattutto dei cosiddetti "monopoli naturali" qual è l'acqua - un diritto universale per tutti i cittadini, ed in particolare per quelli delle fasce più svantaggiate economicamente e socialmente. Per questo invitiamo il governo italiano a riconsiderare questo proposito, con particolare riferimento all'articolo 23 comma 8 ed e del decreto legge 112/2008, stralciando il ciclo idrico integrato dalla Legge Ronchi. L'acqua è un bene pubblico e deve avere gestione industriale pubblica o a maggioranza pubblica, nella quale le tariffe finanzino gli investimenti e misurino il consumo, che comunque non può essere demagogicamente indiscriminato e senza regole. Per quanto riguarda l'equità e l'universalità del servizio, si può infatti prevedere una fascia sociale a basso costo.
* assessore al Bilancio della Provincia di Roma

Fonte: Il Manifesto del 29 aprile 2010