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La crisi, l'euro e il ruolo della BCE

La politica monetaria dell’eurozona è stata storicamente finalizzata al contrasto dell’inflazione; in questo senso la Banca centrale europea ha perseguito un target di inflazione previsto nei trattati al 2%. Per capire questa caratteristica fondamentale occorre tener presente due elementi fondamentali: 1) l’obiettivo per cui l’euro è stato concepito 2) il modello bancario di riferimento della Bce.

  1. la nascita dell’euro si lega alla volontà europea, tedesca e francese in primis, di limitare gli effetti dl signoraggio del dollaro, creando un’altra valuta in grado di essere utilizzata come riserva e come strumento di pagamento internazionale. Il marco infatti apparteneva ad un’economia ancora troppo piccola e in quel momento impegnata nella faticosa opera di riunificazione nazionale. Per creare una moneta internazionale, occorreva però conferirgli credibilità, rendendola forte appunto con una politica dei tassi rigorosa, guidata dal target, e con vincoli stringenti per i bilanci dei paesi membri. La concorrenza nei confronti del dollaro imponeva dunque un’Europa monetaria molto rigida; del resto tale scelta dipendeva dall’elevato tasso d’inflazione che affliggeva alcuni degli Stati membri della futura moneta. In altre parole, l’Europa era il focolaio dell’infezione inflattiva e per rassicurare gli utilizzatori dell’euro servivano garanzie molto severe. Inoltre con un tasso medio di crescita annua del Pil al 3%, che in quella fase era credibile, tali vincoli erano accettabili. Oggi, dopo la crisi del 2007, queste condizioni sono profondamente cambiate; il focolaio dell’inflazione è costituito dall’enorme quantità di nuovi dollari creati dal quantitative easing della Federal Reserve, mentre la crescita del Pil annuo è assai sotto il 3%. Infine, l’esplosione dell’indebitamento pubblico ha reso i parametri del 3% e del 60% assolutamente irrealistici, il rispetto dei quali costringe gli Stati nazionali a manovre strutturalmente recessive.

  2. Il modello di riferimento della Bce (le cui funzioni sono la politica monetaria, la gestione delle riserve ma non la sorveglianza sul sistema bancario) è costituito dalla Bundesbank, caratterizzata da una forte avversione nei confronti dell’inflazione e da un vero e proprio culto dell’indipendenza da qualsiasi pressione di ordine politico. Nel modello tedesco l’indipendenza è considerata la condizione indispensabile per arginare politiche monetarie espansive, le cui finalità non siano quelle della stabilità dei prezzi. Il trasferimento di questo modello su scala europea ha creato una banca centrale che non ha i caratteri dell’organo comunitario, è posta al di fuori di ogni controllo e tende ad escludere qualsiasi sostegno allo sviluppo economico. Una banca di questo genere ha creato non pochi problemi a paesi abituati ad avere una moneta debole. Di fronte alla crisi, la Bce ha quindi tardato a reagire prestando attenzione alle sia pur moderate spinte inflattive. Soprattutto non ha potuto svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza per gli Stati, limitando la sua azione di fornitura di liquidità alle banche, in particolare attraverso gli acquisti sul secondario.

 

La linea tedesca si è mossa partendo dalle condizioni di operatività della Bce; non ha voluto imprimere all’istituto di Francoforte la spinta verso politiche monetarie non convenzionali e ha preteso che, di fronte alla crisi greca, si procedesse alla creazione di un Fondo Salva Stati, in grado di finanziarsi attraverso l’emissione di obbligazioni garantite da collaterali degli Stati membri. Questa scelta era dettata da un lato dall’interesse della Germania a non pagare il conto fiscale di altri paesi e dall’altro dalla volontà di evitare strumenti come gli eurobond che avrebbero fatto concorrenza ai bund tedeschi. Inoltre la Germania ha preteso una vera e propria ristrutturazione del debito greco, che di fatto ha significato un default selettivo a danno dei creditori privati, con un’ipotesi di decurtazione del 50% destinata a scatenare il panico nei mercati finanziari e a far dilagare il contagio in direzione di altri Stati indebitati, a partire dall’Italia.

 

Il Fondo Salva-Stati: tecnica e politica

Troppo spesso si definiscono tecniche questioni che hanno invece una natura decisamente più generale. Una considerazione di questo genere è possibile per il cosiddetto Fondo Salva-stati, che costituisce attualmente la struttura destinata a finanziare, insieme al Fondo Monetario Internazionale, gli aiuti ai paesi europei in difficoltà. Nato come organismo di natura temporanea dovrà essere trasformato di fatto in un organismo finanziario permanente per fronteggiare le crisi macrosistemiche. Il faticoso accordo raggiunto a Bruxelles dai 27 paesi della Unione Europea ne ha potenziato le risorse, elevandole da 440 a 1000 miliardi di euro. Soprattutto ne ha in parte modificato i caratteri distintivi attribuendo al Fondo due prerogative ulteriori, rispetto a quella di erogare tranche di aiuti, e rappresentate dalla possibilità di garantire una parte del debito emesso dai paesi europei e di dar corpo ad uno specifico veicolo capace di attirare i capitali dei Fondi sovrani di vari paesi emergenti, a cominciare dalla Cina. E’ probabile che questo veicolo con la liquidità rastrellata dai paesi emergenti acquisterà sul mercato secondario titoli del debito pubblico dei vari paesi europei che rivenderà poi alle banche commerciali, le quali a loro volta li useranno come garanzie collaterali per finanziarsi presso la Bce. In sostanza si definirebbe un’operazione finanziaria non banale finalizzata a moltiplicare di fatto le risorse a disposizione delle economie, pubbliche e private in crisi, in una fase dove l’approvvigionamento creditizio costa molto. In questa architettura complessa proprio il Fondo Salva-stati costituisce il perno centrale che assume un valore, come detto, non solo tecnico. Attraverso tale Fondo infatti viene superata ogni retorica del divieto degli aiuti di Stato all’interno dell’Unione Europea; si rompe così un tabù ideologico coltivato fin troppo a lungo dall’Europa di Maastricht. Se il Fondo-Salva-stati interviene a sostegno dei paesi in difficoltà e, per farlo, contribuisce al rafforzamento del ruolo della Bce, che peraltro già sta acquistando a piene mani titoli dei debiti sovrani sul mercato secondario, è evidente che la dimensione pubblica, “interventista” dell’economia europea supera ogni vincolo del bail-out e cancella i rigori delle autorità della concorrenza. In secondo luogo, la creazione di un veicolo ad hoc che convogli la liquidità dei paesi emergenti in direzione del sistema finanziario europeo, e in particolare del debito pubblico di vari Stati del Vecchio Continente, accelera il processo di integrazione tra questi nuovi player e l’Europa collocandola non più solo nei mercati finanziari e commerciali ma anch enel mercato, sempre più decisivo, del debito. Si profila così una nuova interrelazione fra i Fondi sovrani pubblici della Cina e di altri paesi grandi esportatori e il debito pubblico europeo in un processo di ripresa delle relazioni tra Stati che non passano più attraverso la politica in senso tradizionale ma mediante i canali del rapporto tra creditori e debitori. Questo rafforzamento della dimensione pubblica operata dal Fondo Salva-stati si consuma nell’ambito di una dialettica che ha un terzo soggetto partecipante oltre all’Europa e agli emergenti ed è costituito dai singoli Stati europei, abilitati ad accedere ai “sussidi” del Fondo nella misura in cui sapranno governare il proprio debito perché in futuro nessun intervento di aiuto potrà avere una durata protratta senza fornire garanzie reali. Il Fondo assicurerà infatti porzioni di debito in relazione alla capacità dei singoli paesi di saldarlo in toto o in larghissima parte. Di nuovo, dunque, sarà decisiva la sostenibilità del debito pubblico del paese aiutato che avrà bisogno di politiche di entrata e di spesa coerenti, abbandonando ogni illusionismo contabile o sociale. Capire il peso del Fondo Salva-stati significa comprendere dunque uno dei temi decisivi della politica dei prossimi anni. La distinzione fra tecnica e politica è sempre più sottile.

 

 

La Germania ha anche insistito perché qualsiasi intervento della Bce si legasse ad una vera e propria riforma dei trattati destinata a imporre vincoli ancora più rigorosi al Patto di Stabilità europeo, con l’inserimento del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione, sul modello di quanto fatto dal Bundestag, e con sanzioni automatiche nei confronti degli Stati inadempienti non solo del rapporto deficit Pil, ma anche di quelli non rispettosi del rientro nel parametro del debito entro il 60 per cento. Peraltro, la linea tedesca si è tradotta anche nella avversione nei confronti del nuovo meccanismo di stabilità, destinato a sostituire il Fondo Salva Stati, ma a differenza di quest’ultimo, dotato di risorse realmente versate dai paesi membri e dunque decisamente più costoso anche in termini di indebitamento.

Per la Germania la partita è resa più complessa dal fatto gli spread l’hanno premiata consentendo di finanziare il suo ormai pesante debito a tassi di fatto negativi, ma al tempo stesso l’esistenza di un euro più debole del marco l’ha a lungo avvantaggiata in termini di esportazioni e dunque la fine della moneta unica potrebbe risultare assai pesante.

Per l’Italia il quadro è particolarmente complesso; ha un debito di 1900 miliardi di euro, di cui 1600 negoziabili, con una durata media di quasi 7 anni, che può risultare un vantaggio in condizioni di tassi bassi ma che rischia di aggravare il conto se i rendimenti salgono. Ha un meccanismo di collocamento che si basa su una rete di primary dealers bancari impegnati a comprare sul primario per procedere poi al loro collocamento; questo meccanismo consente alle aste di non andare deserte ma costringe Il Tesoro a pagare un rendimento più alto rispetto al rendimento a cui le stesse banche li collocano sul secondario. Inoltre negli ultimi due anni sono cresciuti a dismisura i derivati finanziari costruiti sui titoli del debito italiano e questo, unito alla progressiva fuga dei sottoscrittori internazionali, favorisce ondate speculative molto marcate. Per l’Italia poi sarebbe estremamente pericolosa un’uscita dall’euro perché il suo debito è denominato in euro ed una sua ridenominazione in lire è pressoché impossibile. Pagare un debito forte con una valuta debole sarebbe durissimo e, al tempo stesso, neppure la colossale inflazione scatenata da un ritorno alla lira permetterebbe di svalutare il debito in euro. D’altra parte i benefici in termini di esportazione derivanti da una moneta debole si concentrerebbero su una parte troppo limitata dell’economia e non sarebbero in grado di far ripartire il paese.

Alcuni timori.

La prima preoccupazione riguarda la capacità della Banca Centrale Europea di continuare a sostenere, con gli strumenti di cui attualmente dispone, l’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi a rischio, che è la condizione indispensabile per evitare il loro default. I timori nei confronti dell’istituto di Francoforte sono dettati dalla sua già significativa esposizione verso i paesi indebitati. A fine novembre, la Bce e il sistema delle banche centrali dell’area euro ad essa connesse avevano in pancia quasi 200 miliardi di euro di titoli di Stato dei paesi in crisi, a cui si aggiungono altri titoli bancari e garanzie collaterali dei medesimi paesi per un totale complessivo di oltre 600 miliardi di euro; una montagna di carta a rischio che la Bce ha acquistato cedendo titoli buoni, a cominciare dalle obbligazioni tedesche, e dunque peggiorando in maniera molto sensibile la qualità del suo bilancio, tanto da assumere i contorni della “bad bank”. Cosa succederebbe ora se uno dei paesi nei confronti dei quali l’istituto di Francoforte è tanto esposto finisse in default? Bisogna aggiungere, peraltro, che il grosso di queste esposizioni gravano in realtà, indirettamente, sul bilancio della Bundesbank, in quanto principale socia della Bce e ciò contribuisce non poco alla scarsa malleabilità della cancelliera Merkel in tema di ulteriori sostegni ai paesi indebitati. In simili condizioni, l’acquisto sine die di titoli del debito italiano e spagnolo costituisce un’attività troppo costosa ed è assai probabile che la strategia di Mario Draghi debba restare, nel prossimo futuro, limitata all’azzeramento dei tassi di interesse e alle aste per fornire liquidità a breve termine alle banche, abbandonando i paesi indebitati al loro destino, nonostante ciò possa mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’euro. Se tenere in vita l’euro costa troppo per i bilanci degli Stati europei, il rischio di un suo abbandono diventa reale e non è un caso che comincino a circolare stime sempre più precise di un impatto della scomparsa della moneta unica sulle tasche di tedeschi e francesi. Ad aggravare la situazione intervengono poi altri fattori a cominciare dalla fuga dei capitali internazionali dall’eurozona e soprattutto dal debito sovrano e dalle obbligazioni delle banche degli Stati a maggior rischio. La decisione della Commodity futures trading Commission, il regolatore americano dei futures e dei derivati, di impedire di fatto alle società di intermediazione statunitensi di investire le risorse dei loro clienti nei titoli di Stato europei appare particolarmente eloquente. Se l’autorità che segue le operazioni dei fondi e delle società più esposte sul versante del rischio nei mercati cancella gli impieghi in direzione del debito europeo significa che il quadro è davvero cupo. Dopo i fondi monetari e le banche centrali del resto del mondo, il Vecchio Continente perde anche gli investitori più abituati al pericolo e sente pericolosamente avvicinarsi l’attacco decisivo alla propria moneta: prima che ciò accada i membri forti dell’eurozona potrebbero decidere, più o meno esplicitamente, di lasciarla. Del resto il perdurare delle incertezze sulla reale dotazione del Fondo Salva-Stati, il veto tedesco – e ora anche francese – agli eurobond e le richieste, estremamente impegnative, della Germania per l’adozione di un rigido patto fiscale tra i membri dell’eurozona come condizione per consentire alla Bce una maggiore duttilità di intereventi stanno convincendo il mondo che l’euro non possa farcela e che qualcuno abbia già accettato tale epilogo. Una riforma dei trattati europei che introduca nelle Costituzioni degli Stati membri del vincolo del pareggio di bilancio, l’automaticità delle sanzioni, sia economiche che politiche, per chi sfora i parametri su debito e deficit, il diritto della Commissione europea e dell’Ecofin di valutare in sede preliminare i bilanci nazionali e di imporre modifiche ed infine un ruolo cruciale della Corte di Giustizia europea nella sanzione delle violazioni della regola di bilancio compongono un elenco ben poco realizzabile in tempi brevi in un panorama così disastrato. L’Italia sa svolgendo i propri compiti a casa provando a mostrarsi, molto in ritardo, un alunno diligente, ma il percolo vero è che tra poco non ci sia più neppure la scuola.