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Regole dell’economia e crisi europea

  • 1 - Introduzione

Nelle pagine che seguono tenteremo di approfondire la questione delle difficoltà che sta incontrando il processo di costruzione europeo per effetto di “regole” economiche che stanno entrando sempre più in contrasto con il suo più importante elemento di identità e cioè la sua attenzione ai diritti sociali. I problemi con i quali ci dobbiamo confrontare possono riassumersi nella seguente domanda: la politica europea può ritrovare la capacità di guardare al di là degli egoismi nazionali che stanno emergendo, dando una risposta alta ai problemi che stanno portando ad un progressivo allontanamento di un’Europa dei deboli da un’Europa dei forti? Per dirla con altre parole, le sfide poste dalla crisi possono costituire un incentivo sufficiente per la politica europea per prendere le distanze dagli interessi di breve periodo di ciascun paese - e da quelli interni ai singoli paesi - e dare in questo modo l’avvio ad una nuova fase di integrazione?

Una nuova fase che in qualche modo costituisca una risposta a quella divaricazione crescente tra la dimensione economica da un lato e la dimensione dei diritti dall’altro che appare sempre più evidente e sempre più profonda mano a mano che la crisi avanza. Divaricazione che è essa stessa il segnale di una debolezza della politica europea che, almeno nell’ultimo decennio, non è sembrata capace di svolgere il suo ruolo tradizionale di ponte, di raccordo tra le due dimensioni. Se si è convinti, come chi scrive, che ogni collettività abbia sempre la possibilità di forgiare il proprio destino1, quelli che attualmente appaiono come vincoli possono essere interpretati come il prodotto finale del peso eccessivo dato alle ragioni del mercato. Peso eccessivo che, come aveva sottolineato Polany, finisce col generare da un lato un’inversione della logica con cui avvengono i processi di integrazione tra istituzioni sociali ed istituzioni economiche; una inversione che significa che non sarà più l’economia ad integrarsi nelle istituzioni sociali, ma sarà la società che sarà spinta ad integrarsi nei rapporti economici, ad adattare la sua logica a quella dell’economia2. E, dall’altro, sul piano della cultura, tende a concentrare tutta l’attenzione sui mezzi, dimenticando invece la capacità di ragionare sui fini.

L’obiettivo di queste pagine è quello di contribuire a trovare una risposta alla domanda che ci siamo posti, approfondendo in particolare due questioni: quella delle forze che spingono nella direzione della crescente divergenza tra i paesi e quella della cultura sia come elemento inerziale rispetto al cambiamento sia come possibile strumento di rottura di questi meccanismi. La tesi di fondo di questo lavoro è che la scelta di utilizzare l’economia come strumento di consolidamento dell’Unione Europea abbia funzionato nei primi decenni del dopoguerra complessivamente bene. Ma che questi risultati sono stati ottenuti in un ambiente politico ed economico sostanzialmente diverso da quello attuale, sia dal punto di vista delle regole e delle istituzioni, sia da quello culturale. A giudizio di chi scrive, le istituzioni economiche oggi non solo non costituiscono un fattore di convergenza tra realtà necessariamente diverse come quelle che esistono all’interno dell’Europa, ma stanno determinando spinte che vanno in direzioni esattamente opposte sia sul piano strettamente economico sia su quello della cultura.

Questo per due ragioni. La prima può essere individuata nella debolezza della politica europea. Quando è il piano economico che detta l’agenda degli interventi è indispensabile che la politica, come negli anni cinquanta e sessanta, abbia chiaramente in mente gli obiettivi che si vogliono perseguire, e cioè una convergenza tra i popoli, o gli interessi nazionali di breve periodo – e gli interessi dei gruppi sociali forti all’interno dei paesi - tenderanno a prevalere. In particolare in una situazione di crisi. La seconda è legata al fatto che il modo di essere dello sviluppo, le regole sono profondamente cambiate rispetto a quello del dopoguerra. La scelta della moneta unica sembra riassumere in se tutte le contraddizioni attualmente esistenti tra piano delle regole economiche e progetto politico sociale europeo. Non tanto, o non solo, perché la scelta sia stata priva di ragionevolezza in sé, quanto perché da un lato la politica appare indebolita e meno autonoma rispetto agli interessi, e, dall’altro perché il contesto economico all’interno del quale essa si è realizzata, ne ha condizionato le modalità di implementazione. Finendo con l’essere un elemento che ha rafforzato le forze centrifughe presenti nel vecchio continente rispetto a quelle che spingono alla cooperazione, alla solidarietà ed alla tutela delle realtà più deboli.

Il percorso lungo il quale ci muoveremo nelle pagine che seguono si articola in tre momenti successivi. Nel primo ci occuperemo della dimensione politica della crisi o meglio, del rapporto che intercorre tra interessi politici internazionali ed interni ai paesi da un lato e le regole dell’economia dall’altro. Affronteremo, in sostanza, la questione di come e perché nascono le regole che disegnano il modo di essere dello sviluppo. Nel secondo soffermeremo invece la nostra attenzione sui processi economici e sociali che sono stati attivati dalle attuali regole. Più nello specifico, tenteremo di capire il ruolo di queste regole nel generare il progressivo allontanamento tra un’Europa dei forti e quella dei deboli sia sul piano strettamente economico e della crescita, sia su quello della distribuzione del reddito e, più in generale, della coesione sociale. Nella parte finale ci occuperemo, infine, del modo in cui la cultura interagisce con le regole stesse e con il modello di sviluppo che da queste è delineato. E, di conseguenza, del possibile ruolo che la cultura può giocare come fattore di accelerazione o di ostacolo dei processi di cambiamento resi necessari dalla crisi e, in particolare dall’evolversi della situazione europea.

  • 2 - Regole, istituzioni e processo economico

Il tempo trascorso dall’inizio della crisi e le modalità con cui i processi economici sono andati evolvendo hanno convinto anche i più restii ad accettare il fatto che ci si trovi di fronte a qualcosa di sostanzialmente nuovo; qualcosa che, in ogni caso, non può essere confuso né con le precedenti crisi cicliche che anche negli ultimi decenni avevano interessato parti del sistema economico internazionale, ne tanto meno con la crisi ultima di un capitalismo che, per la verità, non era mai riuscito in passato a permeare tanto di sé le relazioni economiche globali.

Quello che appare sempre più evidente a molti è che quanto sta succedendo altro non è l’espressione del fatto che un modo di essere dello sviluppo, un modello di sviluppo come si dice correntemente, sembra non funzionare più come in passato. Ora, quando si parla di un modo di essere dello sviluppo non si fa riferimento ad un fatto meramente tecnico. Ogni modello di sviluppo ha certamente una dimensione tecnica ma é qualcosa di più e di molto più complesso. Un modello di sviluppo può piuttosto essere definito come un insieme di regole economiche nate in funzione di interessi politici ed economici. Interessi che tendono a consolidare il modello trasformando le regole, o una parte di esse, in istituzioni.

Prima di approfondire la questione delle regole e del loro ruolo nel processo di costruzione europea, può essere utile soffermarci in via preliminare sul significato che può essere attribuito alle regole stesse e sul modo in cui esse vengono costruite. E’ noto che, secondo una parte degli studiosi di economia, le regole e le istituzioni che governano l’economia sono espressione di una logica di efficienza. L’approccio che seguiremo nella nostra analisi si rifà ad una idea diversa di processo economico3. In questo modo di intendere l’economia, le regole e le istituzioni devono essere collegate ad un disegno politico costruito in funzione degli interessi del paese leader e, sul piano interno ai singoli paesi, in funzione degli interessi di specifici gruppi sociali. E’ l’interazione tra queste regole economiche e quelle non economiche - e quindi tra istituzioni economiche e non – quella che poi determina il percorso lungo il quale si muovono i sistemi economici. In altre parole, una volta che istituzioni e regole economiche si sono consolidate, tendono a muoversi ed interagire tra loro e con quelle non economiche secondo linee che hanno una certa autonomia rispetto al progetto iniziale. Esiste in sostanza una certa soggettività delle istituzioni. Insomma il rapporto tra gli obiettivi che si ponevano nel momento in cui le istituzioni sono state costituite e i risultati ottenuti rimane stretto ma non necessariamente strettissimo, soprattutto se si ragiona nel lungo periodo.

Gli interessi politici ed economici che stanno a monte delle regole e delle istituzioni hanno a che fare sia con la dimensione internazionale che con quelle nazionali4. L’insieme delle regole, sia formali che informali, che. più nello specifico, disegnano l’effettivo funzionamento delle relazioni economiche, definiscono quello che normalmente si chiama il mercato. Un mercato che evidentemente è un parente piuttosto lontano da quello “idealizzato” di cui parla la teoria e che, in questa impostazione, è invece frequentato da istituzioni connotate storicamente.

Interessi internazionali, perché le regole sono il modo in cui il paese leader tende a consolidare la propria posizione economica e politica. Nazionali, perché ogni modello di sviluppo per potersi consolidare nel tempo deve avere una sua base sociale all’interno dei paesi capace di dare credibilità al progetto. Una credibilità che ovviamente si rafforza nel momento in cui le regole, o meglio una parte di esse, si trasforma in istituzioni che hanno il ruolo di rendere operative e cogenti le regole stesse sia a livello nazionale che internazionale. Ovviamente, l’esistenza di istituzioni nazionali, oltre che internazionali, ha come conseguenza che il modello di sviluppo non sarà identico nelle sue caratteristiche in tutti i paesi, ma avrà anche una dimensione locale.

Perché un insieme di regole e istituzioni possa riuscire ad identificare un modello economico è necessario che queste regole abbiano il tempo di plasmare il sistema economico a tutti i livelli. Devono quindi durare nel tempo e questo può succedere solo quando: 1. hanno successo, cioè rendono possibile lo sviluppo per una parte sufficientemente ampia del sistema economico; 2. funzionano in maniera coerente con gli interessi – politici, economici, sociali - che stanno a monte di quel determinato insieme di regole; 3. si crea una cultura anch’essa coerente con gli interessi del modello capace di far percepire questi interessi come sostanzialmente coincidenti con l’interesse generale.

Il fatto che le regole e le istituzioni, durando nel tempo, disegnano la politica internazionale e quindi il tessuto di relazioni che si stabiliscono tra i paesi e, in particolare, tra il paese (o i paesi) leader e il resto dei paesi5 e condizionano contemporaneamente la politica interna ai singoli paesi (perché è attraverso le regole e le istituzioni che un determinato modello si costruisce e consolida la sua base sociale) determina una ulteriore conseguenza di grande rilievo. Le regole stesse vengono assunte come un dato, un punto di partenza indiscutibile. E nelle analisi di breve periodo non c’è dubbio che esse possano e debbano essere considerate un dato. Se ci si pone da questo punto di vista, non deve sorprendere che le regole non siano più oggetto di discussione e finiscano con l’assumere i contorni di leggi quasi naturali agli occhi di molti, probabilmente anche per effetto di fatti culturali.

Ma è evidente che, se si guarda al più lungo periodo, le regole sono cambiate troppo spesso, ed in misura troppo significativa, su aspetti troppo qualificanti perché si possa dare un qualche credito a chi considera queste regole indiscutibili e ancora meno a chi le considera naturali. E questo non solo perché i sistemi di regole attraverso le quali si è costruito lo sviluppo negli ultimi due secoli sono stati differenti tra loro e, in moltissimi casi opposti, quanto perché ogni insieme di regole ha funzionato a lungo generando effettivamente le condizioni dello sviluppo6. In sostanza, sono esistiti nel tempo modelli di sviluppo che hanno favorito la crescita economica, nonostante che fossero costruiti intorno a logiche differenti tra loro. Ovviamente i modelli non possono continuare a funzionare per un tempo indefinito. Ogni modello garantisce lo sviluppo per un determinato arco temporale. Quando non riesce più a farlo entra in crisi e si mettono in moto forze che spingono ad un cambiamento che sarà tanto più lento quanto più interessi, istituzioni e cultura tenderanno a resistere a questi processi.

Abbiamo detto che una delle condizioni perché un modello duri nel tempo è che possa contare su una cultura propria. Il modello, in altre parole, deve avere una sua specifica dimensione culturale. Ovviamente la questione non va vista in maniera meccanica. Il rapporto tra cultura e modello, tra cultura e le istituzioni del modello non è semplice perché se è vero che le istituzioni trovano una loro giustificazione nella cultura, è vero anche che le istituzioni stesse sono uno dei modi in cui quella cultura consolida la sua egemonia. Come già si era detto in premessa, nell’ultima parte di questo lavoro, dopo cioè aver analizzato come storicamente è nato l’attuale modello di sviluppo, ci soffermeremo sul ruolo della cultura nel modo di essere dello sviluppo e sui problemi e le opportunità che si creano nelle fasi in cui questo modo di essere non sembra funzionare più, come appunto quelle che stiamo vivendo.


  • 3 - Il ruolo della politica

Il modello attuale di sviluppo è nato per effetto di in un insieme di scelte politiche fatte all’inizio degli anni ottanta per superare il modo di essere dello sviluppo – che poteva essere definito quindi anche esso un modello – pensato e costruito nel secondo dopoguerra. Come negli anni quaranta, il modello nasce con l’obiettivo di creare un mondo coerente con gli interessi economici e politici in primo luogo degli Stati Uniti. Interessi che la precedente organizzazione del sistema economico internazionale non sembrava essere più in grado di garantire, così come non sembrava più riuscire a creare le condizioni per uno sviluppo ordinato. I segnali in questa direzione non erano stati marginali. La crisi della convertibilità del dollaro era stato il primo e più importante segnale. Gli anni dell’iperinflazione da materie prime e l’instabilità del sistema politico internazionale un secondo.

E’ possibile che negli Stati Uniti ci si sia convinti che la battaglia sul piano industriale con i paesi europei e in primo luogo col Giappone fosse difficile da vincere, così come è possibile che gli USA abbiano avuto la necessità di imporre nuovamente la propria posizione di leadership sia rispetto al mondo comunista che a quello occidentale in primo luogo sul piano politico7. Una leadership che la crescita economica in Europa e Giappone avevano sicuramente ridimensionato. E’ infine possibile che la destra americana abbia utilizzato questa situazione di nuova difficoltà sul piano internazionale, per ristabilire un nuovo ordine anche sul piano politico interno. Per ridare nuovo spazio e nuova centralità ai profitti e ai gruppi sociali economicamente forti. Quello che è certo è che gli USA hanno abbandonato un modello che - probabilmente anche in funzione delle esigenze della “guerra fredda” – poteva essere definito come generoso verso i deboli, sia sul piano interno che internazionale, e l’hanno sostituito con uno molto più attento alle proprie esigenze di leadership, e molto più egoistico sul piano sociale, nel senso che tendeva a privilegiare i profitti e, soprattutto, le rendite.

Con il binomio Thatcher e Reagan la politica anglosassone cambia e si muove in direzione di una riorganizzazione del sistema economico internazionale e della sua base sociale. Il cuore di questo sistema viene spostato dall’industria alla finanza, settore nel quale dominano le piazze finanziarie di New York e Londra. E lo si fa con un insieme di regole mirate anche a mantenere in maniera stabile la centralità del sistema finanziario e, all’interno di questo, la centralità della finanza americana. Una stabilità che sarebbe dovuta derivare anche dal fatto che le nuove regole erano state pensate per rafforzare la posizione dei forti; e ciò sia nel senso di paesi con l’economia più forte (ovviamente soprattutto gli USA), che dei gruppi sociali privilegiati all’interno dei singoli paesi. In qualche modo, con il nuovo modello di sviluppo si è voluto dar vita ad un differente progetto politico, ad un nuovo ordine sia internazionale che sociale in cui le gerarchie erano non solo difese, ma anche tendenzialmente rafforzate.

E’ quest’ultimo il modello che è entrato in crisi qualche anno fa. L’attuale organizzazione del sistema economico infatti non sembra essere più in grado di assolvere ai compiti per i quali è stata creata; non sembra essere più in grado di garantire la sussistenza delle tre condizioni di cui avevamo parlato in precedenza; non riesce ad assicurare lo sviluppo ordinato del sistema internazionale, non sembra portare più ad esiti coerenti con gli obiettivi e le necessità del paese leader, non riesce ad avere quella totale egemonia sul piano culturale che era stato uno dei suoi punti di forza negli ultimi due decenni.

Come avevamo detto nella premessa, l’obiettivo di queste pagine è quello di riflettere sui meccanismi che l’attuale modo di essere dello sviluppo ha messo in moto e, in particolare, riflettere su come questi meccanismi abbiano interagito ed interagiscano con il progetto politico dell’Unione Europea, affrontando la questione sia sul piano economico che sociale. Come si diceva, il raggiungimento di questo obiettivo richiede che si sposti l’attenzione sulle regole che definiscono l’attuale modello e sugli effetti delle stesse in termini di meccanismi di crescita tra i paesi e di distribuzione del reddito all’interno degli stessi. Ovviamente non si vuole affermare che le difficoltà che sta vivendo l’Unione Europea siano solo il frutto di condizionamenti che provengono dall’esterno. Esistono motivi strettamente europei per l’aggravamento della crisi dei paesi della periferia. In primo luogo la politica tedesca strutturalmente deflazionistica. Negli USA le politiche di redistribuzione a favore del capitale sono state corrette da politiche economiche espansive. In Europa no. L’unica strada è stata quindi quella delle riforme sul mercato del lavoro (fatte allo scopo di abbassare il saggio naturale di disoccupazione)8. In secondo luogo, la riorganizzazione dei processi produttivi dell’industria tedesca seguita al crollo del blocco del socialismo reale che ha in parte sostituito il tradizionale rapporto tra l’industria dei paesi mediterranei e che non è stata compensata dalla nuova domanda proveniente da questi paesi che si è invece indirizzata verso la Cina9.

Ovviamente il fatto che si è concentrata l’attenzione su alcune regole-istituzioni non vuol dire che le altre regole non giochino un qualche ruolo; così come non vuol dire che non abbiano una certa importanza i fattori soggettivi, cioè le scelte fatte dalle classi dirigenti dei diversi paesi europei. Vuol dire solo che prenderemo in considerazione le regole che a nostro giudizio appaiono più rilevanti nell’attivare meccanismi perversi perché allontanano i paesi tra di loro attraverso processi che quasi sempre assumono un carattere cumulativo.


  • 4 - Regole e istituzioni.
  • 4.1 - La libertà nei movimenti di capitali.

La prima regola che ha concorso a delineare, all’inizio degli anni ottanta, il nuovo modello di sviluppo è stata quella della libertà dei movimenti di capitali. Una scelta forte quella fatta in quegli anni, con la quale si è in pratica ripristinata la situazione che esisteva prima del crollo di Wall Street. Ovviamente questo cambiamento è stato raccontato come espressione di un progetto di politica di intervento che avrebbe permesso il superamento di vincoli – la cui esistenza è stata spiegata in termini di eccessiva presenza dello stato – non necessari. Una scelta di libertà perché avrebbe garantito maggiori opportunità di azione per chi disponeva di capitali e, contemporaneamente, una scelta di efficienza perché avrebbe consentito una migliore allocazione internazionale delle risorse finanziarie grazie all’azione benefica dei meccanismi di mercato. La maggiore libertà nell’agire economico ed il miglioramento dell’efficienza sistemica avrebbe comportato quindi come conseguenza un miglioramento nei livelli di benessere indipendentemente dalla posizione sociale di ciascuno.

In realtà, l’introduzione della libertà nei movimenti di capitali ha inciso profondamente sul modo di essere dei sistemi economici e, in particolare, ha cambiato i rapporti di forza tra governi nazionali e possessori e/o gestori di risorse finanziarie. E questo per il semplice fatto che ogni singolo paese si è trovato ad essere esposto al rischio di instabilità; una instabilità che poteva derivare da una uscita improvvisa e significativa di capitali legata, a sua volta, alla strutturale volatilità di questi mercati. Gli equilibri macroeconomici di ogni paese, in altre parole, hanno finito con l’essere condizionati, sul piano interno, dagli interessi di una parte della società, quella che dispone di capitali, e quindi la parte alta della piramide sociale, e, su quello internazionale, dal fatto che questi stessi interessi, che si sono consolidati all’interno dei mercati finanziari, hanno potuto contare su un peso politico enorme.

Un cambiamento nei rapporti di forza che non poteva essere privo di conseguenze sia sul piano del funzionamento dei sistemi economici nazionali sia su quello della distribuzione del reddito al loro interno. Dal primo punto di vista la libertà dei movimenti di capitali ha sicuramente inciso sui saggi di interesse, determinandone una crescita, sia pure diseguale tra i paesi. Una crescita che può avere determinato un minor volume di investimenti e, più sicuramente di spesa pubblica, con conseguenze negative sul tasso di crescita dell’economia. Con effetti che sono stati ugualmente abbastanza chiari sul piano degli equilibri sociali all’interno dei paesi; l’ovvio risultato di questa nuova regola è stato infatti il diffondersi, in quasi tutti i paesi, anche in quelli avanzati, di politiche “amichevoli” verso i capitali; politiche volte ad attrarre i capitali, oltre che ad impedirne la fuoriuscita attraverso di concessioni sia sul piano fiscale che di altra natura. In questo contesto non può sorprendere il fatto che attualmente la pressione fiscale sulle rendite in tutti i paesi sia molto meno accentuata rispetto a quella sul lavoro. La libertà dei movimenti di capitali ha, per dirla in termini più espliciti,creato le condizioni per una sistematica redistribuzione del reddito, a livello internazionale, da lavoro a rendita o a profitti, visto che nell’attuale modello il confine tra le due forme di reddito può essere considerato piuttosto incerto.

Una redistribuzione che è stata favorita anche dalla minore trasparenza dei mercati finanziari, legata al fatto che tutti i paesi hanno cercato di attirare i capitali offrendo le migliori condizioni possibili; in alcuni casi al limite di ciò che è considerato internazionalmente lecito. La nascita dei cosiddetti paradisi fiscali non è che una espressione estrema di questa situazione. La scarsa trasparenza che è quasi sempre uno degli elementi caratterizzanti queste politiche, ma anche la stessa esistenza dei paradisi fiscali, hanno avuto a loro volta una grande importanza sul piano culturale perché si è finito col fare apparire normale il fatto che si sono sottratte risorse ai paesi e si è anche data una sostanziale legittimità alla mancanza di quella solidarietà all’interno delle società nazionali che trova il suo alimento finanziario proprio nella fiscalità.

In pratica, la parte economicamente più avvantaggiata della società, cioè i possessori di capitali hanno potuto disporre, attraverso questa regola, non solo di uno strumento relativamente facile da utilizzare per evitare di farsi carico dei problemi di equità all’interno dei rispettivi paesi, ma è riuscita a fare in modo che sia apparsa come normale, come un dato tecnico, quella che altro non è che una regola che redistribuisce in maniera strutturale risorse da lavoro a capitale.

Gli effetti di cui abbiamo appena parlato sono evidentemente rilevanti in sé, ma assumono un significato ancora più rilevante, anche ai nostri fini, se si tiene conto del fatto che questi stessi effetti si distribuiscono in maniera molto diseguale tra i paesi spingendo i loro percorsi di sviluppo in direzioni divaricanti o, in ogni caso, molto diverse tra loro. Avevamo detto in precedenza che la conseguenza della libertà nei movimenti di capitali è stato un innalzamento dei tassi di interesse. In realtà, se i capitali sono liberi di muoversi, è del tutto scontato che i flussi che si genereranno, tenderanno spontaneamente ad abbandonare i paesi - e le valute – che appaiono a chi dispone di risorse finanziarie quelli meno idonei ad assicurare loro le migliori condizioni in termini di rendimento e sicurezza di lungo periodo. Si muoveranno quindi verso i paesi considerati più affidabili, cioè quelli del centro del sistema economico internazionale.

Il vincolo alla politica economica generato dalla libertà dei movimenti dei capitali non si è quindi distribuito nei trascorsi decenni in maniera uniforme tra i paesi. Si è invece trasformato in un vantaggio, se non altro in termini relativi, per i paesi del centro del sistema economico internazionale – in Europa tipicamente la Germania - che hanno potuto beneficiare di capitali abbondanti e, di conseguenza, relativamente poco costosi. Al contrario, si è posto per tutti gli altri paesi come un vincolo tanto più stringente – anche per effetto degli alti tassi di interesse - quanto più i paesi stessi sono apparsi agli investitori strutturalmente poco attraenti e quindi considerati più rischiosi. E’ vero che nei primi anni dell’euro i differenziali sono stati minimi tra i paesi del centro e quelli della periferia come conseguenza del patto politico che legava i paesi dell’euro. Ma è vero anche che col sopraggiungere della crisi, quando si è capito che il supporto che veniva dalla politica era debole, gli “spread” sono tornati a crescere. Una crescita che in Europa è diventata particolarmente visibile dopo la crisi greca.

Per riassumere il significato di quello che abbiamo appena detto, anche se il sorgere, o il rafforzarsi, di differenziali nei tassi di interesse tra i paesi può essere considerato il modo attraverso il quale la periferia del sistema economico internazionale ha contrastato la tendenza allo spostamento fisiologico di risorse finanziarie dai paesi deboli a quelli forti, non ci si deve dimenticare che questa struttura dei tassi di interesse ha creato le condizioni per un nuovo indebolimento dei paesi della periferia. Nel caso dell’Europa per l’insieme dei paesi mediterranei. E per un nuovo rafforzamento di quelli forti, in primo luogo la Germania. Ma la divaricazione tra i paesi europei non ha riguardato solo la velocità in cui si è realizzato lo sviluppo. Ha interessato anche il modo di essere della distribuzione del reddito. E questo se non altro perché il differenziale tra i tassi di interesse ha reso relativamente più costoso il finanziamento dello stato sociale nei paesi più deboli e lo ha fatto diventare meno difficile negli altri. In sostanza, la parte più debole delle società della periferia europea è quella che nell’ultimo decennio ha visto la propria posizione peggiorare di più, almeno in termini relativi.

  • 4.2 - Il ruolo della Banca Centrale.

Fino alla fine degli anni settanta la Banca d’Italia aveva agito da compratore di ultima istanza dei titoli emessi dal Tesoro. Questo tipo di politica aveva avuto il vantaggio evidente di mantenere relativamente bassi i tassi di interesse che lo stato aveva pagato sui nuovi titoli pubblici emessi, e quindi sull’insieme del debito pubblico. Aveva funzionato come calmiere sui tassi di interesse. Ma aveva anche impedito alle banche centrali di avere un pieno controllo dell’offerta di moneta. Una parte di questa offerta era determinata infatti dalle scelte di emissione di titoli pubblici da parte del Tesoro, e quindi dal disegno di politica economica perseguito dai governi.

Senza tornare al dibattito politico e tecnico di quegli anni nel nostro paese, che peraltro non renderebbe giustizia ad un processo che non ha riguardato solo l’Italia ma ha coinvolto, sia pure con modalità differenti, tutte le esperienze delle banche centrali dei paesi avanzati, quello che è certo è che, anche in questo caso, si è trattato di una scelta che ha avuto conseguenze particolarmente significative sul funzionamento del sistema economico e, più in generale, sull’assetto sociale del nostro come di tutti i paesi. L’effetto più immediato e più visibile del “divorzio” tra Tesoro e banca centrale è stato l’aumento del costo determinato dai più alti tassi di interesse che lo stato ha dovuto pagare per finanziare la propria spesa e lo stock di debito pubblico10. Con la conseguenza che l’uso della spesa pubblica come strumento di politica economica è risultato scoraggiato, perché più costoso. Un aumento di costo che si è aggiunto a quello che aveva la sua origine nella libera circolazione dei capitali, di cui si ha una coscienza minore di quanto forse sarebbe necessario, anche per il ruolo che l’aumento nei tassi ha avuto nel dare un impulso non secondario alla crescita dei debiti pubblici che si è avuta in quasi tutti i paesi avanzati.

Ma anche con effetti di altra natura, come quelli di tipo, se si vuole, psicologico, ma non per questo meno importanti sul piano culturale. Il mantenimento dello stato sociale ha finito con l’apparire sempre più nella sua dimensione contabile, piuttosto che come una scelta di civiltà, o come un investimento di lungo periodo di una società su se stessa.

Problemi rilevanti il cui impatto, tuttavia, sui sistemi economici nazionali è stato ancora una volta molto diverso a seconda dei paesi. In particolare, i paesi in cui la spesa pubblica ha giocato storicamente un ruolo più importante nel processo di sviluppo (tipicamente i paesi della periferia d’Europa), hanno trovato nuove difficoltà perché hanno dovuto pagare tassi di interesse relativamente più elevati rispetto a quelli con un debito pubblico più contenuto. In sostanza, si sono create due ragioni che hanno portato ad una divaricazione nei tassi di interesse sul piano internazionale, e, in particolare, all’interno dell’Europa. Quella legata alla capacità di attrazione dei capitali e quella legata al finanziamento del debito pubblico. Lo “spread” non è altro che il modo in cui il mercato valuta momento per momento l’insieme delle due differenze. E’ l’esistenza di “spread” tra i tassi di interesse dei paesi che rende poco sorprendente il fatto che il problema del debito pubblico si sia presentato negli ultimi anni con differente importanza tra i paesi. In quelli deboli e che, storicamente, avevano un alto debito pubblico, lo “spread” ha rafforzato un processo che si è avvitato su se stesso e che ha avuto come suo opposto quanto è successo nei paesi forti.

Come si diceva all’inizio di questo paragrafo, la giustificazione della regola che impedisce il finanziamento da parte della Banca Centrale Europea (come di altre banche centrali) è da ricercare nell’obiettivo primario che è stato ad essa assegnato e cioè il ruolo di tutore della stabilità dei prezzi11. Anche in questo caso si tratta di una regola che può apparire tecnica – secondo la teoria quantitativa della moneta i prezzi tendono a crescere ogni volta che aumenta l’offerta di moneta – ma che, in realtà, risponde pienamente all’obiettivo di porre al centro del sistema economico i mercati finanziari e gli interessi che stanno dietro loro. Sul piano economico, infatti, la lotta all’inflazione è un elemento fondamentale per il buon funzionamento del mercato dei capitali perché elimina la minaccia più importante per chi fa investimenti finanziari a lungo termine e cioè appunto l’inflazione. Solo la delega a istituzioni tecniche della lotta all’inflazione poteva costituire quell’assicurazione di cui avevano bisogno i mercati finanziari per poter sviluppare la loro attività senza essere esposti ai rischi sistemici. Ponendo in più un vincolo insuperabile a quella che era stata la politica che tradizionalmente era stata utilizzata dai paesi con alto debito pubblico per uscire da questa situazione senza (necessariamente) passare per contrazioni nei consumi. La crescita dei prezzi è infatti il modo in cui storicamente si è potuto ridimensionare lo stock di debito pubblico senza avvitare il sistema economico in una spirale recessiva. In questo caso, infatti, il costo dell’aggiustamento viene pagato dai detentori di risparmi e quindi non incide direttamente sul livello della domanda.

Ma ovviamente il cambiamento di ruolo delle banche centrali ha inciso anche fortemente sul piano degli equilibri sociali. La questione si pone in maniera molto semplice. Inflazione e occupazione sono collegate tra loro in maniera diretta. Livelli di occupazione elevati si associano normalmente con altrettanto alti tassi di inflazione. Porre l’obiettivo della stabilità dei prezzi alle banche centrali ha voluto dire dare alle stesse il ruolo di decidere anche dei livelli di occupazione. Chi governa la politica economica non potrà infatti scegliere di sviluppare manovre espansive per sostenere i livelli di occupazione perché questo tipo di politica costerebbe qualcosa in termini di inflazione e metterebbe in moto la reazione della banca centrale che restringerebbe il credito e finirebbe per eliminare l’effetto espansivo.

In sostanza, attraverso l’imposizione dell’obiettivo della stabilità dei prezzi alle banche centrali si è esautorata di fatto la politica da uno dei suoi ruoli tradizionali, quello della tutela dei livelli di occupazione; ruolo che è stato affidato ad un organo tecnico non politicamente responsabile. O, per essere più precisi, ha lasciato ai responsabili della politica economica come unica possibilità quella di passare dalle politiche dell’occupazione basate sul sostegno della domanda alle politiche del lavoro volte a favorire l’occupazione attraverso la flessibilità. In sostanza, l’unica strada per garantire livelli di occupazione elevati è stata quella di passare per una perdita progressiva, da parte del lavoro, del controllo sui modi in cui la propria attività dovesse essere organizzata. La cosiddetta flessibilità.

Ma il nuovo ruolo delle banche centrali nel sistema economico ha avuto anche un secondo effetto, per certi versi ancora più rilevante per gli equilibri sociali interni ai paesi. Il fatto che gli stati siano stati costretti a ricorrere all’intermediazione del sistema finanziario per riuscire a reperire le risorse necessarie per le proprie attività, ha determinato una redistribuzione di reddito, si badi bene strutturale, dalle società al sistema finanziario stesso. Una redistribuzione che è stata più forte, ancora una volta, nei paesi con lo “spread” più elevato. I paesi della periferia, in altre parole, hanno pagato la loro posizione anche con una maggiore disuguaglianza sociale. La questione ha assunto una piena evidenza quando negli anni scorsi la BCE ha immesso liquidità destinata alle banche che intendevano acquistare titoli del debito pubblico dei paesi con problemi di debito sovrano. Le banche hanno potuto contare su un tasso di interesse molto più basso (il tasso ufficiale di sconto era all’1 per cento) di quello dei titoli del debito pubblico che hanno acquistato con la liquidità fornita dalla banca centrale. In un momento di grave difficoltà, la politica monetaria ha, in sostanza, date le regole, continuato a privilegiare gli interessi dell’intermediazione finanziaria invece di quelli della domanda e, in fin dei conti, della società.

  • 4.3 - Le istituzioni internazionali: Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale

Le due istituzioni create dagli accordi di Bretton Wood sono sopravvissute alla fine del modo di essere del sistema internazionale del dopoguerra perché, soprattutto il Fondo Monetario, erano quelle che, nel loro agire, si erano meno conformate alla logica che aveva ispirato quegli accordi. Una logica secondo la quale gli squilibri macroeconomici nei quali poteva incorrere un paese non dovevano essere considerati in nessun caso come espressione di responsabilità di un singolo paese. Mai, in particolare, del paese più debole economicamente. Il fatto che a fronte di situazioni di deficit, ce ne dovessero essere altre, simmetricamente, di surplus finiva col coinvolgere nella responsabilità, in quel tipo di approccio, tutti i paesi. In sostanza, con gli accordi di Bretton Wood si dava un retroterra di ragionevolezza economica (anche attraverso istituzioni con compiti coerenti con lo spirito del progetto) ad una politica costruita intorno all’idea che la solidarietà internazionale, probabilmente resa necessaria dalle esigenze della guerra fredda, poteva essere lo strumento migliore per affrontare sia i problemi economici di breve che di lungo periodo.

Nei fatti, come si diceva, gli interventi del FMI, si sono quasi esclusivamente concentrati sui paesi in deficit. Non è un caso che lo strumento della dichiarazione di “scarsità” di una moneta, che doveva costituire una minaccia per i paesi in surplus, non sia stato mai utilizzato12. E dunque si può forse parlare di una svolta negli anni ottanta per il FMI, ma più di grado che di tipo di intervento. Le politiche imposte sono state più vessatorie di quelle richieste nei decenni precedenti. Il paese in deficit, infatti, non solo è stato obbligato ad adottare politiche deflazionistiche, ma gli interventi di supporto sono stati condizionati anche a politiche di liberalizzazioni e di privatizzazioni, giustificate dal miglioramento che queste politiche avrebbero determinato in termini di efficienza sistemica, ma che nei fatti hanno messo che le economie di questi paesi e, in particolare, la loro struttura produttiva, nelle mani dei grandi gruppi economici e finanziari internazionali.

Alla logica della solidarietà, sia pure solo dichiarata, si è sostituita quella dei rapporti di forza nascosta da un velo – per la verità poco credibile – di cultura del libero mercato. Dalla idea che lo sviluppo dei paesi deboli favorisse anche quello dei paesi forti, si è passati a quella contraria, secondo la quale lo sviluppo dei forti non può che avvenire a scapito di quelli deboli. Posizione non sorprendente se si pensa agli obiettivi politici che con il nuovo modello si intendeva perseguire.

Se dunque la crisi ha rafforzato l’allargamento della forbice tra paesi deboli e forti anche come effetto delle stesse regole del modello di sviluppo, le istituzioni internazionali hanno sancito questa debolezza nel momento in cui questa ha assunto la forma di squilibri macroeconomici. La conseguenza di questa strategia di intervento non è stata una politica internazionale meno solidale, ma il diffondersi di una cultura coerente con questi nuovi indirizzi politici, che ha accentuato le diffidenze tra i paesi. Il messaggio neanche troppo implicito di queste politiche è stato infatti che l’origine degli squilibri fosse da ricercare in comportamenti poco virtuosi delle classi dirigenti dei paesi deboli. Un modo di affrontare la questione che è entrato nel buon senso comune a tal punto da essere diventato una delle componenti che ha contribuito a generare da un lato quella cultura dell’esclusione che, sotto nuove vesti, si è ripresentata dopo quaranta anni tra i paesi avanzati ed anche al loro interno, e, dall’altro, quei forti risentimenti popolari sia nei paesi forti che in quelli deboli – e in questi anche verso la politica - che hanno allargato le distanze tra i popoli, prima ancora che tra i governi.

  • 4.4 - I mercati finanziari, le banche e le società di rating

Poiché lo stato è un regolatore delle transazioni economiche meno efficiente del mercato, l’unica regolamentazione possibile per far funzionare i mercati è l’autoregolamentazione, cioè quella gestita direttamente dal mercato. Questa proposizione, questo postulato del pensiero del liberismo, oltre al valore culturale, che è evidentemente rilevante perché costituisce il retroterra teorico dell’insieme delle regole che costituiscono l’ossatura dell’attuale modello di sviluppo, ha un valore in se stessa, sia dal punto di vista economico che sociale. Da un lato infatti ha creato la base per sostituire i meccanismi di solidarietà che una società può scegliere di attivare al suo interno, che passano evidentemente per lo stato, con meccanismi assicurativi e di mercato che hanno quindi come riferimento l’individuo. Un disegno di società fatta di individui ognuno in grado di pensare a se stesso e sempre più organizzata a misura del mercato, o se si vuole, a misura degli interessi che stanno dietro i rapporti di mercato. Una società in cui il riferimento a un sistema di valori diverso, come quello che sta dietro le costituzioni europee del dopoguerra, viene visto in misura crescente come qualcosa di fondamentalmente ingombrante.

Ma dall’altro, è stata soprattutto una scelta che ha voluto dire affidare all’intermediazione finanziaria privata una massa di risorse che in precedenza erano gestite dall’operatore pubblico. Un modo di essere dello sviluppo che dunque ha ridisegnato in maniera significativa l’organizzazione della convivenza sociale ed ha creato nuove importanti opportunità di intermediazione per il sistema finanziario. La nascita ed il consolidarsi di un sistema pensionistico privato, così come potenzialmente l’intervento in campo sanitario, possono trovare una spiegazione nel fatto che da un lato rispondono a bisogni diffusi e, dall’altro offrono possibilità di sicuro guadagno per i mercati finanziari.

All’interno di questo modo di affrontare le questioni economiche hanno giocato un ruolo particolare i sistemi di autoregolazione della finanza. La creazione delle cosiddette società di rating e la separazione tra banche di affari e banche che erogano il credito sono stati due tra gli interventi più rilevanti che hanno creato il nuovo modello di sviluppo. Per quel che riguarda la specializzazione del sistema bancario, questa era stata introdotta negli anni trenta tenendo conto dell’esperienza della crisi del 1929, quando il fallimento del sistema bancario aveva finito col coinvolgere l’intero sistema produttivo. Due interventi che sicuramente hanno fatto aumentare l’instabilità potenziale del sistema finanziario anche perché, in presenza di una abbondante liquidità, hanno spinto il sistema finanziario internazionale lungo un percorso di sempre maggiore concentrazione; una tendenza che, tra l’altro, la crisi non solo non ha interrotto ma ha addirittura accelerato. Il fatto che il sistema finanziario internazionale si sia andato identificando sempre più con i grandi gruppi finanziari ha comportato a sua volta una concentrazione di potere sempre più accentuata ed il determinarsi di problemi non secondari di trasparenza, di accesso alle informazioni da parte non solo della collettività ma anche dei mercati stessi. La nascita di intermediari finanziari di grandissime dimensioni ha determinato poi una seconda conseguenza. Ha creato soggetti formalmente privati, ma troppo grandi per poter fallire realmente e quindi ha messo in discussione uno dei fondamentali meccanismi attraverso i quali il mercato opera i suoi aggiustamenti e determina la selezione. L’esperienza della Lehman and Brothers all’inizio della crisi attuale è stata assolutamente illuminante al riguardo, anche se non ha provocato quel ripensamento delle regole che sarebbe stato indispensabile per evitare un nuovo insorgere di situazioni analoghe.

Il secondo problema creato dall’esistenza di società di rating private è stato costituito dal fatto che la loro esistenza ha fatto sì che non tutti gli operatori che stanno sul mercato siano stati effettivamente uguali. Non può non sorgere il ragionevole dubbio che i gruppi economici che in qualche modo controllano le società di rating abbiano potuto disporre di un vantaggio non irrilevante che ha permesso loro di assumere o rafforzare le proprie posizioni sul mercato: così come potrebbe avere una sua consistenza il sospetto che il controllo delle società di rating abbia contribuito a porre al centro della finanza i gruppi anglosassoni, e statunitensi in particolare13.

La convinzione di chi scrive è che in qualche modo le società di rating possono essere considerate come uno tra gli strumenti più importanti attraverso i quali si é ratificato il potere dei paesi più forti, ma anche dei gruppi finanziari più grandi, e si è tradotto questo potere in un valore economico immediatamente spendibile.

  • 4.5 - I meccanismi che si sono attivati.

L’effetto della divaricazione tra i tassi di interesse è stato presumibilmente quello di rendere gli investimenti meno convenienti nei paesi della periferia europea; con il risultato di deprimere il processo di accumulazione in paesi che si connotano in genere per un livello strutturalmente più basso di investimenti rispetto a quelli dei paesi del centro. Ma l’effetto certamente più importante è stato quello di incidere sul volume di spesa pubblica che questi paesi potevano effettuare. In un’area dove gli accordi di Maastricth prevedono vincoli stringenti per tutti i paesi in termini di rapporto deficit-prodotto interno lordo, é evidente infatti che, a parità di spesa, una maggior quota di interessi ha implicato necessariamente una minore spesa pubblica primaria.

In sostanza, le autorità di governo economico dei paesi della periferia europea si sono trovate di fronte al problema di misurarsi con una crescita economica strutturalmente più bassa di quella dei paesi del centro. Un problema pressoché impossibile da risolvere, date le regole. Anche ammettendo infatti che un paese avesse deciso di non tener conto dei vincoli europei, e avesse sviluppato politiche di intervento volte a sostenere la crescita nell’immediato attraverso spesa pubblica, sperando di attivare un percorso di crescita di medio, lungo periodo tale da far fronte ai maggiori oneri di interessi futuri, si sarebbe trovato a fare i conti con le reazioni dei mercati. Mercati che, attraverso le società di rating, avrebbero segnalato il maggior rischio connesso con questo tipo di scelta, peraltro contraria alla saggezza convenzionale del modello, generando come conseguenza una ulteriore e immediata penalizzazione sul piano dei tassi di interesse.

L’unica strada che è rimasta percorribile per le autorità di governo dei paesi deboli europei è stata quella suggerita dalle istituzioni economiche. E cioè quella di sviluppare interventi strutturali volti a ridurre le distanze tra i paesi forti e quelli deboli. Una ricetta tanto suggestiva quanto nei fatti impraticabile. Non si vede infatti come sarebbe possibile intervenire con successo, e nel breve periodo, su diversità che hanno una sedimentazione storica e di lungo periodo. Con tutte le difficoltà ulteriori che derivano dal fatto che questo “aggiustamento” dovrebbe essere condotto in un contesto di profonda recessione e nel quale tutti i paesi europei (e non), anche quelli del centro, stanno facendo lo stesso tipo di politiche volte al miglioramento delle proprie posizioni competitive. In pratica, al problema della coesistenza, e possibilmente della convergenza in Europa tra realtà storicamente diverse e a un differente livello dello sviluppo, la risposta che è venuta dalle regole, prima ancora che dalla politica europea, è stata quella di negare la possibilità della diversità.

Va sottolineato che il fatto che l’unica via che è stata lasciata apparentemente aperta ai paesi della periferia sia stata proprio quella che sostanzialmente non era percorribile e cioè quella di eliminare, in tempi che potessero essere apprezzati dai mercati finanziari, le diversità con i sistemi economici del centro, ha una rilevanza in sé sul piano culturale. E questo perché, ancora una volta all’interno di queste regole e coerentemente con esse, la debolezza dei deboli viene trasformata in colpa, in inadeguatezza e la forza economica diventa una virtù da additare come un modello, sia pure palesemente irraggiungibile. Con le conseguenze immaginabili non solo sulla cultura della solidarietà all’interno dei paesi europei, ma anche sulla credibilità della politica nei paesi della periferia.

Ma il problema delle autorità di governo dei paesi della periferia non è stato solo quello di dover accettare di crescere strutturalmente meno per l’effetto combinato dei minori investimenti e della minore spesa pubblica consentita dai tassi di interesse relativamente elevati. La questione è stata anche quella che l’hanno dovuto fare senza doverne pagare le conseguenze. Sono state costrette, in altre parole, a sviluppare, nel breve periodo, quelle che sono state chiamate “politiche di risanamento”, cioè politiche di contenimento della spese volte a rimettere i conti pubblici in ordine. Cioè politiche di riduzione del debito pubblico.

E’ possibile che questo tipo di politiche siano state portate avanti perché la coscienza del fatto che esse non potevano avere un sostanziale successo sia stata meno diffusa di quanto sarebbe stato necessario. Su questo la cultura ha probabilmente giocato un suo ruolo. Ma è anche vero che mostrare di non voler interrompere i meccanismi in atto, accettare quindi una crescita sistematicamente più bassa, sarebbe stata, da parte dei paesi deboli, una scelta per certi versi anche più costosa. Non intraprendere le strade del “risanamento”, come si definiscono quelle suggerite dalla cultura del modello attuale di sviluppo, avrebbe voluto dire, infatti, ratificare la propria debolezza e pagare quindi nell’immediato il costo di un peggioramento ulteriore – o di un non miglioramento - delle valutazione fatte dai mercati finanziari sullo stato del paese. Al di là delle intenzioni di chi le ha portate avanti, queste politiche, così come quelle che vanno sotto il nome di “riforme strutturali” hanno trovato la loro giustificazione più che nella loro efficacia di lungo periodo, come segnali di breve periodo mandati ai mercati; il segnale, per essere più espliciti, che si stava facendo quello che i mercati stessi ritenevano giusto fosse fatto, anche se socialmente costoso. E quindi per evitare il peggioramento del rating, l’ampliamento degli “spread” ed i maggiori costi connessi con questo ampliamento in termini di conti pubblici.

Il problema sta nel fatto che, anche se queste politiche hanno il pregio di avere effetti positivi nel breve periodo è vero anche che:

  • hanno anche il difetto di non poter essere risolutive, almeno non nei tempi della politica14. Questo implica che quando, con il passare del tempo, l’effetto annuncio si esaurisce e riappaiono i problemi, i governi sono costretti a proporre una nuova dose dello stesso tipo di politiche con il solo obiettivo di riuscire a mantenere bassi gli “spread”;

  • sono molto costose in termini sociali. Perché riducendo la spesa pubblica indeboliscono il tessuto connettivo dello stato sociale, mettendo in discussione i fondamenti solidaristici delle società europee. In sostanza, per evitare di cadere in una spirale di costi economici che non si vede come possa essere interrotta, la politica è stata costretta a cadere in una spirale di costi sociali i cui effetti saranno tanto più devastanti quanto più essa si prolungherà.

Quello che si vuol dire è che, a regole date, e per governi politicamente deboli come quelli ormai di tutti i paesi mediterranei e quindi incapaci di imporre riflessioni più generali sul piano delle regole, l’unica strada realmente aperta alla politica di intervento è stata quella di muoversi in direzione delle cosiddette riforme di struttura e di contenimento della spesa pubblica. Sapendo di esporre la società dei propri paesi a disoccupazione e tensioni sociali crescenti ma non pienamente coscienti del fatto che gli effetti delle politiche restrittive non potranno mai essere nel lungo periodo quelli sperati. E probabilmente ancora meno coscienti del fatto che gli effetti di queste politiche si vanno a sommare con quelli dei meccanismi che, come abbiamo visto, stanno già strutturalmente penalizzando le fasce più deboli della società in tutti i paesi ma soprattutto in quelli della periferia. Paesi che, in altre parole, stanno pagando un prezzo non solo in termini di minor sviluppo ma anche in termini di un crescente impoverimento di fasce non più marginali della popolazione. Impoverimento che, con le tensioni sociali che ne conseguono, non rappresentano certo il tessuto sul quale può crescere una politica lungimirante europea.

  • 5 - La crisi e la cultura economica

E’chiaro che fino al momento in cui la politica considererà il rigore l’unica strada per uscire dalla crisi, la possibilità che si riesca ad interrompere questo processo di allontanamento tra i paesi e tra gruppi sociali all’interno di ciascun paese è relativamente ridotta. Fino a che non ci sarà una piena coscienza che le “regole dell’economia” hanno attivato meccanismi perversi di divaricazione tra i paesi e che è sui meccanismi che si deve intervenire e non sui loro effetti, è difficile pensare ad una sopravvivenza dell’area dell’Euro. Non possono vivere con una stessa moneta paesi che sono sempre più diversi tra loro. Dunque siamo di fronte ad un problema che è essenzialmente un problema di cultura politica e prima ancora di cultura economica.

Ora, come si accennava in precedenza, all’interno di un modello di sviluppo la cultura economica gioca un ruolo certamente non secondario. Anzi, un modello di sviluppo e la cultura ad esso collegata possono essere considerati due facce di una stessa medaglia perché le regole creano le condizioni di fondo per il buon funzionamento del modello, mentre alla cultura spetta il ruolo di creare le condizioni soggettive perché il modello funzioni. In primo luogo perché la cultura costituisce il principale strumento attraverso il quale gli interessi che stanno dietro le regole riescono ad avere una loro legittimazione; in secondo luogo perché la cultura stessa svolge la funzione di lubrificante del modello di sviluppo, incidendo sui comportamenti sociali ed indirizzandoli nelle direzioni coerenti con le regole. Si pensi al riguardo al ruolo che ha avuto l’insieme delle convinzioni intorno alle quali si è costruito lo sviluppo negli ultimi decenni; insieme di convinzioni che, significativamente, è stato in tutti questi anni identificato come l’Washington Consensus.

Per quel che riguarda il primo livello, la cultura deve svolgere il ruolo di rafforzare la convinzione che gli interessi che, in maniera più o meno trasparente, stanno dietro le regole non sono l’espressione di uno specifico progetto politico; gli interessi di parte, in altre parole, non devono essere percepiti come tali ma devono, per quanto possibile, apparire coincidenti con l’interesse generale. Da questo punto di vista, ovviamente, il miglior punto possibile di arrivo è quello di far apparire le regole come espressione ultima di leggi naturali che, come tali, non possono essere messe in discussione. Un’operazione culturale questa che è strettamente legata al secondo ruolo che ha la cultura economica all’interno di un modello di sviluppo, che è poi quello di spingere gli individui verso certi comportamenti e non altri. La maggioranza delle persone si convincerà della validità assoluta delle regole quanto più la cultura economica sarà stata capace di elaborare una visione del mondo capace di stabilire un rapporto di fiducia tra gli individui da un lato e lo specifico modo di essere del sistema economico dall’altro.

Per approfondire la questione, occorre notare in primo luogo che quando si parla di fiducia si possono intendere anche cose abbastanza diverse tra loro. C’è una fiducia che si stabilisce nei rapporti tra le persone, che è espressione di rapporti di lunga durata e che ha quasi sempre una sua base nell’esperienza che si è accumulata nel tempo; una fiducia che si può quindi definire “cognitiva”15. Quella di cui si è parlato in precedenza non è questo tipo di fiducia; è di altro tipo, o meglio, di altri due tipi. La prima fiducia alla quale si fa riferimento è quella nel fatto che le regole che ci si è dati siano le migliori possibili. E’ quella che viene chiamata “fiducia sistemica”. La seconda è invece quella che si ha nella capacità di comprendere quanto sta accadendo e che, da alcuni autori viene indicata come “fiducia nella fiducia” perché in qualche modo costituisce la base della fiducia sistemica. In sostanza la “fiducia nella fiducia” riguarda la stessa cultura economica. E’ la fiducia che si forma intorno alle chiavi di lettura che si utilizzano; che rafforza la convinzione che le conoscenze economiche di cui si dispone sono quelle giuste perché mette in grado gli operatori di sapere e capire quello che può succedere in futuro, di avere quella capacità di previsione che è essenziale per poter fare le scelte più opportune in un contesto, quello economico, in cui il tempo gioca un ruolo cruciale.

Ora, apparentemente la fiducia sistemica e la fiducia nella fiducia nascono da retroterra differenti. La prima é il frutto di un processo che agisce sulla componente che si può definire “emotiva”. La fiducia di vivere nel migliore dei mondi possibile, la fiducia sistemica, non può avere infatti che un piccolo sostegno nell’esperienza e nella razionalità. La fiducia nella capacità di capire il mondo, viceversa, dovrebbe essere l’espressione finale di esperienze che si accumulano col tempo. Si ha fiducia nella propria capacità di capire i meccanismi economici, in altre parole, perché si è sperimentato che ciò che si è stati in grado di prevedere, e ciò che si è previsto, si è poi verificato effettivamente.

Se si approfondisce la questione per quel che riguarda la dimensione economica, tuttavia, la distinzione tra i due tipi di fiducia è meno netta, anche se i soggetti coinvolti nella creazione dei due tipi di fiducia sono diversi. Per la costruzione del primo tipo di fiducia è decisivo il ruolo delle istituzioni nazionali ed internazionali che devono creare la fiducia attraverso tutta una serie di politiche delle quali non è il caso di parlare in queste pagine ma che hanno significativamente a che fare con la cultura economica e che devono agire sulla componente emotiva di questa fiducia. Per avere un’idea di quello che si vuol dire basti pensare a come si è creata la fiducia nel mercato, per come lo si definisce ora.

Per quel che riguarda la fiducia nella capacità di capire il mondo che, come detto, si costruisce a partire dall’esperienza che accumulano gli operatori economici, a guardare le cose più da vicino ci si può accorgere come la componente emotiva continui a giocare un ruolo importante. Bisogna infatti tener conto del fatto che, in economia, le previsioni, in particolare quando sono largamente condivise, tendono ad autoavverarsi. Se gli operatori si aspettano che, ad esempio, un prezzo cresca, quello che succederà è che si attiveranno comportamenti che faranno crescere effettivamente quel prezzo. In sostanza, c’è un rapporto abbastanza stretto tra le aspettative e ciò che accade. Ma ad una sola condizione, e cioè che le aspettative siano ampiamente condivise. E dunque se tutti, o quasi tutti gli operatori, sono convinti che qualcosa succederà, quella determinata cosa si verificherà effettivamente, costituendo un importantissimo strumento di rafforzamento nella convinzione di capire il mondo. Della fiducia nella propria fiducia sistemica, appunto.

Quanto si è appena detto può aiutarci a capire il rapporto tra cultura economica e fiducia, ma spiega contemporaneamente perché non sia possibile che possano convivere, nel lungo periodo, culture economiche differenti. Un modello riesce a funzionare pienamente solo quando la propria cultura riesce a diventare di fatto l’unica condivisa e l’unica utilizzata dagli operatori economici, relegando le altre al dibattito accademico o a quello tra specialisti. Questo ci fa capire perché a partire dagli anni quaranta e fino agli anni settanta anche gli economisti liberisti si sentivano costretti a dichiararsi keynesiani; e spiega anche perché, sul piano dei fatti, la costruzione del welfare state sia stata fatta anche, e forse soprattutto, dai liberali. E perché una larghissima parte della cultura economica sia diventata liberista negli ultimi 20-30 anni; e perché, ancora sul piano dei fatti, i partiti socialdemocratici europei non si siano distinti particolarmente da quelli conservatori dal punto di vista della politica economica.

  • 6 - Osservazioni conclusive

Quello che è meno scontato è invece il fatto che le regole e le istituzioni internazionali non solo non hanno svolto alcun ruolo nell’attenuare queste diversità, nel sostenerle in un percorso di cambiamento e di convergenza, ma, al contrario, hanno svolto negli ultimi decenni e stanno svolgendo il ruolo di approfondire queste diversità, e, questione non secondaria, di consolidarle anche nelle coscienze dei popoli europei. E così le situazioni di relativa debolezza presenti nel vecchio continente si sono trasformate in giudizi morali, in colpe. Riportando indietro le lancette della storia, creando una nuova cultura dell’esclusione e finendo anche col giustificare, agli occhi soprattutto delle opinioni pubbliche dei paesi del centro, gli atteggiamenti punitivi verso le aree dell’Europa più deboli che sono derivati dall’applicazione delle regole economiche. Un risultato probabilmente non in contrasto con gli interessi e la visione del mondo che stavano dietro queste regole, cioè quella del binomio Thatcher Reagan, ma certamente in contrasto con lo spirito e le finalità che si proponevano i padri fondatori europei.

Come è stato fatto notare17, la stessa politica recente dell’Unione Europea si è adeguata allo spirito di quelle regole. Da un lato ha imposto su base obbligatoria, come nel caso del trattato fiscale, l’aumento dell’integrazione negativa, che si è sviluppata attraverso l’abbattimento delle barriere economiche tra i paesi. Dall’altro ha avuto un atteggiamento diverso per quel che riguarda l’integrazione positiva che si è scelto di portare avanti solo su base volontaria, depotenziando in questo modo quella creazione di diritti sociali capaci di controbilanciare il mercato.

Se dunque l’Europa non può che partire dall’accettazione delle diversità delle realtà che la compongono per riprendere un percorso comune, occorre altrettanta consapevolezza del ruolo divaricante che stanno giocando le istituzioni che regolano il sistema economico internazionale. L’Europa per potersi consolidare ha bisogno di regole che siano coerenti con il suo progetto. Apparentemente la cultura che attribuisce la responsabilità degli squilibri ai più deboli sembra essere troppo diffusa a livello popolare per pensare che esista la possibilità che la politica possa intraprendere altre strade18. Ma è proprio la debolezza sostanziale del modello, la sua incapacità di funzionare e di dare risposte soddisfacenti ai problemi che si pongono, la sua incapacità di dare prospettive socialmente accettabili che può attivare quel processo di scollamento tra le regole da un lato e la cultura e la politica dall’altro che può rendere possibili i cambiamenti.

Non ci si deve dimenticare che ogni modello di sviluppo e quindi anche l’attuale, proprio per il ruolo che gioca la cultura, non può che essere potenzialmente molto instabile. La “fiducia sistemica”, ed entro certi limiti anche la fiducia di comprendere il funzionamento dell’economia, proprio perché prevalentemente emotive, o ci sono o non ci sono e quindi i cambiamenti difficilmente possano essere graduali. Il fatto che vi sia una apparente vischiosità al cambiamento è legata alle fisiologiche inerzie culturali ma anche al fatto che i comportamenti delle istituzioni continuano a riproporre la logica del vecchio modello - che è quella coerente col proprio ruolo istituzionale - come se fosse l’unica possibile.

Ma questo non significa affatto che i cambiamenti non avverranno. Significa solo che una cultura economica che ha un legame così stretto con la dimensione fiduciaria può cambiare solo nel momento in cui la distanza tra ciò che succede e ciò che ci si aspettava che succedesse diventa talmente ampia da essere assolutamente non equivoca. O quando le fasi di transizione diventano lunghe al punto da imporre costi sociali difficilmente sopportabili. Questo è esattamente quello che sta accadendo in Europa. Le regole del modello centrato sulla finanza sta svuotando di contenuti l’Europa sociale, sta indebolendo gli elementi di coesione all’interno dei popoli e tra i popoli. In un processo cumulativo che va fermato in qualche modo.

La questione dell’euro può essere l’occasione per riaprire un confronto serio sull’Europa. Se le conseguenze dell’esistenza dell’euro sono quelle che si stanno vivendo, porsi la questione della permanenza dei paesi della periferia europea nell’euro non solo è assolutamente necessario, ma è doveroso. E’ doveroso perché alle attuali condizioni, a regole e cultura date e visti i processi di divaricazione cumulativa che si sono avviati, l’uscita dalla moneta unica è solo questione di tempo. Con tutte le conseguenze drammatiche che l’interruzione di un processo politico di questa importanza potrebbe comportare. Discutere dell’euro potrebbe essere l’unico modo per salvarlo.

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NOTE

1 Si veda, a questo proposito, Caffe F., L’umanesimo del welfare, in Micromega, n. 1, 1986.

2 Polany K., La storia economica e il problema della libertà, in K. Polany, Per un nuovo occidente, scritti 1919 – 1958, Il Saggiatore, Milano, 2013.

3 In queste pagine facciamo nostra da un lato l’idea che per capire il processo economico occorra guardare l’interazione tra istituzioni economiche e non economiche. Dall’altro consideriamo gli stati nazionali, e in particolare quelli dotati di maggior potere, i principali attori di questi processi. Si veda, a questo proposito K. Polany, L’economia come processo istituzionale, in K. Polany, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, 1978. Le analisi sul piano internazionale si rifanno alle posizioni da un lato di quell’approccio che va sotto il nome di economia politica internazionale e, dall’altro, delle chiavi di lettura portate avanti dala cosiddetta scuola “sistemica”. Tra i primi vanno ricordati i contributi di S. D. Krasner, International Regimes, Cornell University Press, Ithaca,1983, ma anche l’interessante rassegna contenuta in P. Katzenstein, R. O. Kehane, S. D. Krasner, International Organization at Fifty: Exploration and Contestation in the Study of World Politics, International Organization, 52, n. 4, autumn, 1998. Tra i secondi si possono ricordare i lavori di S. Amin et al., Dynamics of Global Crisis, MacMillan, London, 1982; G. Arrighi, B. J. Silver et al., Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1999; I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, Roma, 2003.

4 Cfr. K. Polany, L’economia come processo istituzionale, in K. Polany, C. M. Arensberg, H. W. Pearson, Traffici e mercati negli antichi imperi, op. cit., pag. 279 e segg.

5 Cfr. R. Gilpin, Politica economica globale, Università Bocconi Editore, Milano, 2003.

6 Ovviamente stiamo parlando in termini generici dello sviluppo, prendendo come riferimento immediato il benessere materiale individuato dal PIL. A voler essere meno semplicistici, i modelli economici andrebbero giudicati anche da un lato per la “qualità” dello sviluppo – misurata secondo un qualche parametro di giudizio – e, dall’altro, per la capacità delle regole di garantire le condizioni dello sviluppo nel lungo periodo. D’altra parte, il solo fatto che ogni modello di sviluppo abbia una sua specifica base sociale, ci fa capire cosa si intenda per “qualità” dello sviluppo e come il termine sviluppo possa significare molte cose diverse.

7 Una interpretazione del cambiamento della politica USA che si è delineata all’inizio degli anni ottanta si può trovare in P. Gowan, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996.

8 Secondo l’ordoliberismo tedesco, un liberismo che prevede una forte presenza dello stato ma che tradizionalmente vede nella democrazia un ostacolo al funzionamento del mercato, l’unico obiettivo che le regole devono porsi è quello di garantire la stabilità monetaria; il livello insufficiente della domanda viene corretta con politiche di flessibilità. Su questo punto si veda, in particolare D. Dullien, U. Guérot, The Long Shadow of Ordoliberalism: Germany’s Approach to the Euro Crisis, Policy Brief, European Council of Foreign Relations, February, 2012, pp 1 – 16. .

9 Su questo punto si veda, in particolare, A. Simonazzi, F. Vianello, Italy towards European Monetary Union (and Domestic Socio-economic Disunion), in B. H. Moss, J. A. Mitchie (eds.), The Single European Currency in National Perspective. A Community in Crisis?, MacMillan, London, 2009, pp. 105-124.

10 Su questi temi può essere utile leggere V. Maffeo, Il ruolo della BCE nella crisi economica europea, Studi Economici, n° 12, 2012. Secondo alcune analisi, il sistema bancario italiano approfittò della nuova situazione creatasi con il “divorzio” tra Banca Centrale e Tesoro, facendo aumentare, nel corso degli anni novanta, i tassi di interesse al di là del necessario. Cfr. N. Galloni, Misteri dell’euro, misfatti della finanza, Rubettino, Catanzaro, 2005. Quello che è certo è che i tassi salirono anche per la necessità di fare affluire capitali dall’estero; in sostanza si dovette pagare agli investitori stranieri un premio sul rischio di cambio.

11 Come è noto, la BCE, a differenza della FED ha un solo obiettivo nel suo statuto che é quello di controllare l’inflazione. Un obiettivo tra l’altro difficile da cambiare. Se si volesse infatti intervenire sul suo statuto occorrerebbe rivedere un trattato internazionale con l’accordo di tutti i paesi.

12 Su questi temi si veda F. Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, pagg. 311 e segg. .

13 Sul ruolo delle società di rating e sui possibili conflitti di interesse impliciti nel loro ruolo si veda il recente volume di P. Gila, M. Miscali, I signori del rating, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. Si veda anche F. Partnoy, The Paradox of Credit Ratings, University of S. Diego Law & Economics Research Paper, n° 20, 2001.

14 A questo proposito si veda, ad esempio, quanto riportato in L. Napoleoni, Democrazia vendesi. Dalla crisi economica alla politica delle schede bianche, Rizzoli, Milano, 2013, pagg. 124 e segg. .

15 Su questi temi si veda B. A. Misztal, Trust in Modern Society, Polity Press, Cambridge, 1996; o anche A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, Bologna, Il Mulino, 1998; R. Schiattarella, Fiducia e crisi finanziaria, Parole Chiave, 2009, 42, Carocci, Roma, pagg. 35-52.

16 Sen A., Austerity is Undermining Europe’s Grand Vision, in The Guardian, 2012, July, 03.

17 Wickham J., Alle radici della crisi europea, in Economia & Lavoro, XLVII, 1, 2013.

18 Sul ruolo degli interessi costituiti nelle inerzie culturali si veda J. Elster, Ulisse e le sirene, Il Mulino, Bologna, 1983.