• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Dopo questa guerra

La guerra contro l'Iraq, l'attacco ai suoi abitanti, l'occcupazione delle sue città avrà fine, prima o poi. Il processo è già cominciato. Si vedono i primi segni di ammutinamento nel Congresso americano. Iniziano ad apparire sulla stampa i primi editoriali che chiedono il ritiro dall'Iraq. Il movimento contro la guerra continua a crescere, lentamente ma con costanza, in tutto il paese.

I sondaggi mostrano che oggi il paese è decisamente contrario alla guerra, e all'amministrazione Bush. La realtà è ormai sotto gli occhi di tutti e le truppe dovranno tornare a casa.

E mentre lavoriamo con crescente determinazione perché questo succeda, non dovremmo anche pensare oltre questa guerra? Non dovremmo iniziare a pensare, anche prima della conclusione di questo vergognoso conflitto, a metter fine alla nostra dipendenza dalla violenza e a utilizzare l'immensa ricchezza del nostro paese per i bisogni dell'umanità? In poche parole, non è forse ora di coo minciare a parlare della fine della guerra — non di questa guerra o di quella guerra — ma della guerra in sé? Forse è arrivato il momento di scrivere la parola fine alla guerra, e portare così la razza umana sulla strada della salute e della guarigione.

Ho sentito spesso ripetere che non ci libereremo mai della guerra perché è un istinto innato nella natura umana. Eppure nella storia non troviamo popoli che abbiano deciso spontaneamente di muovere guerra ad altri popoli.

Vediamo invece che i governi devono fare grandi sforzi per mobilitare la propria gente. Devono convincere i soldati promettendo soldi e scolarizzazione, devono far credere a giovani senza molte prospettive che la carriera militare sia una buona strada per ottenere rispetto e una posizione sociale migliore. E se queste promesse non funzionano, i governi devono ricorrere alla costrizione, obbligando i giovani al servizio militare e minacciandoli con il carcere in caso di disobbedienza.

I governi devono persuadere i giovani e le loro famiglie che anche se il singolo soldato può morire, anche se può perdere le braccia o le gambe, o diventare cieco, è per una causa nobile, per Dio, per la Patria. Se guardiamo all'interminabile sequenza di guerre del secolo scorso non troviamo un popolo che voglia la guerra, ma piuttosto popoli che ci si oppongono strenuao mente finché non vengono bombardati da appelli non a un istinto assassino ma alla volontà di fare del bene, di diffondere la democrazia e la libertà o di abbattere un tiranno.

Woodrow Wilson trovò dei cittadini così riluttanti a invischiarsi nella carneficina della Prima guerra mondiale che durante la sua campagna presidenziale del 1918 promise di starne fuori: «There is such a thing as a nation being too proud to fight», «Siamo una nazione troppo orgogliosa per metterci a combattere». Ma dopo essere stato eletto chiese e ricevette dal Congresso una dichiarazione di guerra. Fu tutto un susseguirsi di slogan patriottici, vennero approvate leggi per mettere in prigione i disertori, e gli Stati Uniti si unirono al massacro che avveniva in Europa.

Nella Seconda guerra mondiale, ci fu un forte imperativo morale che ancora oggi riecheggia tra molte persone in questo paese e fa sì che quella guerra abbia tuttora la reputazione di "guerra giusta". Bisognava sconfiggere la mostruosità del fascismo: fu quella convinzione che mi spinse ad arruolarmi nella Air Force e a partecipare a operazioni di bombardamento aereo sull'Europa.

Solo dopo la fine della guerra cominciai a mettere in discussione la purezza di quella crociata morale. Sganciando bombe da otto chilometri d'altezza non avevo mai visto esseri umani, non avevo mai udito le loro grida, non avevo mai scorto nessun bambino smembrato. Ma ora pensavo a Hiroshima e Nagasaki, ai bombardamenti di Tokyo e di Dresda, alla morte di 600 mila civili in Giappone e di altrettanti in Germania.

Giunsi a una conclusione sulla psicologia, mia e degli altri combattenti: una volta deciso, all'inizio, che noi eravamo i buoni e gli altri erano i cattivi, una volta fatto questo calcolo semplice e semplicistico, non avevamo più da pensare a nulla. Potevamo commettere crimini indicibili, ma andava bene così.

Cominciai a pensare alle motivazioni degli alleati occidentali e della Russia di Stalin. Mi chiedevo se si preoccupassero più del fascismo o di mantenere i propri imperi e il proprio potere, e se fosse per questo che avevano priorità strategiche più importanti del bombardare le linee ferroviarie che portavano a Auschwitz. Dei 6 milioni di ebrei uccisi (o lasciati morire?) nei campi di sterminio, solo 60 mila furono salvati dalla guerra — l'uno per cento.

Un mitragliere di un'altra squadra, un avido lettore di storia di cui divenni amico, mi disse un giorno: «Questa è una guerra imperialista. I fascisti sono cattivi, ma noi non siamo tanto meglio». Non potevo, allora, accettare la sua opinione, ma mi rimase impressa.

La guerra, mi dissi, crea subdolamente una moralità comune a tutte le parti in gioco.

Avvelena tutti quelli che ne vengono coinvolti, per quanto siano diversi tra loro, e li trasforma in assassini e torturatori, come vediamo anche oggi. Finge di voler rovesciare dittatori, e magari lo fa, ma le persone che uccide sono le stesse vittime di quegli aguzzini. Sembra poter purificare il mondo dal male, ma ciò non succede perché per sua stessa natura la guerra crea ancora più malvagità. La mia conclusione fu che la guerra, come la violenza in generale, è una droga: provoca una facile euforia, l'ebbrezza della vittoria, ma questa svanisce presto e lascia posto alla disperazione.

Qualsiasi cosa si possa dire della Seconda guerra mondiale nel tentativo di capirne la complessità, gli eventi che seguirono — le guerre di Corea e del Vietnam — erano così lontani dalla minaccia che la Germania e il Giappone avevano rappresentato per il mondo che quei conflitti potevano essere giustificati solo appellandosi all'aura della "guerra giusta".

L'isteria di massa verso il comunismo portò al maccartismo in patria e a interventi militari — diretti o meno — in Asia e in America Latina, giustificati da una "minaccia sovietica" esagerata al punto giusto per mobilitare la popolazione.

Il Vietnam si rivelò un'esperienza illuminante per l'opinione pubblica americana, che nell'arco di alcuni anni imparò a non farsi più ingannare dalle bugie che erano state dette per giustificare un enorme spargimento di sangue. Gli Stati Uniti non poterono che ritirarsi dal Vietnam, e non fu la fine del mondo. La metà di un piccolo stato del sud-est asiatico era ora riunita all'altra sua metà, comunista e 58 mila vite di americani e i milioni di vite vietnamite erano state sacrificate per impedirlo. La maggioranza degli americani fini per essere contraria a quel conflitto e diede vita al più grande movimento contro la guerra nella storia del paese.

Il conflitto del Vietnam fini con un'opinione pubblica stanca della guerra. Una volta diradata la nebbia della propaganda, gli americani tornarono a uno stato più naturale. I sondaggi di opinione mostravano che gli americani erano contrari a mandare truppe in giro per il mondo, qualunque fosse il motivo.

L'establishment era in allarme. Il governo decise di affrontao re quella che chiamò la "sindrome del Vietnam": l'opposizioo ne all'interventismo militare era una malattia e doveva essere curata. Bisognava allontanare il popolo americano da queste posizioni malsane con un controllo più stretto dell'informazio ne, con l'eliminazione della leva obbligatoria e intraprendendo guerre veloci contro avversari deboli (Nicaragua, Panama, Iraq) per non dare il tempo di organizzarsi al movimento pacifista.

La fine della guerra del Vietnam permise al popolo americano di liberarsi dalla "sindrome della guerra", una malattia che non è naturale per l'essere umano.

Ma il popolo avrebbe potuto essere infettato ancora, e gli attentati dell'11 settembre hanno dato al governo l'occasione di farlo.

Il terrorismo è diventato la giustificazione della guerra. Il tero rorismo è un fenomeno che fa paura, in tutto il mondo. Ma la guerra non lo può fermare, perché la guerra stessa è terrorismo e produce rabbia e odio. Di questo, oggi, siamo tutti testimoni. La guerra è un modo per non andare alle radici del terrorismo e gli Stati Uniti l'hanno scelta perché occuparsi delle cause ano ziché dei sintomi richiederebbe un cambiamento radicale della propria politica.

La guerra in Iraq ha messo a nudo tutta l'ipocrisia della "guerra al terrorismo". Non credo che il nostro governo riuscirà nuovamente a fare quello che fece dopo il Vietnam — a preparare un'altra ricaduta nella violenza e nel disonore. Una volta finita la guerra in Iraq, e curata la sindrome guerrafondaia, avremo una grande opportunità per rendere questa guarigione permanente. La mia speranza è che il ricordo della morte e della vergogna sia così intenso che il popolo degli Stati Uniti saprà dare ascolto a quel monito che anche il resto del mondo, sollevato da anni senza guerre, potrà capire e condividere.

Potremmo essere vicini a una nuova intesa mondiale: la guero ra, definita come l'uccisione indiscriminata di un enorme nuo mero di persone, non può più essere accettata, qualsiasi sia il suo motivo. La tecnologia della guerra ha raggiunto il punto in cui, inevitabilmente, il 90% delle vittime sono civili, molti dei quali bambini: ogni guerra, quindi, quali che siano le parole per giustificarla, è una guerra contro i bambini.

Il governo degli Stati Uniti, e di fatto i governi di tutto il mondo, vengono in questi giorni smascherati come inaffidabili. Non si può affidare loro la sicurezza degli esseri umani, o quella del pianeta, o la salvaguardia dell'aria, dell'acqua, delle ricchezze naturali, o la sconfitta della povertà, delle malattie o la protezione dalla crescita allarmante dei disastri naturali, che affliggono una così grande parte dei 6 miliardi di abitanti della terra.

Certo, sono i governi che hanno il potere, che monopolizo zano la ricchezza, che controllano l'informazione. Ma questo potere, per quanto irresistibile sia, è anche fragile. Dipende dalla remissività e dall'obbedienza della gente. Qualora questa obbedienza venisse meno, anche i poteri più forti — governi armati, ricche multinazionali — non  potrebbero più continuare le loro guerre o i loro affari. Gli scioperi, i  boicottaggi, la non-cooperazione possono rendere inerme anche la più arrogante delle istituzioni.

Il governo più potente del mondo, quello degli Stati Uniti, ha dovuto ritirarsi dal Vietnam quando non ha più potuto contare sulla lealtà dei suoi militari e sul sostegno dei suoi cittadini. C'è un potere più grande di quello delle armi e della ricchezza. A tratti, nella storia, si è reso visibile per fermare le guerre e spodestare le dittature. Forse è arrivato il momento di porre davvero fine alla guerra e di portare l'umanità sulla strada della guarigione e della salute.

Ho citato Einstein che ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra rispose: «La guerra non può essere umanizzata. Può solo essere abolita». Le verità potenti devono essere ripeo tute finché si radichino nelle nostre menti, finché le parole si diffondano, finché diventino un mantra ripetuto in tutto il mondo, finché il loro suono diventi assordante, finché finalmente quelle parole riescano a sovrastare il rumore delle armi, dei missili e degli aerei.