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Scegliere la pace (Johan Galtung)

Pubblichiamo questo intervento di Johan Galtung in occasione della presentazione, insieme a Danilo Dolci,del libro "Scegliere la pace", pubblicato dalle edizioni Esperia. Il volume, unico nel suo genere, è la stesura del lungo dialogo sulla pace che si è svolto tra Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale, e Johan Galtung, fondatore del Peace Research Institute.
Entrambi gli interventi, di Danilo Dolci e Galtung, sono pubblictai sul sito:

http://www.inventareilfuturo.com/wp-content/uploads/2008/07/scegliere-la-pace.pdf, dal quale li abbiamo tratti
Nel suo intervento precedente, Danilo Dolci ha detto una cosa importantissima quando ha spiegato la linea che collega Gandhi al Budda. Gandhi è stato ucciso da un bramino ortodosso di una città vicino Bombay che forse vedeva il Mahatma come un traditore dell’Induismo.
Gandhi era un "inventore sociale", ma molte sue idee si potevano già trovare nel Buddismo classico.
Un altro "inventore sociale" è Daisaku Ikeda, e, dal momento che lui non può esser presente, ho il dovere, come coautore del nostro libro di dialoghi, di tentare di rappresentarlo in questa sede. Daisaku Ikeda è un "fenomeno" molto simile a quelli che si sono manifestati durante il Rinascimento fiorentino: è un uomo intelligentissimo, con moltissime potenzialità che ha saputo sviluppare molto bene. Ha incontrato e sta incontrando alcune difficoltà con le autorità giapponesi, ma le ragioni di tali opposizioni sono relativamente facili da capire.
Il Buddismo mahayana, il Buddismo di Nichiren Daishonin, il Buddismo del Sutra del Loto, il Buddismo della Soka Gakkai e il Buddismo di Daisaku Ikeda, infatti, sono Buddismo antimilitarista che non riconosce la superiorità dello Shintoismo di Stato. Dopo la rivoluzione Meiji, il primo ministro giapponese sosteneva la necessità di avere un Dio più vicino e simile al Dio che avevano in Germania (Got mit uns), di un Dio che potesse sostenere e giustificare anche le tendenze militariste del Giappone. Tsunesaburo Makiguchi, il fondatore della Soka Gakkai, si è opposto a tutto questo e ha pagato la sua scelta con la vita morendo in carcere.
Il secondo presidente Josei Toda lanciò un appello molto determinato contro la bomba atomica: tale appello non era rivolto contro gli Stati Uniti, ma essenzialmente contro le armi nucleari. Il terzo presidente, Daisaku Ikeda, ha seguito e continua a seguire la stessa linea antimilitarista: Ikeda non si oppone allo Stato giapponese, ma a una concezione teocratica dello Stato. Recentemente egli ha incontrato Fidel Castro a Cuba: non per dire a Castro che va tutto bene, ma per avere un dialogo sincero con lui.
Negli anni sessanta Ikeda è uscito dal Giappone per andare in Cina, prima ancora che questa fosse riconosciuta.

Tale iniziativa gli ha comportato l’odio dei circoli governativi giapponesi che lo accusavano di aver rotto l’isolamento della Cina. L’emarginazione e il non-contatto con la Cina era una faccenda molto semplice da sbrigare per i giapponesi perché questi, per tradizione, coltivavano una totale mancanza di rispetto verso i cinesi e i coreani. Ma la Soka Gakkai è un’organizzazione importantissima in Corea e i suoi legami con la Cina sono fortissimi. Lo stesso Daisaku Ikeda per esempio aveva invitato alcuni giovani cinesi a studiare alla Università Soka e, alcuni anni più tardi, uno di questi studenti gli fece da interprete durante il suo incontro con il premier cinese. Questa è politica.

Noi siamo qui a mettere a fuoco i contributi alla pace che ci possono venire dal Buddismo: credo che ci siano quattro elementi da tenere in considerazione:

1) Il concetto di "origine dipendente" (engi in giapponese, codependent origination in inglese). Uno spunto epistemologico estremamente interessante. Engi è un concetto molto semplice: in sintesi afferma che noi viviamo in una "rete" di vita dove tutto e tutti sono collegati da una serie di catene causali che si aprono e si espandono in ogni direzione. Da ciò deriva che tutti condividiamo una responsabilità comune: quindi non è possibile affermare in assoluto che una persona è colpevole e io no. Se lui è responsabile lo sono anch’io.
Invece della parola "colpa", comunque, è meglio usare la parola "responsabilità".

2) Nonviolenza nell’agire, nel parlare e nel pensare (quest’ultima è la più difficile...)

3) Opporsi allo sfruttamento: nel Buddismo si dice esplicitamente: «Non ricevere niente che non ti sia dato volontariamente». Non c’è niente di volontario quando il servo consegna al padrone il 70% del raccolto.

4) Ottimismo. Molto esplicito nel Buddismo mahayana di Nichiren Daishonin, della Soka Gakkai, di Daisaku Ikeda, perché in ogni essere umano c’è un Budda che va manifestato ed è compito di ognuno di noi partecipare a questo lavoro fantastico.

Vorrei tornare al primo punto, quello dell’origine dipendente e porre una piccola domanda: «In che modo si sarebbe potuta evitare la prima guerra mondiale?» È certo un po’ tardi per interrogarsi su questo argomento, ma comunque è una domanda molto importante. Io sono un "lavoratore per la pace", ho 25 anni d’esperienza, e quando affronto una situazione la prima domanda che mi faccio è: «Perché ci troviamo in questa situazione? Avremmo potuto trovare altre soluzioni?».
Quando ho chiesto in Germania come si sarebbe potuta evitare la seconda guerra mondiale, mi sono sempre sentito rispondere: «Uccidendo Hitler quando era ancora giovane». Questa risposta è molto rozza e primitiva per un motivo molto semplice: dietro Hitler c’era già pronta una fila di successori molto più pericolosi di lui. Più pericolosi perché meno fanatici.
Credo che la risposta migliore sia quella relativa alle conseguenze del Trattato di Versailles: quel trattato andava cambiato dopo cinque anni. In questo modo, forse, sarebbe stato possibile evitare la guerra, perché il Trattato di Versailles era l’argomento propagandistico più usato da Hitler.
Quando ho parlato di questo a Oxford, un professore, mosso da una rabbia genuina, si è opposto alla mia tesi dicendo che rivedere il Trattato non avrebbe portato a nulla perché i tedeschi erano gli aggressori colpevoli e i francesi, gli inglesi e gli americani le vittime innocenti. Quel professore e come lui tanti altri vivono e pensano in un modo dicotomico, e questa maniera di affrontare i problemi è totalmente falsa. Preferisco di gran lunga la luce della Buddità. Oggi nelle scienze sociali esiste il System research, la Ricerca dei sistemi, per cui le catene causali sono molto ben conosciute.
Ciò che è interessante è che il Budda già 2500 anni fa lo aveva intuito. Dicendo queste cose non voglio addebitare agli alleati la responsabilità della seconda guerra mondiale, voglio semplicemente affermare che la responsabilità è stata di tutti.

Vediamo ora la situazione del Giappone: come si poteva evitare la guerra nel Pacifico? Il metodo sarebbe stato semplice: ascoltare anche la voce dei militaristi giapponesi, e cercare di capire i loro argomenti. E loro avevano un argomento eccellente: «l’Asia per gli asiatici», ossia «fuori dall’Asia i colonialisti e gli imperialisti occidentali». Dietro questo slogan, però, si nascondeva un altro argomento inaccettabile: l’Asia per il Giappone.

Se i poteri occidentali nel 1930 avessero detto: «Abbiamo un progetto: eliminare il colonialismo dall’Asia.

Dateci dieci anni per smantellare tutto», sicuramente sarebbe sparito il miglior argomento a favore dei militaristi giapponesi. Ma la storia non si può cambiare, e questo esercizio ci serve solo per capire che stiamo tutti nella stessa barca. Questa barca nel Buddismo si chiama karma.
Karma non vuol dire destino, ma indica la situazione in cui ci troviamo e che possiamo cambiare e migliorare.

Qui c’è il punto d’incontro tra la tradizione buddista e la tradizione della ricerca per la pace.
Vorrei ora spiegare tre punti che nascono anche dalla mia personale esperienza, tre capacità da sviluppare per la soluzione dei conflitti. Siano essi conflitti famigliari, conflitti etnici o la guerra del Golfo.

1) Empatia. Fare, cioè, tutti gli sforzi possibili per capire l’altro. E quando dico l’altro penso a più parti, non solo a due. Il teatro dove agiscono gli attori "violenti" non è necessariamente solo il luogo dove si svolge fisicamente una guerra. Gli attori principali della guerra in Yugoslavia, ad esempio, non stanno in Yugoslavia, stanno in Germania, Austria, in Vaticano, a Washington, a Mosca, un po’ a Roma, a Londra. Insomma il 70% sta fuori dalla Yugoslavia e il 30% dentro. Tutti questi attori hanno un punto in comune che va capito (questa è l’empatia): hanno paura cosa eccessiva, ma facile da capire di uno Stato musulmano. Come è possibile evitare questa cosa? Fare un pacchetto di croati e serbi e chiamarlo Bosnia? Ma la Bosnia non esiste, è una illusione che serve a evitare uno Stato musulmano in Europa. Questa dunque è la vera motivazione, ma voi non l’avete mai sentita perché i giornali non ne parlano. Il metodo perciò non è quello di lottare in tutti i modi per evitare un collegamento tra Bosnia e Iran, ma quello di costruire un dialogo tra crisitiani e musulmani. E questo dialogo non c’è mai stato.
Bisogna costruire non una ma diecimila occasioni di dialogo con l’Islam.

2) Fantasia, creatività. È necessario inventare sempre nuove strade. Posso fare un esempio molto semplice: in America Latina ci sono due Stati il loro nome non importa che hanno lottato moltissimo per un territorio. Questo territorio, da una generazione all’altra, cambia di mano. Mi sono trovato a cena con un ex-presidente di uno di questi Stati che mi ha chiesto cosa fare e io gli ho suggerito: «Perché non gestite insieme questo territorio? Perché non fate insieme un aeroporto, una zona di cooperazione economica tra i due paesi, delle fabbriche, un campeggio dove possano venire giovani e una Casa per la negoziazione della pace, non soltanto tra i due paesi, ma per tutta l’America Latina e per tutto il mondo? Un territorio per la pace. Per la pace nel mondo». Lui mi ha risposto: «Non conosco nessun politico in America Latina che abbia mai pensato a questo».

3) Nonviolenza. Evitare cioè i metodi violenti. Io non sono convinto che la nonviolenza di Gandhi funzioni sempre, e per me la parola nonviolenza presenta un’accezione molto più ampia. Sono convinto però che la violenza non funziona mai, perché gli sconfitti escono dalla guerra con una sola idea in testa: vendetta. E anche perché i vincitori escono dalla vittoria con una sola idea in testa: la vittoria è bella, perché non averne una all’anno?

Il nostro mondo che chiamiamo "moderno" ha il monopolio della violenza.
Un proverbio americano che mi piace moltissimo dice: «To he who has a hammer, the world looks a nail. (Se hai un martello, il mondo si presenta come un chiodo)». In altri termini, se tu hai un esercito, tutti i problemi diventano problemi militari. Ma la realtà non è questa: i problemi sono problemi d’identità, di diritti umani, di mutuo rispetto, di giustizia economica e questi non si possono risolvere con la violenza.
 
Un esempio: abbiamo avuto un attentato terrorista in Arabia Saudita e sono morti 19 soldati americani. È stata una cosa terribile. Questo attentato voleva comunicare qualcosa: la popolazione araba desidera che tutti i soldati americani vadano via dall’Arabia. Chiedono anche un referendum e, se gli americani credono veramente nella democrazia, allora è importante ascoltare tali richieste. Ma, a Lione, il gruppo dei Sette i capi degli Stati più importanti nel mondo ha stilato una dichiarazione in quaranta punti contro il terrorismo. Sono quaranta punti di violenza. E per di più fatti da sette capi di Stato.

Immaginiamo invece cosa sarebbe successo se i Sette avessero detto: «Abbiamo un problema, c’è un conflitto in atto, noi siamo totalmente contro il terrorismo, siamo totalmente contro la violenza, allora invitiamoli al dialogo, chiediamo qual è il problema, ascoltiamoli. Possiamo scegliere un posto segreto per incontrarli, senza usare i servizi segreti. Apriamo un dialogo».
Una persona matura avrebbe detto questo. Ma noi abbiamo i Sette che non definirei neanche bambini perché sarebbe un insulto ai bambini. Dove si possono insegnare questi semplici principi generali? Non credo francamente nei Ministeri degli Esteri, in genere lì c’è scarsa empatia e una lunga lista di interessi nazionali. Non c’è creatività, ma burocrazia. Non c’è la nonviolenza, ma il sistema "martello e chiodo".

Allora mi viene da pensare che forse non è valido il sistema-Stato. È troppo radicale questo mio modo di pensare?

Non necessariamente. Abbiamo avuto nella storia europea altre istituzioni relativamente poco valide: l’aristocrazia, ad esempio, con i duelli, la vanità, con l’ideologia dell’onore, con tanta violenza, con la schiavitù, con il colonialismo... Forse anche il sistema-Stato un giorno potrebbe essere ridimensionato, non necessariamente sparire.

Vedo invece nel sistema-Città un avvenire più promettente.
Abbiamo duecentomila città nel mondo. Non conosco nessuna città che abbia un inno nazionale, non conosco nessuna città tedesca che dica di essere uber alles. In generale le città sono più sane: lavorano, si rispettano reciprocamente, hanno un sistema di scambio relativamente buono, non hanno eserciti...

Poi dovremmo guardare con attenzione anche alle organizzazioni popolari. In tutto ce ne sono circa diecimila e moltissime lavorano per i diritti umani, per la protezione dell’ambiente, per lo sviluppo. Molto importanti sono le donne: il 95% della violenza viene dagli uomini. Dunque più potere alle donne, alle organizzazioni internazionali, alle autorità locali, alle città e meno potere allo Stato e forse un po’ di psicoterapia alle nazioni, soprattutto quando pensano di essere investite da un mandato divino. Conosco bene una nazione di questo tipo: era esattamente l’idea di Mussolini, ma l’Italia ne è uscita relativamente bene. Un po’ confusa magari... ma la confusione è sempre preferibile al fascismo. E alla confusione è sempre preferibile uno Stato che si dedica alla Pace.