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Ad Assisi per restituire a Capitini ciò che gli spetta

Tra un anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della marcia Perugia-Assisi fortemente voluta e organizzata da Aldo Capitini. L'importanza dell'evento non ci può, di certo, sfuggire e richiede una seria riflessione anche a livello organizzativo. Spostare i nostri appuntamenti congressuali da Chianciano ad Assisi, in una regione in cui la sinistra si è ormai caratterizzata come regime, avrebbe il significato di un preciso e forte segnale politico. Bisogna cominciare a preparare con un anno di anticipo un grande appuntamento che ridia finalmente a Capitini la centralità politica che gli spetta e rilanci il valore, il senso di una marcia le cui motivazioni sono state nel corso di un decennio distorte, quando non defraudate. Assisi può e deve diventare il luogo da cui lanciare quell'offensiva gandhiana, nonviolenta, capitiniana che ormai non è più possibile procrastinare.

Filosofo anomalo, riformatore religioso, instancabile assertore ed elaboratore di nonviolenza, Capitini è stato occultato e rimosso perché scomodo, non irregimentato, non omologabile e etichettabile, non riconducibile né all'ambito cattolico né a quello marxista.


Introdotto nel 1930 all'insegnamento di Gandhi da Claudio Baglietto, un normalista fuggito dall'Italia, con una borsa di studio, con la scusa di seguire i corsi Heidegger, cominciò da allora a propugnare un'opposizione nonviolenta al regime e proprio per le sue idee, giudicate, nel migliore dei casi, "originali" o "strampalate", fu mandato via nel 1933 dalla Normale di Pisa da un Giovanni Gentile infastidito dal suo vegetarianesimo (che destava scandalo tra gli studenti ) e dal fermo rifiuto d'iscriversi al partito fascista.

Fino al 1968, anno della prematura scomparsa (era nato a Perugia il 23 dicembre 1899, figlio del custode della torre campanaria del palazzo comunale, in una casa, come egli stesso scriverà, all'interno povera ma in una posizione stupenda che dava su orizzonti slargati di rara bellezza), Capitini non si stancò di insistere sulla prefigurazione nonviolenta dei fini da parte dei mezzi, sulla necessità di un'autentica partecipazione di tutti alla vita pubblica (omnicrazia), sul concorso dei cosiddetti improduttivi, degli assenti, dei morti alla produzione di realtà (compresenza), sulla religione intesa come apertura e non come irrigidito e asfittico sistema confessionale (suoi libri, come "Religione aperta" del 1955, "Discuto la religione di Pio XII" del 1957, "Battezzati non credenti" del 1961, vennero messi all'indice dalla Chiesa).

Nel 1937 diede vita, insieme a Guido Calogero, al Movimento liberalsocialista.

Fu dopo averlo ascoltato in un convegno a Ferrara che Pietro Pinna divenne nel 1948 il primo obiettore di coscienza italiano del dopoguerra scontando una serie di condanne e carcerazioni fino al definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca".

Nel 1952, anticipando nettamente argomenti di riflessione oggi molto dibattuti, Capitini organizzò il convegno "La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale", nel corso del quale si costituì la Società Vegetariana Italiana. Nel 1953 promosse, prevenendo anche in questo caso di molto la sensibilità dei nostri giorni, il primo convegno "Occidente-Oriente asiatico". Nel 1958, prendendo le mosse da due famosi processi intentati nei confronti del vescovo di Prato che aveva pubblicamente apostrofato come "concubini" i coniugi Bellandi per essersi sposati in Comune e non in chiesa (per la cronaca, il prelato venne vergognosamente assolto), inviò una lettera all'arcivescovo di Perugia chiedendo di essere cancellato dall'elenco dei battezzati.

Tutto questo per rimarcare il pensiero e la personalità di Aldo Capitini, pensatore nient'affatto chiuso in un'eburnea stanzetta ma attivo suscitatore di coscienze. Proprio per questo, lo ripetiamo, fu scomodo soprattutto a sinistra, deriso e guardato con sufficienza dai vertici comunisti e da quelli socialisti. Alla sua morte, Pietro Nenni riconobbe che fu controcorrente durante e dopo il fascismo e aggiunse: "Forse troppo per una sola vita umana, ma bello".

Capitini non è stato isolato perché incompreso ma, al contrario, perché partitocrati, cortigiani, clericali (in primis i comunisti) in un paese come il nostro culturalmente, concettualmente, mafioso e ruffiano, rendendosi conto del carattere radicalmente innovativo della sua visione, lo hanno ostracizzato, condannandolo alla dimenticanza.


Chi ha potuto leggere il fitto scambio epistolare di lui con Walter Binni, Danilo Dolci, Guido Calogero, sa quanto, negli anni Sessanta, fosse amareggiato per l'estromissione, decisa ovviamente in ambiti politici, dall'Università per stranieri di Perugia o per la mancata diffusione, da parte della casa editrice Feltrinelli che lo aveva pubblicato, del suo libro "Le tecniche della nonviolenza".

Gli fu attribuito, è vero, il premio straordinario "Viareggio" nel 1967 per l'intenso libro "La compresenza dei morti e dei viventi", edito da Il Saggiatore, ma il cronista Rai si guardò bene dall'intervistarlo approfonditamente e, anzi, come attestano molto bene filmati d'epoca, il filosofo venne addirittura spintonato fuori dal palco.

Capitini pagò, dunque, le conseguenze di quella che Marco Pannella ha efficacemente definito "la peste italiana", vale a dire lo stravolgimento delle regole democratiche attuato e pervicacemente perpetrato dai partiti all'indomani della promulgazione della carta costituzionale, in totale perfetta continuità con il ventennio precedente.

Il suo nome è stato sì tirato in ballo recentemente in occasione di qualche edizione della marcia Perugia-Assisi ma indegnamente e indecorosamente. Lo spirito della marcia capitiniana del 1961, sia ribadito con estrema chiarezza, non ha nulla a che fare con quello delle marce istituzionalizzate, burocratizzate, unilateralmente concepite susseguitesi da almeno un decennio. Basti solo ricordare a qualche smemorato, più o meno finto, che nel 1967 si rifiutò con nettezza di sottoscrivere un appello fazioso di Lucio Lombardo Radice a favore degli stati arabi e contro lo stato di Israele.

La sua nonviolenza, al centro dell'ultimo, bel numero (il diciottesimo, per l'esattezza) della rivista "Diritto e libertà" diretta da Mariano Giustino, presentato giovedì scorso alla Sala delle colonne della Camera dei deputati, non va affatto equivocata con lo pseudopacifismo antiamericano tanto caro, nel periodo della guerra fredda, al totalitarismo moscovita e, ai giorni nostri, a coloro che, con il loro atteggiamento, continuano a tollerare le varie satrapie sparse nel mondo.

Ecco perché la ricorrenza del 2011 può e deve costituire l'occasione per una svolta.

Fonte: Carlo Del Nero