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"Ciò che ho imparato" Di Danilo Dolci (Marcello Benfante)

Dall'edizione palermitana del quotidiano "La repubblica" del 24 aprile 2008, col titolo "Che cosa abbiamo imparato da Dolci" e il sommario "Conversazioni in Sicilia di un sociologo". Marcello Benfante, scrittore, è nato a Palermo nel 1955, e dal 1980 svolge attività pubblicistica su quotidiani e periodici; attualmente interviene sulle pagine palermitane del quotidiano "La Repubblica" come critico letterario e opinionista; collabora a "Lo straniero", è redattore di "Segno". ha pubblicato diversi racconti e romanzi.
Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 443 del 2 maggio 2008 

Tornare a Danilo Dolci.


Questa potrebbe essere una buona indicazione per i tempi di crisi e di sbandamento che stiamo attraversando. Tornare cioè a una condivisione dei problemi sociali mediata dall'etica e dalla cultura, a un sentimento di partecipazione solidale che è al tempo stesso percorso di cambiamento e di comprensione del mondo. In questo itinerario di passione civile ci fa da guida Giuseppe Barone, che ormai da anni conduce un prezioso lavoro di riflessione sull'opera di Danilo Dolci. A sua cura appare adesso “Ciò che ho imparato”, antologia di scritti dolciani pubblicata dalla Mesogea di Messina.


Si tratta di un libro assai utile, soprattutto per quei giovani che hanno avuto poche occasioni per conoscere le idee e la storia di questo anomalo intellettuale triestino che a partire dagli anni Cinquanta diede vita in Sicilia a una delle esperienze associative, politiche e pedagogiche più importanti e innovative della nostra recente storia.


È uno strano silenzio, quello che circonda Dolci. Un silenzio fatto di tante parole, di tanti convegni. In parte, dunque, con Ciò che ho imparato viene colmata una grave lacuna, che è segno di una disaffezione alla cultura e al pensiero intesi come impegno esistenziale volto alla trasformazione dei rapporti umani.


Danilo Dolci (1924-1997) è infatti un esempio (che può sembrare anacronistico, oggi che il modello predominante è un'intellighenzia sgarbista e mediatica, ma che invece è attualissimo e più che mai necessario) di intellettuale poliedrico capace di spaziare in un'ampia congerie di questioni di vitale importanza, sempre offrendo un approccio nuovo, funzionale alle esigenze dei reietti della storia e della società.


Come scrive Barone, seppe coniugare "teoria e prassi, tensione utopica e concretezza, sogno e progetto", grazie a una sua dialettica fatta di metodo e fantasia, in un problematico ma fertile equilibrio tra sguardo poetico e impegno dalla parte degli ultimi. Nella sua azione concreta, come ebbe a dire Zavattini, era già il suo lirismo, la sua delicata sensibilità per la natura.


Fa bene Barone a chiarire che Dolci non fu mai attratto dal mito del buon selvaggio o da un populismo romantico ed estetizzante. Nè tantomeno fu "un guru attorniato da discepoli acritici e adoranti".


Nei suoi "laboratori maieutici" egli insistette su un modus operandi basato su una progressione dal basso della presa di coscienza. Per questa ragione, Dolci ha sempre evitato la scorciatoia di fornire "risposte perentorie o ricette preconfezionate", preferendo piuttosto far leva sul ruolo liberatorio e formativo delle domande, anzi di una interrogazione sul ruolo stesso delle domande.


A questo tipo di autoanalisi corrisponde una pedagogia che rifugge la forma-lezione e cerca invece una conciliazione e una integrazione della cultura "alta" e di quella popolare. Tale disponibilità ai sincretismi, agli incroci, a una complementarità dei saperi derivava forse a Dolci dalla sua composita origine. Di padre italiano e madre slovena, con un nonno tedesco e per luogo di nascita l'ibrida Trieste, Dolci era naturalmente orientato al superamento delle frontiere e delle barriere.


Quando giunge in Sicilia, nella selvatica Montelepre, nella plaga tra Partinico e Trappeto, nella Palermo devastata, "in una delle zone più misere e insanguinate del mondo", cerca in primo luogo l'incontro, la collaborazione, quella verità che si costruisce stando insieme. Ma l'impresa è subito ardua in una terra desolata in cui vige il proverbio "Chi gioca solo non perde mai". Per dimostrare che invece perde sempre, Dolci ricorre al metodo della "riunione di gruppo in cui ciascuno costruisce sulla base delle proprie esperienze". La conversazione procede uno alla volta, a giro, affinché tutti possano intervenire. Col tempo, grazie a un magnetofono, superando l'imbarazzo iniziale, le riunioni vengono registrate e documentate. Un sapere contadino prende così corpo, resta agli atti. Come Ernesto De Martino, anche Dolci dà voce a una civiltà in trasformazione, senza tuttavia il distacco dell'antropologo, bensì con l'empatia del maestro-discepolo.


Icastici ritratti si susseguono nell'antologia: la guaritrice che vede il mondo come un verminaio (un personaggio che sembra uscire dalle pagine di Carlo Levi); Mimiddu che giunge alla conclusione che si deve "vedere dal punto di vista di tutto il mondo" e "ragionare e essere al plurale" perché "se fa buio, è buio per tutti"; il contadino tornato dalla Germania per cui "ogni albero è mio figlio, sono tutti figli miei" (e non sa che sta citando il titolo di un grande dramma di Arthur Miller). Da tanta umanità, dalla sua semplice saggezza, scaturisce un libro frammentario e polifonico, in cui Dolci spesso verbalizza l'esperienza collettiva sotto forma di appunti, come in una specie di work in progress, di brogliaccio operativo.


Ovviamente emergono i temi basilari del suo pensiero. La pace, non intesa come accomodante quiete, ma come pianificazione comunitaria, invenzione del futuro. La nonviolenza, come rifiuto di una cultura della morte. La lotta contro "l'acqua di mafia", strumento di sopraffazione, e per l'acqua di tutti, di cui con un afflato quasi religioso Dolci coglie la sacralità e l'incanto. La scelta operata da Barone rivela anche un Dolci più riflessivo, che nella sua ricerca personale mostra una particolare attenzione ai linguaggi, alla filologia. E accanto a questa "anatomia lessicale" c'è un Dolci perfino speculativo che cerca nel Marx degli scritti giovanili un umanesimo utopico da perseguire con fantasia creatrice.


Perché "se l'uomo non immagina, si spegne", come recita un suo verso, si rassegna a vivere in quegli "omili" in cui l'urbs ha scalzato la civitas, abrogando ogni convivenza civile nell'aria ammorbata dai suoi rifiuti.