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Gandhi, un maestro

Dal libro di Anna Bravo, “La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato”, Laterza, Roma-Bari 2013, riportiamo il capitolo terzo "Un maestro", pubblicato nella newsletter del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo.

Il gioco degli altri

È a dir poco improbabile che i soldati di trincea che nella grande guerra concertavano tregue per risparmiare il sangue avessero sentito parlare di Gandhi - a parte, forse, qualcuno degli indiani inquadrati nell'esercito britannico. E Gandhi li avrebbe compresi, lui che nel 1918 stava cercando di reclutare volontari per sostenere lo sforzo finale del Regno Unito e che non sembrava molto colpito dalla fraternizzazione?(1)Come i soldati "facitori di pace", molti protagonisti di lotte nonviolente ignoravano le idee di Gandhi, a volte neppure sapevano che esistesse. Ma alla base di ogni pratica, oltre che di ogni teoria, c'è il suo pensiero e c'è la sua vita. Nel loro intreccio si possono cogliere le tappe che portano alla nonviolenza come azione politica, come lotta dei forti anziché dei deboli, come strumento per promuovere il conflitto, ma un conflitto governato dall'amore e dall'accettazione reciproca fra individui, fra religioni, fra culture.

Se Gandhi riesce a fondare questa nuova politica, è perché si è reso conto - con cinquant'anni di anticipo sui movimenti di liberazione nazionale - che il grande inganno del colonialismo consiste nell'aver costruito una cultura in cui gli oppositori sono continuamente tentati di lottare all'interno delle regole del gioco fissate dai colonizzatori. Sempre pronto alla mediazione e al compromesso, Gandhi su questo punto è intrattabile: piuttosto che un dissenziente "ornamentale", disposto a adattarsi al gioco altrui (2), meglio essere un nemico disprezzato e irriso, un corpo estraneo alla politica - ma ben incuneato nella politica. Averlo capito fa del suo pensiero un evento (3) che inaugura un diverso modo di raccontare l'India, e che lo rende unico nel suo tempo.

Ma la sua storia anticipa molte verità comuni ad altre storie: che la nonviolenza di rado è l'opzione iniziale; che per lo più è il frutto di una crescita (un pellegrinaggio spirituale, lo definisce Martin Luther King) in cui il primo passo è aver constatato l'inefficacia della violenza e il suo potere di contagio; che ha molti nemici interni; che deve misurarsi con forme di distruttività compresenti, e ha spesso in sè una particolare qualità di violenza diretta a costringere l'avversario alla trattativa - è la migliore conferma che la storia non è il prodotto di forze impersonali, ma del fronteggiarsi fra natura, strutture, soggetti (e caso), dove i soggetti sono il fattore principe.

Non è un terreno facile, l'India di Gandhi. La grande maggioranza della popolazione, che a dispetto degli stereotipi non è affatto dolce e mite, è sfruttata e stremata, ma alcuni hanno una dimestichezza con i britannici che li rende riluttanti a schierarsi contro di loro - il sahib bianco (e la memsahib) non sono sempre despoti. Il terrorismo si fa sentire, sia pure in modo sporadico, mentre il maggior partito nazionale, il Congresso, è diviso fra un'ala pronta a governare insieme con la Gran Bretagna, e un'ala "nativista", che punta all'indipendenza esaltando le culture autoctone. Il potere coloniale, a volte spietato fino al massacro a volte paternalistico, offre floride carriere all'elite locale.

In primo piano, i due grandi mali dell'India: la contrapposizione fra induisti e musulmani e un sistema rigidissimo di caste, che sancisce l'intoccabilità di quanti ne sono fuori.

Per la sua dignità e felicità, il paese ha bisogno di una rivoluzione politica, di casta, di genere, di classe, di culture. Programma immenso e a rischio di isolamento, perché le lotte anticoloniali erano ancora un'eccezione.

Tre patrie

Gandhi, il più esotico dei leader novecenteschi, ha tre patrie. La prima è l'India, dove nasce nel 1869 nel Gujarat, in una famiglia benestante della comunità modh.

La seconda è Londra, dove si sposta per seguire gli studi di legge. All'epoca, la capitale è un crogiuolo dove si possono incontrare intellettuali di molti paesi e seguaci di molte fedi, socialisti in esilio, anarchici, vegetariani, difensori degli animali e della natura, femministe, omosessuali (quasi) militanti, nazionalisti. E le relative associazioni, come la Società teosofica, che appoggia caldamente la causa dell'India e dell'Irlanda.

È una controcultura ante litteram (4), al cui interno il giovane Gandhi stringe conoscenze e amicizie e ritrova gli insegnamenti jainisti della madre - il rifiuto della violenza, la compassione per ogni essere senziente, la tolleranza, l'attenzione alle diete e al corpo. Scrive sulla piccola rivista "The Vegetarian", legge di tutto, è folgorato dalla Baghavad Gita, un famoso testo della tradizione epica indiana. E, guardando le sue radici attraverso gli occhi dei nuovi interlocutori, ne scopre il valore - è un meccanismo tutt'altro che raro.

Quando Gandhi torna in India, nel 1891, non è più il ragazzo semi-ateo incline a trasgredire i precetti religiosi. È un giovane uomo pieno di dubbi e di curiosità, avviato verso una transizione che prenderà forma in Sudafrica, la sua terza patria, il luogo del debutto in politica.

La svolta non è programmata nè immediata. Chiamato a patrocinare una causa da una ditta indiana con sede in Natal, Gandhi si trova di fronte alle condizioni di semi-schiavitù in cui vivono i 150.000 connazionali emigrati per lavoro, subisce lui stesso il razzismo anti-indiano, ma condivide quello contro i neri. Nel 1903 fonda il Natal Indian Congress, nel 1904 il giornale "The Indian Opinion"; riesce a coagulare attenzione e solidarietà intorno alle leggi discriminatorie, si avvicina al Partito indiano del Congresso. Guadagna notorietà.

Ancora convinto che l'impero britannico "esista per il bene del mondo" (5), caldeggia la partecipazione degli indiani alla seconda guerra anglo-boera, e nel 1906 alla spedizione punitiva contro la ribellione degli zulu. Per questa via, pensa, gli indiani potranno ottenere maggiori diritti e dimostrare che, a dispetto dei pregiudizi, hanno coraggio e senso dell'onore. Fa due scoperte chiave. Per gli indiani in Sudafrica non c'è alcun miglioramento - il governo ha mentito ventilandolo. Gli zulu sono per lo più contadini esasperati da una tassazione famelica - il governo ha mentito descrivendoli come belve.

Lo stesso anno 1906, in Transvaal viene promulgata una nuova legge per la registrazione - in realtà la schedatura - degli indiani residenti; scoppiano proteste di massa che si intensificano quando viene cancellato il riconoscimento legale ai matrimoni celebrati secondo la tradizione indù. Gandhi, che da anni sta lavorando intorno all'idea della nonviolenza, fonda la Passive Resistance Society e propone per la prima volta il metodo della resistenza inerme, chiamando i suoi a sfidare la nuova legge e a subire le violenze senza restituirle.

Ne nasce una lotta che dura sette anni, lungo i quali migliaia di indiani (fra cui lo stesso Gandhi) e cinesi, sono imprigionati, frustati, uccisi per aver fatto sciopero, rifiutato di registrarsi o bruciato i relativi moduli. Finché, dopo una marcia delle donne guidata dalla moglie di Gandhi, Kasturbai, si arriva a un compromesso: i matrimoni induisti, musulmani e parsi sono resi nuovamente legali, si annulla la tassa prevista per la registrazione. È stata decisiva la protesta dell'opinione pubblica per la ferocia della repressione. Ed è stata decisiva la capacità negoziale di Gandhi, sorretta dalla popolarità che sta guadagnando (6).

"Ahimsa" e "satyagraha"

Quelli del Sudafrica sono anni di scoperte intellettuali e spirituali, di letture (libri sacri dell'induismo e di altre religioni, Tolstoj, Ruskin, Thoreau, Carpenter), di nuove amicizie. Gli anni in cui Gandhi mette a fuoco il concetto di nonviolenza impiegando due parole distinte e interconnesse, ahimsa e satyagraha, legate al credo induista e fatte proprie dalla tradizione del jainismo e del buddhismo. Ahimsa indica il contrario della violenza, il non nuocere agli esseri senzienti umani e non umani e alla natura, la conquista dell'armonia, la ricomposizione della comunità. Satyagraha, un termine coniato dallo stesso Gandhi, significa "forza della verità", avvicinamento a dio, fedeltà al bene, amore come forza coesiva.

Il binomio ahimsa-satyagraha è esposto nel 1909 in un breve libro, Hind Swaraj (7), che resterà la base del suo pensiero. È uno sguardo del tutto nuovo, in primo luogo sulla questione coloniale: "Gli inglesi - dice a un interlocutore immaginario - non hanno conquistato l'India, siamo noi che gliel'abbiamo consegnata. Non sono qui per la loro forza, ma perché ce li teniamo [...]. Ci piacciono i loro commerci, ci seducono con i loro modi gentili [...]. Incolparli per questo significa perpetuare il loro potere" (8). Gandhi non amava nè il concetto di nemico, nè quello di vittima - di qui sconcerto e animosità da parte degli altri leader nazionalisti - e incitava i suoi a smettere di concentrarsi sui comportamenti dei "cattivi" per cominciare a agire loro stessi secondo giustizia, come soggetti responsabili in lotta per sopravvivere a proprio modo.

Ai colonizzatori si possono opporre "due tipi di forza. Una si esprime così: 'Vi arrecheremo danno finché non ci darete ciò che chiediamò. È la forza delle armi". Ma "coloro che arriveranno al potere con l'assassinio non renderanno felice la nazione" (9).

Oppure, si può scegliere la "forza dell'amore e dell'anima". Ai britannici si può dire: "Se non accettate le nostre richieste, non ve ne faremo altre. Potete governarci fino a quando accettiamo di essere governati; ma da oggi in poi non avremo più nulla a che fare con voi" (10) - grazie a forme di lotta scelte accuratamente come la disobbedienza civile, il boicottaggio, lo sciopero, la non-collaborazione, il digiuno.

È una rivoluzione spirituale, sociale, morale. Swaraj non vuol dire soltanto indipendenza politica, vuol dire capacità di pensare e sentire autonomamente, grazie alla riscoperta (e in parte all'invenzione) del senso della cultura indiana e a "un continuo processo di autoeducazione" (11). Con il satyagrahi, l'attivista nonviolento, nasce un tipo di oppositore politico mai visto prima, che prende l'iniziativa e conquista i diritti attraverso la sofferenza personale, addirittura spingendo l'oppressore alla brutalità, ma senza farsene contagiare (12). È il gioco di Gandhi. "Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto" (13). "Non possiamo ottenere una rosa piantando un'erbaccia nociva" (14).

L'erbaccia è la violenza, il mezzo di chi non sa dichiarare il suo amore, vale a dire del codardo. Anche la nonviolenza può esserlo, se nasce dalla paura e dalla rinuncia a lottare, anziché dal coraggio e dalla convinzione (15).

I protagonisti devono essere i contadini poveri, cui bisogna restituire dignità e una buona vita. Essere vicino a loro - scrive (16) - è il suo desiderio del cuore, fare voto di povertà un modo per realizzarlo. Vivrà lui stesso una vita semplice, "per permettere agli altri semplicemente di vivere". E vita semplice vuol dire ridurre al minimo i consumi, non accumulare beni e denaro, non mangiare carne, praticare attività manuale e tornare alla natura (17), rispettare le specie animali e vegetali (18), creare comunità ugualitarie e il più possibile autosufficienti, rifiutare il dogma dello sviluppo come via al benessere. Negli ashram che ha fondato in Sudafrica e fonderà in India, sperimenta diete, digiuna, legge libri sul modo di lavare i vestiti e sui sistemi sanitari. Non c'è attività umana di cui non si interessi. Compresa quella sessuale, ma per limitarla o bandirla, almeno per se stesso.

All'età di 36 anni Gandhi fa voto di castità, influenzato dalla filosofia del Brahmacharya - purezza spirituale e pratica - e dall'idea di autocontrollo appresa a Londra fra i vegetariani, spesso contrari alla limitazione delle nascite con sistemi artificiali. Nella rinuncia alla sessualità vede un mezzo per avvicinarsi a dio, per conciliare la cura della famiglia e la cura degli interessi collettivi (e la politica), perché non si può vivere assecondando allo stesso tempo lo spirito e la carne (19). Che lo tormenta con la potenza del suo richiamo (20).

È una visione del mondo compiuta, ma non del tutto stabile. Gandhi, ricorda Pontara, si proclama fallibilista (21). "La vita di un uomo - scriverà nel 1925 - non è un'unica via diritta, ma un intrico di doveri molto spesso in contrasto tra loro. E si è continuamente chiamati a scegliere tra un dovere e l'altro". Dopo aver fatto proprio l'imperativo "non uccidere", in seguito denuncerà chi lo ha trasformato in un cieco feticcio, riconoscendo che esistono situazioni in cui è moralmente giustificato, anzi doveroso, resistere all'aggressione violenta con l'uccisione individuale o con la lotta armata (22).

Ogni interpretazione è poi complicata dal fatto che Gandhi non è un pensatore sistematico, nè solo un pensatore; è un politico, un giornalista, un avvocato, un organizzatore straordinario, un uomo profondamente religioso. Lungo la sua vita cambia idea su punti centrali, si contraddice, non lo nasconde, alla sua autobiografia dà il titolo Storia dei miei esperimenti con la verità. E scrive: "Il mio scopo non è di essere coerente con quel che ho detto su una certa questione, è essere coerente con la verità come mi si presenta in un dato momento" (23).

A rimanere costante è la denuncia della società industriale. Felicità e benessere consistono in un uso appropriato di mani e piedi, ma presto "l'uomo non ne avrà più bisogno. Si premerà un bottone e gli abiti saranno a portata di mano. Si premerà un altro bottone e arriverà il giornale. [...] tutto sarà fatto da macchinari" (24). "Mi oppongo alla follia delle macchine, non alla macchina come tale. La follia riguarda le macchine risparmiatrici di lavoro. L'impulso non è risparmiare lavoro per amore degli uomini, ma avidità" (25). Ferrovie, grandi città, grandi fabbriche, grandi commerci, hanno distrutto la civiltà rurale, il lavoro artigiano e l'economia delle comunità; le ferrovie impediscono al viaggiatore l'esperienza di scoprire i luoghi che attraversa; la smania della velocità fa sembrare i londinesi mezzi matti. Non soltanto inutili, ma dannosi, sono i medici, gli ospedali, l'istruzione imposta a tutti, gli avvocati - "se la gente risolvesse da sola le proprie controversie, non sarebbe possibile per una terza parte esercitare l'autorità".

"Questa civiltà è tale che con un pò di pazienza si distruggerà da sola" (26). Siamo nel 1909, in tempi di culto del progresso, sistema industriale trionfante, sviluppo della medicina, società di massa. La preveggenza di Gandhi fa quasi paura.

Più donna che uomo

La nonviolenza non cambia solo la politica, cambia i modelli di mascolinità e femminilità esportati dalla cultura coloniale. Come potrebbe Gandhi, oppositore tutt'altro che ornamentale, riconoscersi nei dualismi forte-debole, universale-particolare, coraggio-codardia, agire-astenersi dall'agire, che pretendono di legittimare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati e del maschile sul femminile? e che con la loro rigidezza affliggono tutte le parti in causa. Il fardello della donna bianca, che alcuni autori assimilano al colonizzato, è la mancanza di diritti e il marchio di inferiorità che le ricade addosso. Il fardello dell'uomo bianco consiste (anche) nella paura di perdere la forza se perde l'attivismo e la capacità della violenza (27).

Liberando l'iniziativa e il coraggio da questo vincolo, Gandhi compie una doppia inversione. Fa incontrare la virilità con la mitezza, l'energia combattiva con la femminilità, specie con la maternità; teorizza l'esistenza di due forme di potere: quello maschile si fonda sulla effimera forza materiale, quello femminile sulla forza permanente dello spirito, su un infinito amore e capacità di soffrire. "Chi se non la donna, la madre dell'uomo, mostra questa capacità nella misura più grande? La donna è l'incarnazione dell'ahimsa" (28).

Ad essere superiore dunque è l'essenza femminile. Che però non è chiusa in se stessa e separata. Appoggiandosi alle piccole e grandi tradizioni della santità indù, che a differenza dei monoteismi comprende deità maschili, femminili e androgine, Gandhi giudica che "la mascolinità e la femminilità hanno pari dignità, ma la capacità di trascendere la dicotomia uomo-donna è superiore a entrambe, poiché è un indice di qualità proprie della divinità e della santità" (29). Che danno all'uomo l'accesso al potente e magicamente protettivo principio materno del cosmo.

È quel che Gandhi cerca. Spera che le donne lo riconoscano come "uno di loro", vorrebbe diventarlo nello spirito. Rappresenta se stesso come una "femmina", svolge compiti femminili, si fa ritrarre mentre siede davanti al charkha, il tradizionale filatoio a mano, filando pazientemente il cotone che serve a tessere la stoffa per il khadi; vanta i pregi di questa pratica silenziosa e lenta come preparazione di uomini e donne al satyagraha. A chi lo accusa di sprecare l'energia della nazione chiedendo agli uomini di filare come le donne, risponde: "È contrario all'esperienza dire che qualsiasi vocazione sia riservata a un solo sesso. Le donne cucinano in casa, la cucina su larga scala è fatta da uomini in tutto il mondo" (30).

È una sfida all'ordine coloniale e una rottura clamorosa sul piano dell'iconografia politica - all'epoca in Occidente domina il timore della svirilizzazione, negli Stati Uniti persino i riformatori religiosi insistono sulla vigoria e ruvidezza di Cristo contro la sua immagine di dolcezza accogliente; il presidente eletto nel 1904, l'intellettuale harvardiano Theodore Roosevelt, si è "costruito" una nuova figura pubblica, scegliendo fra i suoi modelli la mascolinità plebea dei militanti politici e quella western alla Pat Garrett e Billy The Kid. Ma sostenere che non esiste vocazione esclusiva di un sesso rovescia anche - assoluta novità - le interpretazioni correnti allora (e oggi?) sulla divisione sessuale del lavoro, in cui ci si concentra sempre sull'attitudine delle donne a lavori considerati maschili, mai sull'attitudine degli uomini a lavori considerati femminili.

Eppure è proprio nel rapporto con le donne che Gandhi rivela le maggiori ambiguità. Approva i "satyagraha familiari" - una donna che digiuna contro il marito per farlo dimettere da un impiego statale, un figlio che si scontra con il padre sergente di polizia (31) - in cui vede una premessa per la ribellione all'autorità britannica (32); la campagna contro il monopolio del sale, un elemento indispensabile per la vita quotidiana e dunque di primario interesse femminile, segna uno spartiacque nella partecipazione delle donne. Ma per il resto, il dominio patriarcale non viene sfidato - sarebbe una rottura con la cultura indiana, non solo britannica. Anche se con la nonviolenza Gandhi "femminilizza" la politica e porta una quantità di donne nella sfera pubblica, l'attivismo femminile è vincolato all'obiettivo dell'indipendenza. A scontro finito, le "madri dell'India" torneranno per lo più alla domesticità (33).

Si circonda sia di amiche indiane sia di occidentali emancipate, si rallegra di averle accanto, inventa per loro nuovi nomi, le inizia alla spiritualità, le tratta con tenerezza - lo si potrebbe definire una specie unica di homme à femmes. Ma l'affetto convive con la pretesa di trasformarle in madri e sorelle per controllare l'angoscia della sessualità.

Si appoggia a figure mitologiche come Sita, Draupadi, Savitri facendone simboli nazionali, ma le destoricizza, piegandone i significati alla lotta (34).

In qualche caso, sembra identificare il valore della vita femminile con la purezza fisica. Pensando a situazioni in cui è ammesso uccidere, scrive: "Si supponga, per esempio, che io trovi che mia figlia - il cui desiderio in tale momento non sono in grado di accertare - stia per essere violentata e non ci sia modo in cui io possa salvarla". Ci si aspetterebbe un gesto contro l'aggressore. Invece, "in tal caso toglierle la vita ed arrendermi alla furia dell'acceso ruffiano sarebbe da parte mia il più puro atto di ahimsa" (35).

Il gioco di Gandhi"

Possiamo considerare Gandhi un idealista, un fanatico, o un rivoluzionario. Ma [i contadini] vedono in lui il loro liberatore, e gli attribuiscono poteri straordinari. Se ne va in giro per i villaggi esortandoli a presentare le loro lagnanze, e trasfigura l'immaginazione di masse di uomini ignoranti mediante la visione di un'imminente rigenerazione millenaristica. Ho fatto presente questo pericolo a Mr. Gandhi, e lui mi ha assicurato che le sue parole sono vagliate con tanta cura che non si può interpretarle come un incitamento alla rivolta" (36). Così scrive W. A. Lewis, funzionario dell'Indian Civil Service nel 1917.

Da dove nasce la rapidità con cui Gandhi si impone nella vita dell'India? Nel 1915, quando torna in patria, la conosce ancora poco, e in piccola parte. L'esperienza del Sudafrica lo aiuta a capire una prima verità. A far soffrire la maggioranza della popolazione non è solo lo sfruttamento, è l'umiliazione di sentirsi trattati da inferiori (37), di dipendere totalmente dall'interesse, dalla benevolenza o dal capriccio dei britannici, della nobiltà locale, dei proprietari terrieri, dei funzionari statali. Nei loro bei vestiti, nelle loro belle case, con il loro bell'inglese, i leader del Congresso stentano ad afferrare la portata di quella sofferenza.

Gandhi si rende invece conto che chi è stato umiliato ha un bisogno vitale di riscattarsi in prima persona, o attraverso una figura capace di rappresentarlo. Lui lo è: vive poveramente, indossa il dothi, l'abito tradizionale di cotone bianco, parla con semplicità - è la sua prima regola del gioco. E ha "qualcosa", su cui si sono interrogati studiosi, politici, religiosi, indiani e non: anche se arriva dall'esterno, Gandhi sembra emergere letteralmente dalla massa (38). Per questo non si scandalizza che ai poveri del mondo "dio possa apparire solo come pane e burro" (39).

Nel '17 i contadini affittuari della provincia del Bihar sono in miseria e in fermento. Costretti nell'Ottocento a coltivare indaco per l'industria inglese, poi all'inizio del Novecento a ridurre la produzione dopo la scoperta delle tinte sintetiche, ora, visto che la grande guerra ostacola la disponibilità dei prodotti chimici tedeschi, si pretende che aumentino di nuovo le coltivazioni, senza incentivi, anzi con il peso di nuove tasse. Gandhi comincia subito a organizzare i contadini, raccoglie le loro deposizioni sulle condizioni di vita, mette in piedi un gruppo di avvocati, apre una quantità di cause.

Quando si formano folle che lo seguono ovunque, la polizia lo invita a lasciare il distretto. Gandhi rifiuta. Come ha scritto in Hind Swaraj e ripete ai contadini, "il dovere di obbedire alle leggi [...] è una nozione del tutto nuova. Non esisteva niente di simile prima. Il popolo non osservava quelle leggi che non condivideva e sopportava le pene per averle infrante. È contrario alla nostra umanità l'obbedire a leggi che ripugnano alla nostra coscienza, [...] è contrario alla religione e significa schiavitù" (40). È la seconda regola.

Convocato in tribunale, da dove potrebbe essere trasferito direttamente in carcere, passa la notte precedente pensando a come far proseguire il movimento e scrivendo lettere alla stampa e agli amici - la pubblicizzazione degli eventi è una sua cura costante. Non verrà arrestato, e con la trattativa otterrà per i contadini l'abolizione di alcune pratiche ingiuste e un risarcimento parziale delle somme estorte dai proprietari - non la totalità, perché rifiuta di "umiliare l'avversario, specie se è indebolito" (41). Questa è la terza regola.

Sulla via del ritorno, si ferma a Ahmedabad, dove gli operai tessili in agitazione chiedono un aumento pari al 50% del salario. Consiglia loro di scioperare, e ogni giorno, sotto un albero di acacia vicino al fiume Sabarmati tiene discorsi in cui li invita alla disciplina e al sacrificio. Ma vedendoli allo stremo e temendo che la lotta fallisca, adotta per la prima volta in India il digiuno come "arma" politica. L'eco è ampia, e produttiva: gli operai ottengono il 35% in più di stipendio, Gandhi il riconoscimento della sua tattica eterodossa e del suo doppio azzardo: ha sfidato l'orgoglio dei proprietari con lo sciopero e con il digiuno, ha sfidato il risentimento dei lavoratori con una soluzione capace di "dare alla controparte il coraggio di cambiare" (42). È la via della persuasione, la quarta regola del gioco. Le costanti sono formulate, ma non tutte.

Contro la violenza degli oppressi

Dopo un infelice tentativo nel 1918 di reclutare volontari per l'esercito imperiale, l'anno dopo Gandhi vede crollare la sua speranza che combattere a fianco dei britannici fosse un buon modo per guadagnare lo swaraj. Niente cambia, anzi il governo coloniale promulga il Rowlatt Act, che per controllare le tensioni politiche prolunga le limitazioni alle libertà civili introdotte con la guerra.

Gandhi lancia allora l'har'tal, lo sciopero generale, con la chiusura di tutti i luoghi di lavoro per un giorno, da dedicare al digiuno e alla preghiera. Si tengono cortei e manifestazioni pacifiche in tutta l'India, ma frammiste a attacchi contro cittadini britannici e disordini repressi ferocemente. Gandhi deve prendere atto che i suoi inviti all'opposizione nonviolenta possono sconfinare nel loro contrario - e ancora non sa della strage di Amritsar, dove la polizia ha sparato sulla folla uccidendo 379 persone.

Interrompe la protesta, dichiarando il satyagraha contro la propria gente per le violenze che ha commesso. I disordini finiscono, il Rowlatt Act viene revocato, ma Gandhi giudica un "errore di proporzioni himalayane" (43) essersi rivolto alla popolazione prima di averla preparata a restare fedele alla nonviolenza anche di fronte alle peggiori atrocità. Si impongono così altri due principi del conflitto gandhiano: il primo è la necessità di formare gli attivisti, il secondo - a volte contraddetto - è l'impegno a non creare situazioni che potrebbero mettere in pericolo i dimostranti.

Gandhi è ormai il Mahatma, "baba Gandhi", "bapu". Ed è il leader assoluto del Congresso, trasformato da movimento di elite a partito di massa e dotato nel 1921 di una nuova Costituzione che include l'indipendenza; l'ala estremista, che in qualche caso tollera gli atti di terrorismo, per il momento è messa ai margini. La linea di Gandhi - nè subire nè colpire, nè vittime nè carnefici - ha vinto, e si fa progetto sociale.

Nasce così la Swadeshi policy, che prevede il boicottaggio delle merci estere, principalmente britanniche, e lo sviluppo dell'artigianato tessile, semidistrutto dalla pratica di trasferire il cotone indiano nelle fabbriche d'oltremare, per la produzione di indumenti soggetti a monopolio. È il movimento Khadi, la filatura e tessitura casalinga, lanciato anche per coinvolgere le donne, fino allora escluse dai pregiudizi sulla loro incompatibilità con la politica.

La partecipazione popolare è impressionante. Si boicottano le istituzioni britanniche, le scuole e i tribunali, si restituiscono le onorificenze, si lasciano gli impieghi governativi. Moltissime donne di tutte le classi si fanno la stoffa da sè. L'India comincia a riprendersi il suo cotone.

Ma un nuovo scoppio di violenza nel febbraio del 1922 spinge Gandhi a sospendere la campagna, che gli costa comunque una condanna a sei anni di prigione. Ne sconterà due, e al suo ritorno in libertà prende le distanze dalla politica istituzionale. Non promuoverà una agitazione di ampio respiro se non dopo otto anni.

Integrare lavoro, società, poteri

Fra il '24 e il '28, l'impegno principale di Gandhi è il Programma costruttivo, dedicato alla qualità della vita nei villaggi - che significa lottare contro l'alcol, le droghe, le superstizioni, la sporcizia endemica, contro pratiche come i matrimoni infantili, l'immolazione delle vedove sul rogo dei mariti, il marchio dell'intoccabilità impresso sui senza casta. Gli strumenti sono l'istruzione di base, il miglioramento dell'igiene, la promozione del movimento Khadi; il più potente è l'esempio.

Andando a trattare con i rappresentanti inglesi vestito di uno scialle di cotone rattoppato, Gandhi aveva portato con sè nei palazzi la miseria contadina. Ora, facendo volontariamente azioni considerate degradanti, come raccogliere i rifiuti umani e vivere con gli intoccabili, guadagna il diritto di chiedere lo stesso agli altri in nome di un nuovo concetto di purezza. Propone un'organizzazione di volontari per una campagna di pulizia e per la costruzione di scuole e di ospedali, con l'obiettivo di trasferire alcune competenze dal governo alla comunità. Compreso l'ordine pubblico, da affidare a una forza a livello di base capace di prevenire le tensioni, e, se scoppiavano, di interporsi fisicamente. Cerca di spostare la produzione nei villaggi per favorire l'occupazione femminile, e soprattutto per riannodare il legame fra lavoro e società spezzato dallo sviluppo industriale. Contro il dominio delle "macchine morte", il progetto (il sogno) è un'economia compatibile, decentrata, autosufficiente, fondata su "tecnologie intermedie", che come il charka incarnano "la scienza ridotta in termini di masse" (44).

Prende così corpo un'idea di rivoluzione alternativa al modello marxista-leninista, in cui si dispiegano tutte le implicazioni della nonviolenza: l'economia di villaggio contro i piani quinquennali, la priorità della trasformazione interiore contro il primato delle strutture, il culto della tradizione contro il culto del progresso, la conversione del nemico contro il suo annichilimento, il decentramento contro il centralismo, il "potere di tutti" (45) contro il potere di un'elite autoproclamata. Alla base, il mito di un'antica società coesa e solidale, che Gandhi tradurrà in seguito nella visione di uno Stato indiano formato dal "cerchio oceanico" dei suoi 700.000 villaggi.

L'indipendenzaGandhi torna alla politica nazionale nel 1928, dopo che il governo britannico ha rifiutato all'India lo status di dominion e promulgato una nuova Costituzione per il paese senza aver incluso nessun rappresentante indiano tra i costituenti.

Il partito del Congresso, diretto da Jawaharlal Nehru, stretto amico di Gandhi e futuro premier dell'India libera, sancisce il Purna Swaraj, l'indipendenza completa, e il 31 dicembre 1929 fa issare a Lahore la bandiera indiana.

Per Gandhi, è tornato il momento di una grande campagna nazionale. Che sarà contro il monopolio britannico sull'estrazione e la vendita del sale, che vieta persino la piccola produzione locale nelle zone costiere - e nel clima dei tropici del sale non si può fare a meno.

Nel marzo del 1930, dopo averlo annunciata al vicerè, Gandhi inizia con 78 amici un cammino verso il mare, con l'obiettivo di far bollire l'acqua sulla spiaggia e di raccogliere il sale che si cristallizza ai bordi dei recipienti. È una sfida frontale all'impero. "Metteremo in pratica - dice - una non-cooperazione talmente rigorosa che infine non sarà possibile alla macchina dell'amministrazione funzionare in alcun modo. Che allora il governo segua le proprie regole, impieghi i fucili contro di noi, ci mandi in prigione, ci impicchi. Ma a quanti si possono infliggere tali punizioni? Provate a calcolare quanto tempo impiegheranno gli inglesi a impiccare trecento milioni di persone" (46). I manifestanti antimafia del nostro tempo, con i loro striscioni "Ammazzateci tutti", sono figli di Gandhi, anche se forse non lo sanno.

Migliaia di indiani si uniscono all'impresa, rimasta celebre come la Marcia del sale di Gandhi e come l'esempio più alto nella storia di "teatro" politico.

Nonostante la perfetta nonviolenza, gli arrestati sono più di 60.000, compreso Gandhi; ma il governatore inglese dovrà riconoscere alle popolazioni della costa il diritto di estrarre il sale per il consumo domestico.

La marcia ha confermato lo status di icona internazionale di Gandhi, il suo genio nel combinare uso dei media, empatia con le moltitudini, senso della performance - e inventiva pubblicitaria: il dothi di cotonina bianca sulla pelle appena scura, la canna di bambù cui si appoggia camminando, sono un richiamo straordinario per i fotografi e per i cineoperatori, un vero e proprio "marchio". Ieri, oggi e probabilmente domani, chi vede un'immagine con questi ingredienti pensa a Gandhi, anche senza sapere la sua storia. Quel che lo ha avvicinato ai contadini indiani, ora lo avvicina al mondo.

Nel 1931 i prigionieri politici sono liberati e Gandhi è invitato a Londra, come rappresentante del Congresso ai negoziati noti come la "Conferenza della tavola rotonda" su una nuova Costituzione per l'India. Non si arriva a niente, anzi si riapre la campagna britannica contro i nazionalisti. Nuovamente arrestato nel '32, Gandhi digiuna a oltranza, finché gli inglesi lo rilasciano, terrorizzati dall'idea che muoia in carcere - non è la prima, non sarà l'ultima volta.

Nel 1934 si ritira dal palcoscenico politico e torna ai suoi contadini, creando l'Associazione delle industrie di villaggio, studiata per far nascere una serie di comunità autogovernate, con un'economia fondata sullo scambio a piccolo raggio di beni e prestazioni.

Allo scoppio della guerra, propone una campagna di disobbedienza individuale anziché di massa, per non danneggiare troppo la Gran Bretagna, ma l'intransigenza di Churchill porta nel '42 il partito del Congresso a una risoluzione che chiede la fine immediata del dominio coloniale. Mentre il governo britannico soffia sulle tensioni tra indù e musulmani all'interno del movimento nazionalista, Gandhi risponde lo stesso anno con la campagna "Quit India!", avvertendo che stavolta la lotta non si fermerà neppure se ci saranno violenze individuali. È l'invito alla ribellione nonviolenta totale, un movimento di ampiezza senza precedenti. Senza precedenti è anche la repressione, con migliaia di persone uccise o ferite, centinaia di migliaia arrestate, a cominciare da gran parte dei leader politici. Compreso Gandhi, che inizia nel febbraio '43 il digiuno di penitenza per le violenze commesse dagli indiani durante l'insurrezione. E ancora una volta deve essere liberato; la sua salute è così compromessa che sembra a un passo dalla morte.

Alla fine della guerra il movimento raggiunge il suo scopo - non da solo: la Gran Bretagna è allo stremo, il governo è passato ai laburisti. Il nuovo premier Attlee annuncia che il potere verrà trasferito agli indiani e il 24 marzo 1947 nomina vicerè e governatore generale delle Indie un buon amico di Nehru, Lord Mountbatten.

Il Gandhi nazionalista ha vinto, ma quando ormai, più che per l'indipendenza, sta lottando contro i due flagelli storici della società indiana, l'esistenza degli intoccabili e la contrapposizione fra indù e musulmani.

Contro l'India per gli intoccabili

Dopo aver temporeggiato sulla questione delle caste a causa del loro radicamento nell'induismo, nel '31 Gandhi aveva gettato tutto il suo peso in una campagna contro l'intoccabilità. Alcuni indiani di alto lignaggio se ne erano già fatti paladini, i senza casta avevano un leader emerso dalle loro file, Bhimrao Ramji Ambedkar, che chiedeva la cancellazione tout court del sistema castale, e invitava gli intoccabili a lasciare l'induismo - lui stesso era diventato buddista.

Ma per Gandhi l'idea di restare esterno a un conflitto era difficile da accettare, tanto più se la materia investiva e spaccava l'intero paese. Di fronte al Communal Award sul riconoscimento delle comunità, che prevedeva elettorati a parte per musulmani, sikh, europei, cristiani, intoccabili, si era opposto duramente. "Noi non vogliamo che gli intoccabili siano classificati nei nostri registri come una classe separata - aveva detto nel novembre 1931 - I sikh possono rimanere tali per sempre, e così anche i musulmani e gli europei. Gli intoccabili dovrebbero restare intoccabili in eterno? Preferirei che l'induismo morisse piuttosto che l'intoccabilità continuasse" (47). Dopo aver rinominato gli intoccabili harijan, figli di dio, aveva annunciato che se fosse rimasto il solo a resistere al Communal Award, avrebbe resistito con la sua vita. Pochi lo avevano preso sul serio.

Ma il digiuno a oltranza del settembre 1932 nel carcere di Yeravda è contro l'intoccabilità, e Gandhi chiarisce che la sola cosa in grado di farlo desistere è la modifica della legge elettorale. Il paese si ferma, nelle chiese americane e inglesi si prega per lui, molti indù di alta casta aprono i templi agli intoccabili, permettono loro di usare i pozzi, a volte condividono i pasti, promettono di ammetterli alle scuole e ai servizi sociali. Mentre Gandhi è ormai morente, il primo ministro britannico, il Congresso e Ambedkar accettano di rinegoziare la clausola. È "l'illustrazione più spettacolare di un satyagrahi che esce vittorioso da un conflitto condotto da solo contro un popolo e un governo" (48).

In realtà Gandhi ha raggiunto il suo obiettivo solo in parte, e nel timore che i templi si richiudano e i contatti diradino, nel 1933 inizia una marcia di dieci mesi lungo più di 20.000 chilometri. Va di villaggio in villaggio, organizza cene e concerti affiancando notabili e harijan, raccoglie fondi, prega in pubblico, chiede in dono alle donne i loro gioielli, a volte glieli toglie di dosso - e alcune finiscono per lasciarli a casa (49). L'adesione è spettacolare, ma presto i templi cominciano davvero a richiudersi, e del resto ad Ambedkar e ai suoi seguaci l'apertura era sembrata poca cosa. Molti intoccabili perdono fiducia in Gandhi, una parte non gliela concederà più.

Contro l'India per l'unità

Già nei primi anni Venti Gandhi era talmente convinto della crucialità delle relazioni indù-musulmani, che aveva aderito alla improbabilissima campagna per la restaurazione del califfato ottomano come garante dei luoghi sacri dell'islam. Nel 1924 aveva lanciato un digiuno con la parola d'ordine della fratellanza nella diversità. In ogni iniziativa aveva messo lo spirito di Hind Swaraj, dove all'interlocutore che gli chiede: "Cosa dirai alla nazione?", risponde con una domanda folgorante: "Chi è la nazione?" e prosegue: "l'India non può cessare di essere una nazione perché la gente che ci vive appartiene a religioni diverse [...]. Coloro che hanno preso coscienza dello spirito di nazionalità non interferiscono nella religione altrui; se lo fanno, non sono adatti ad essere considerati una nazione" (50). Era, nel 1909!, una netta adesione al modello di Stato laico e pluriculturale. Il nazionalismo di Gandhi non aveva niente di mistico, di romantico, di etnico; era inclusivo, universalista, radicato nella storia comune del subcontinente, nella comune oppressione e volontà di riscatto. Dividersi gli sembrava una "vivisezione".

Se non che, i musulmani stavano riscoprendo, in parallelo con gli indù, il loro senso di identità nazionale, avevano un leader, Mohammed Ali Jinnah, presidente del partito della Lega musulmana, accesamente separatista, che accusava Gandhi di rallentare il distacco con le sue trattative interminabili, di ricattare gli avversari con i suoi digiuni.

La prospettiva dell'indipendenza fa esplodere le tensioni. Nel '46, falliti gli sforzi di creare un governo provvisorio composto da indù e musulmani, l'odio religioso divampa in massacri reciproci. Tutto il paese è insanguinato e disperato. A causa dell' "idiozia di tutte e due le parti", dice Gandhi (51). Che, con i suoi fragili 77 anni, inizia una marcia di dieci mesi nella ribollente provincia del Noakhali. Va a piedi appoggiandosi alla sua canna di bambù, in auto, in treno - e a ogni stazione le folle si accalcano, salgono sul tetto dei vagoni, battono ai finestrini per avere la sua benedizione, mentre un numero sempre maggiore di capi locali si impegna a proteggere a costo della vita gli appartenenti ad altre religioni. È il primo esempio nella storia di interposizione fra schieramenti in lotta. Ed è una minaccia per gli estremisti indù e musulmani. I primi lo chiamano "Mohamed Gandhi", gli altri lo denunciano come il "nemico numero uno". La maggior parte delle lettere che riceve traboccano di insulti.

Sfiniti e spaventati dalla prospettiva di una guerra civile, i negoziatori del Congresso abbandonano la linea unitaria, e nel giugno del 1947 firmano con la Lega musulmana e i sikh il piano di Mountbatten per la spartizione dell'India. Nasce il Pakistan, Gandhi registra la sconfitta e dichiara pubblicamente che l'India "non ha mai seguito la sua strada" (52). Mentre milioni di profughi si spostano dall'India al nuovo Stato e viceversa, in varie zone si arriva alla pulizia etnica reciproca. I britannici non vedono l'ora di andarsene da questo inferno.

Gandhi ci si immerge. A Calcutta, luogo delle peggiori atrocità, digiuna finché i leader indù e musulmani sottoscrivono un accordo di pacificazione che reggerà per mesi - è l'evento chiamato "il miracolo di Calcutta" (53). Lo stesso succede in Bengala. Gandhi si ferma poi a Delhi, dove sfugge a un attentato e dove il 13 gennaio '48 inizia un digiuno a oltranza, mentre gli estremisti indù gridano "Lasciatelo morire". Cinque giorni dopo, ottiene la firma dei capifazione a un patto di tregua e protezione reciproca. Dodici giorni ancora, ed è assassinato da un fondamentalista indù; stava preparando un incontro interreligioso per la costituzione di un esercito nonviolento, il Shanti Sena (54).

Al primo che accusa dell'omicidio i musulmani, Mountbatten risponde seccamente: "Sciocco! Non lo sai che è stato un indù?". Un membro del suo staff gli chiede come faccia a saperlo, lui risponde: "Non lo so. Ma se è un musulmano siamo tutti spacciati, perciò è bene che sia un indù". Gandhi avrebbe fatto lo stesso.

Venticinque anni dopo, Larry Collins e Dominique Lapierre intervistano Mountbatten, e arrivati a parlare dell'assassinio vedono qualcosa di perturbante: "Quest'uomo, che si vantava di essere un guerriero professionista, un uomo che sarebbe affondato assieme alla sua nave piuttosto che abbandonare il suo posto, piangeva. Piangeva apertamente, senza vergognarsi, mentre raccontava di essere entrato nella Birla House quel pomeriggio di gennaio, e di aver visto il corpo di Gandhi adagiato sul lettuccio di paglia" (55).

Il Gandhi musulmano

Anche quando nella campagna unitaria è più isolato, Gandhi può contare su Abdul Ghaffar Khan, leader della più grande tribù dei pathan (conosciuti oggi come pashtun) della Frontiera, la zona fra India, Afghanistan e l'attuale Pakistan che dopo la conquista britannica era diventata l'estremo Nord-Ovest dell'India. Figlio di un ricco capo tribale del distretto di Peshawar, aveva assistito da ragazzo alla rivolta del 1897, cui gli inglesi avevano risposto distruggendo i raccolti, abbattendo gli alberi, avvelenando i pozzi, demolendo le case - e innescando una guerriglia senza fine.

Ancora giovane, aveva deciso di fare politica e preso contatto con leader musulmani progressisti e comunisti, ma stava ancora cercando la sua strada. La trova nel 1914, quando decide di dedicare la vita alle riforme sociali e all'indipendenza dell'India. Tra il 1915 e il 1918 visita le basse valli della Frontiera, e, nonostante l'avversione dei mullah e gli ostacoli della legge inglese, apre scuole nel suo villaggio di Utmanzai e in altri vicini. Nel 1919, quando i britannici negano ai pathan la modesta autonomia riconosciuta alle altre province, fonda un partito di opposizione che diventerà il più popolare della regione (56). Nel 1920 partecipa alla sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta, si riconosce in Gandhi, lo incontra personalmente nel 1928 ed entra nella sua cerchia. Ma la scelta nonviolenta è precedente, e si ispira al codice d'onore pathan e all'islam. Credente devotissimo, Ghaffar Khan sceglie nel patrimonio religioso islamico gli insegnamenti capaci di combattere l'odio, di svuotare la mistica della vendetta. Nella sua concezione, jihad vuol dire qualcosa di molto diverso da quel che si intende oggi; è la lotta per l'indipendenza e per le riforme, ma soprattutto l'impegno a riformare se stessi (57).

Lui, che ha ereditato il titolo guerriero di Khan, che è detto anche Badshah, il "re dei Khan", diventa un guerriero senza armi e una guida spirituale. Riesce a creare il primo "esercito" nonviolento (ma inquadrato militarmente) della storia, il Khudai Khidmatgar ("servi di dio"), incaricato di aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l'ordine nelle assemblee, sviluppare l'autogoverno. Tutti i pathan possono farne parte, uomini e (nelle intenzioni) donne (58), scelta inaudita all'epoca, purché giurino sul Corano di seguire i principi dell'islam e, se perseguitati, di rispondere con il satyagraha. Come Gandhi, rispetta tutte le religioni perché "Dio manda messaggeri ovunque" (59), valorizza il ruolo delle donne nel movimento e l'istruzione femminile, vive una vita semplice. Come Gandhi, spesso - fra carcere e lavoro politico - trascura la famiglia. A differenza di Gandhi, non fa voto di castità e si sposa tre volte.

L'India si accorge dei pathan durante la marcia del sale (60), quando si viene a sapere che si sono uniti alla lotta. Contro di loro, l'esercito usa carri armati, mitragliatrici, provocazioni per spingerli a reagire con la violenza (61). Senza successo.

Dopo l'accordo fra Gandhi e il vicerè, la regione ottiene la parità politica col resto dell'India e Ghaffar Khan, ormai considerato un santo, il "Gandhi della Frontiera", sceglie la condizione del fakir, il senza terra e senza diritto di voto nella jirga. Il seguito che guadagna gli scatena contro la ritorsione britannica.

Imprigionato per tre anni senza processo, poi bandito dalle sue montagne, al rilascio nel 1934 accetta l'invito di Gandhi a vivere nel suo ashram di Wardha; nuovamente incarcerato, all'uscita, nel luglio '36 torna da lui.

Gandhi ne è felice. Ghaffar Khan è il soldato capace di convertire altri soldati (62), la conferma vivente che anche l'islam include un messaggio di pace, che la potenza del corpo e la dimestichezza con le armi non sono affatto un ostacolo alla nonviolenza - i pathan sono in genere fisicamente imponenti, abituati da sempre ad andare in giro con il fucile in spalla. La loro fama di guerrieri è tale che gli stessi leader nazionalisti ne diffidano, e quando si sparge la notizia che hanno scelto la nonviolenza, i capi politici e militari britannici sospettano un inganno: il satyagraha - pensano con doppio razzismo - si addice ai fragili indiani, femminilizzati da due secoli di ruoli servili; chi possiede la forza non può fare a meno di usarla, perché ai "selvaggi" manca l'autocontrollo (63).

Nel '38, Ghaffar Khan gira la Frontiera con Gandhi, per esercitare i volontari nel Programma costruttivo. Poi prosegue da solo, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai nazionalisti musulmani, dai ricchi khan che non vogliono riforme. Sfugge a due attentati, continua a lottare per chiudere le faide familiari e tribali, cerca di "nutrire l'affamato e vestire l'ignudo", ricorda alle donne la loro parità coranica con gli uomini. Insegna la sabr, la pazienza, ricordando che nel Corano è la virtù cardinale della jihad.

Nel 1940, quando Ali Jinnah lancia la secessione, Ghaffar Khan invita invece la Lega a cacciare gli inglesi e poi a vivere insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli - gli estremisti lo bollano come Khan indù. Ma è attaccato anche da una parte dei pathan, che appoggiano la guerra e non approvano il matrimonio di suo figlio con una donna parsi, e di sua nipote con un sikh convertito al cristianesimo; a qualche inglese sembra "schiavo dei suoi principi", e "un pò matto" (64).

Durante i massacri indù-musulmani, attraversa con Gandhi le regioni più infuocate per mettere pace e testimoniare la fratellanza. Si separano solo al momento in cui Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera, dove i Khudai Khidmatgar stanno proteggendo indù e sikh dai musulmani, e assicurano lealtà al neonato Pakistan, in cui è stata inclusa buona parte della regione.

Ma aver lottato per l'unità del subcontinente è considerato un tradimento, e Ghaffar Khan reagisce accusando il governo pakistano di essere una (irreligiosa) marionetta dei britannici (65). Quando chiede autonomia per i pathan, i Khudai Khidmatgar sono messi al bando, le loro sedi distrutte, la loro memoria sistematicamente cancellata (66). Lui è condannato a tre anni di carcere duro, prolungati a sette, e subito di nuovo arrestato. In un intervallo di libertà, fonda il primo partito socialdemocratico del Pakistan, ma ormai è gravemente infermo - fra prigioni britanniche e pakistane, ha passato 30 anni rinchiuso (67).

Sangue indiano, sangue britannico

Le istruzioni per la marcia del sale sono: non indietreggiare davanti ai fucili spianati, non difendersi neppure alzando le braccia per deviare i bastoni ferrati dei poliziotti, rialzarsi dopo le cadute, non fermarsi per mettere in salvo i feriti. Alcune descrizioni impressionano.

Negley Farson, corrispondente speciale del "Daily News" di Chicago, racconta di un gruppo di sikh: "Il capo sikh era simile alla statua del gladiatore di Roma: un uomo erculeo, con la barba legata alle orecchie. Lo stavano picchiando in testa, continuarono a colpirlo finché il turbante si disfece. Ancora qualche bastonata e i capelli si sciolsero e gli caddero sulla faccia. Ancora un pò di sangue cominciò a colare giù per i capelli neri penzolanti. Lui rimaneva lì, ritto con le mani sui fianchi. Poi arrivò un colpo particolarmente violento e cadde in avanti con il volto a terra. Mi avvicinai al sergente bianco: era tanto sudato per lo sforzo che la sua Sam Browne [modello di cintura] gli macchiava la bianca tunica. Lo fissai con il cuore in gola: tirò indietro il braccio per la stangata finale... ma poi crollò con le mani lungo il corpo. 'Non serve a nientè, disse rivolgendosi a me con un vago ghigno di autogiustificazione. 'Non si può picchiare un disgraziato quando ti sta di fronte in quel modò. Fece al sikh un irridente saluto militare e si allontanò [...]. Il sikh mi lanciò un sorriso sanguinolento e si rialzò per ricominciare" (68).

Il saluto militare è il classico riconoscimento concesso a chi ha combattuto e perso con onore. Solo che l'onore qui sta nel non combattere, e il tocco di irrisione serve probabilmente ad alleviare il doppio scacco di trovarsi nel ruolo del carnefice e di doversi arrendere a un coraggio così diverso. "Vi sfiniremo con la nostra capacità di soffrire", aveva detto Gandhi. Grazie all'esperienza diretta, il sergente capisce più e meglio del funzionario britannico che in quell'occasione parla di "entusiasmo isterico", di "smania del martirio".

Ma Farson racconta anche di una donna che sollevava il suo bambino per farlo colpire sulla testa, indifferente a tutto tranne che a offrirlo alla causa. Per simboleggiare l'inermità offesa, ai bolscevichi è stato necessario l'Ejzenstejn della Corazzata Potemkin, con la famosa carrozzina che rotola giù dalla scalinata di Odessa. Quel che in Urss è rappresentazione, in India è realtà. Che sia una realtà desiderabile è altra questione.

L'autosacrificio ha una lunga genealogia, dai protomartiri della cristianità ai monaci tibetani di oggi, passando per il topos universale del guerriero compassionevole.

Ma che la scelta del sangue comprenda quello altrui e venga da un nonviolento, inquieta. Gandhi non sembra preoccuparsene: è un pragmatico, che coltiva la speranza di limitare la violenza in una circostanza data, non la pretesa di cancellarla dal mondo. Che può rinunciare alla coerenza fra mezzi e obiettivi fino a rasentare il disprezzo per la vita (69). Ed è un uomo devotissimo, che alla morte guarda attraverso il filtro della reincarnazione.

Considerando il medio periodo, si deve a lui (e da ultimo alla disponibilità del governo laburista) se il sangue versato dagli indiani per l'indipendenza è incomparabilmente minore di quello sparso in Algeria, Angola, Rhodesia, o in qualsiasi altro territorio ex coloniale. E se nessuna potenza ha lasciato un possedimento con così poche perdite come il Regno Unito.

Che nel sangue risparmiato vada incluso quello britannico è una ovvietà non sempre ricordata. Quanto sarebbe costata a Londra una guerra di liberazione è facile immaginare, pensando a un popolo di 300 milioni di persone, in cui una parte notevole degli uomini aveva imparato l'uso delle armi nelle campagne militari dell'impero, e in cui era vivo il ricordo della strage seguita all'ammutinamento dei Sepoy? Senza Gandhi, una guerra di guerriglia avrebbe probabilmente trovato appoggio interno (oltre che la simpatia dei socialisti europei e di settori dell'intellettualità inglese). Senza di lui, persino il terrorismo avrebbe potuto affermarsi.

Certo, il Regno Unito restava una grande potenza, ma impoverita dalle guerre e dalla corsa al riarmo. Conservava l'orgoglio guerriero, ma le madri britanniche, stando alle sconsolate inchieste medico-sociali, di guerrieri ne producevano troppo pochi, piccoli di statura, deboli di salute, scarsamente patriottici, vulnerabili a paragone dei pathan delle montagne, che avevano proprie strutture militari, armi nascoste dopo l'invasione britannica e la possibilità di riceverne altre dagli afghani a nord della Frontiera. "Avrebbero potuto condurre la più terribile delle rivolte se non fossero stati guidati da una commovente, persino cieca fiducia in 'Baba Gandhì" (70). E fra gli indiani della pianura, le esplosioni di collera avrebbero potuto trasformarsi in ribellione endemica.

Nel '40, quando gli inglesi restano soli a combattere Hitler, cosa ne sarebbe stato di loro (e del mondo) se l'India si fosse sollevata, o addirittura, come proponeva il collaboratore e poi nemico di Gandhi Subhas Chandra Bose, si fosse schierata con Giappone e Germania?A Londra, la statua di Gandhi al centro del parco di Tavistock Square lo raffigura seduto, in posa meditativa, non come il condottiero di masse che è stato; e lo colloca all'interno di un memoriale dedicato anche a Hiroshima - fra le vittime, dunque, e a lui non sarebbe piaciuto. Che fosse difficile decidere con chi accompagnarlo è vero; forse con nessuno. Ma perché non un memoriale per lui solo, in nome dei tanti ragazzi cui la sua nonviolenza ha risparmiato il destino di quelli francesi in Indocina?*

Incoerente, effeminato, folle

Di Gandhi non si può certo dire che sia stato messo ai margini. Su di lui esiste una mole di opere, una collana di cento volumi raccoglie i suoi scritti. L'elezione a padre di un grande popolo protegge dall'oblio, ma lo imprigiona nell'immagine di uomo di dio. Lo era, lo è sempre stato?Gandhi ha sostenuto due guerre e una spedizione militare, non ha capito la portata della seconda guerra mondiale, nè la frattura storico-politica rappresentata dai totalitarismi, e neppure il genocidio incombente (71). Agli ebrei ha consigliato di andare incontro alla morte in spirito nonviolento. Dov'è il Gandhi secondo cui il satyagrahi non può assistere inerte all'ingiustizia, il Gandhi che rifiutava la passività e riteneva folle lanciare una campagna senza aver preparato gli aderenti? Gli è subentrato, si direbbe, un politico come tanti, che sacrifica la difesa degli innocenti perseguitati alla propria passione - l'unità con i compatrioti musulmani, ostili all'idea di un rifugio per gli ebrei in Palestina.

Quando un carissimo compagno di lotta - forse l'oggetto di una sua passione omoerotica - ormai vecchio e malato attraversa il mondo per supplicarlo di perorare la causa degli ebrei, Gandhi esita, infine scrive a Hitler, firmandosi "il suo amico sincero", nell'illusione di dissuaderlo dalla guerra: come è stato detto di Simone Weil, una umiltà sovrumana può accompagnarsi a un'arroganza quasi oltraggiosa (72).

I suoi digiuni a oltranza sono una forma neppure velata di ricatto, e quando un missionario americano gliene chiede ragione risponde: "Sì, è lo stesso tipo di coercizione che Gesù esercita su di voi dalla croce" (73). "Un potenziale santo può essere una persona molto difficile", scrive Eliot (74). La sua antropologia è segnata dalla contrapposizione fra lo spirito, luogo della salvezza, e il corpo, luogo del cedimento - come per molti intellettuali novecenteschi - e in più è devastata dal terrore della sessualità.

Ma Gandhi è fisicamente coraggioso, terapeutico per il morale del suo popolo, indifferente alla razza, alla religione, allo status. Autenticamente votato alla povertà - alla sua morte, tutti i suoi averi valgono meno di 5 sterline. Dotato di un talento meraviglioso nell'esprimere i concetti più ardui in termini comprensibili a chiunque.

È anche pieno di fiducia negli altri, giocoso, pronto a far ridere i bambini con le sue smorfie e un pò bambino lui stesso. Ironico, come quando, richiesto di un parere sulla civiltà occidentale, risponde: "Penso che sarebbe una buona idea" (75). Gli alti standard, scrive Orwell, non devono far dimenticare le virtù poco appariscenti (76).

Con la sua compassione e le sue ambiguità, il suo candore e la scaltrezza ereditata dagli antenati mercanti, Gandhi è un catalizzatore di sentimenti forti, ed era già così per i contemporanei. Molti grandi del mondo lo consideravano la luce del Novecento. Fra i politici inglesi, i migliori lo appoggiavano, ma Churchill ne era offeso e inorridito, e non pochi speravano appassionatamente che morisse durante un digiuno. Il suo peccato andava al di là dell'indipendenza, era l'impressione che - semplicemente esistendo - si facesse beffe del modello di politica (e di mascolinità) caro all'Occidente.

Un leader che ogni giorno fila la sua bobina di cotone, che si presenta al re-imperatore coperto di un dothi come l'ultimo degli straccioni, espone il suo corpo invecchiato e la bocca sdentata, siede per terra a gambe incrociate, rifugge dalla convivialità maschile, non è un vero politico, nè un vero uomo. Se il suo autocontrollo e il suo coraggio sono indiscutibili, ci si può rivalere chiamandolo "omuncolo", "fachiro mezzo nudo", "simulatore di digiuni" - l'imperialismo è un sentimento piuttosto che una politica (77).

Gandhi lo sapeva, e contro l'idealizzazione dell'età adulta, della mascolinità e della normalità, aveva scelto di essere "irresponsabile, effeminato, immaturo e folle" (78) - corpo estraneo.

Anche negli anni Sessanta-Settanta, chi fa conoscenza con lui si innamora o lo scarta. Le lotte all'Est e gran parte del movimento per i diritti civili si ispirano al satyagraha; gli studenti in Occidente quasi lo ignorano, fa scuola lo psichiatra Fanon, che teorizza il potere liberatorio della violenza degli oppressi. Gli eroi sono Guevara, Ho Chi Min, Mao.

Presto, sull'onda del neofemminismo e degli studi postcoloniali, si farà strada un nuovo sguardo critico su Gandhi, sul suo pensiero in tema di femminilità e mascolinità (79), sul suo ecumenismo che pretende di unire l'elite occidentalizzata, i professionisti, i proprietari terrieri e i contadini poveri (80) sacrificando - detto brutalmente - la lotta di classe a quella anticoloniale (81).

Altri studiosi proveranno ad accorciare la distanza dalle icone rivoluzionarie (e da Marx e Lenin) setacciando la sua opera in cerca di tratti apparentabili, o definendo marginale il suo ascetismo. Ma Gandhi non è meno lontano da Guevara che da Churchill (82); e, come scrive Erikson, "se il satyagraha ha avuto la potenzialità di rivaleggiare con la liberazione del lavoro leniniana e di sfidare altre fedi politiche del XX secolo, la realizzazione dipendeva dalla fedeltà o dall'infedeltà [di Gandhi] alla sua purezza interna" (83).

Rimuovere Gandhi?

E oggi, che sotto i nostri occhi passa di tutto e il suo contrario, che la nostra società sembra impegnata a inverare la profezia di Gandhi sulla sua autodistruzione?In una recente biografia molto ben accolta e qui già citata, Great Soul di Joseph Lelyveld, compare un Gandhi politico mediocre, padre indifferente, autocrate capriccioso, maniaco che tiene il conto di ogni grammo ingerito, di ogni centimetro di pelle da mostrare, di ogni piega del tessuto in cui si avvolge, di ogni esercizio di automortificazione. Un asceta egotico, che da vecchio ama dormire con fanciulle seminude usandole come strumento per mettere alla prova la sua castità, un moralista ipocrita che nasconde un legame omosessuale. In una biografia di poco precedente (84), si raccontano le sue prevaricazioni contro tutti i politici durante le campagne sull'intoccabilità; l'ossessione per le funzioni del corpo, la pretesa di usare i nipoti come segretari e assistenti, l'ipersessualità anche in età avanzata. Si spiega che la più famosa fotografia di Gandhi a Dandi dopo la marcia del sale, è una "ripetizione" dell'arrivo, scattata tre giorni dopo e a 20 chilometri di distanza - ma di quante altre immagini elette a simbolo si può dire lo stesso. Si denunciano i molti aggiustamenti delle due autobiografie. Si sostiene che la sua ambizione non era l'indipendenza o una vita migliore per gli indiani; era raggiungere la propria perfezione spirituale.

Non si tratta di pamphlet, quelli di Lelyveld e Adams sono studi documentati. Solo che presentano come disvelamenti una serie di critiche già circolanti fra gli oppositori di Gandhi (che non nascondeva affatto le proprie abitudini) e in biografie precedenti (85). Viene allora spontaneo chiedersi se la character assassination nel suo caso non sia un pò troppo attraente. Perché è un "santo", il che rende le "scoperte" più ghiotte? O perché, scrive lo stesso Lelyveld, anche adesso, "non lascia tranquilli gli indiani, e nemmeno il resto del mondo" (86).

Tutte e due le cose, probabilmente. Gandhi disturba, specie se incontra l'iperateismo, l'iperrazionalismo, il marxismo militante e altri ismi; e viene ricambiato. Per esempio da Domenico Losurdo, che dedica grande spazio a "smascherarlo" (87). O da Christopher Hitchens (88). Per Hitchens, l'India, che avrebbe avuto bisogno di un moderno leader, si è trovata nelle mani di un fachiro - le parole di Churchill ottanta anni fa. Un fachiro che con i suoi discorsi sull'induismo e le sue ostentazioni di culto, avrebbe incrementato la paura dei musulmani di trovarsi subordinati alla maggioranza indù, spingendoli alla secessione. Un cattivo modello per i popoli oppressi, capace di invitare un dirigente sudafricano a non vergognarsi di indossare soltanto un pezzo di stoffa intorno ai fianchi: "Non è facile - ammicca Hitchens, in questo caso occidentalista inconsapevole - immaginare Nelson Mandela che segue questo semplice consiglio". Un cattivo maestro, convinto che il meglio per l'anima siano la castità e la povertà (89). Un opportunista: lanciare la campagna "Quit India!" nel 1942 significava delegare i giapponesi a combattere per la libertà del paese, mentre quando l'esercito di Hirohito premeva ai confini dell'India, sarebbe stato doveroso prepararsi a una guerriglia. Infine, Gandhi è un totale anacronismo.

Eppure, scrive Judith Brown, come "uomo del suo tempo che pone le domande più profonde anche se non ne conosce la risposta", può essere un uomo per tutti i tempi (90). L'India si è gettata nella modernità più caotica senza saper eliminare l'abisso fra i ricchi e i poveri, nè il peso delle caste. E neppure il crimine degli aborti selettivi di femmine e dell'uccisione di neonate, la violenza contro le donne (91). Ma conta alcuni grandi teorici dell'economia compatibile, pullula di attivisti per la difesa dell'ambiente, ha un primo ministro sikh, ha avuto tre presidenti musulmani, il maggiore partito è presieduto da una donna di origini cristiane. E il Shanti Sena ha fatto da modello per l'interposizione a livello di base.

Gandhi è spesso mal conosciuto, a volte brutalmente distorto: per la sua affezione all'Islam e il suo antico sostegno al califfato si è arrivati a nominarlo precursore di Osama bin Laden (92). Ma ha ispirato grandi critici della modernità, a cominciare da Ivan Illich. E ha trovato eredi non previsti: dai promotori delle sollevazioni arabe del 2011, alle ragazze ucraine del gruppo di opposizione femminista Femen, che manifestano scoprendosi il seno davanti ai poliziotti impietriti - e che avrebbero lasciato Gandhi stupefatto.

Sembra invece spento il ricordo della nonviolenza ispirata all'islam. Inserito nel 1984 fra i possibili Nobel per la pace, Ghaffar Khan viene scartato perché troppo pochi lo conoscono. Dopo l'11 settembre, un articolo di Karl E. Meyer sul "New York Times" lo citava come uno straordinario precedente e una prova della complessità dell'Islam (93) - un'osservazione che non viene raccolta. La Frontiera in questi anni è una zona di insediamento dei talebani, la retorica sui pashtun superguerrieri prospera, per costruire una tradizione democratica il governo afghano ha preferito appoggiarsi a un vecchio re. Questa è l'impressione che si ha guardando all'Occidente e dall'Occidente (94).

Ce n'è un'altra, diversa. Ghaffar Khan muore nel 1988, durante la guerra fra Urss e Afghanistan. Folle strabocchevoli di afghani e pakistani (non solo di etnia pashtun) e di indiani lo accompagnano da Peshawar a Jalalabad: in suo onore, le frontiere sono state aperte, le ostilità sospese (95).

Note

1. Lo fa notare Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 82-83.

2. Ashis Nandy, The Intimate Enemy: Loss and Recovery of Self under Colonialism, Oxford University Press, Delhi 1983, cap. "The Psychology of Colonialism", pp. 1-63. Si tratta del più influente studio indiano di questo taglio, scritto dal direttore del Centro che ha inaugurato la ricerca sulle alternative ai modelli occidentali.

3. Edward Said, The World, the Text and the Critic, Faber and Faber, London 1984, p. 4.

4. L'espressione è di Gianni Sofri, Gandhi fra Oriente e Occidente, in Pier Cesare Bori e Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, il Mulino, Bologna 1985, p. 22. Di Sofri si veda anche Gandhi e l'India, Giunti, Firenze 1995.

5. Mohandas Karamchand Gandhi, An Autobiography. The Story of My Experiments with Truth, trad. inglese, Beacon Press, Boston 1993, p. 172 (trad. it., La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 1983).

6. La più recente e ampia analisi degli anni in Sudafrica si trova in Joseph Lelyveld, Great Soul. Mahatma Gandhi and His Struggle with India, Alfred A. Knopf, New York 2011, alla parte I, pp. 3-133.

7. Mahatma Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj, trad. it., a cura di Rocco Altieri, Quaderni Satyagraha, Pisa 2009.

8. Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 55-57. Gandhi è il primo politico (e l'unico all'epoca) a fare propria questa tesi di Tolstoj.

9. Ivi, p. 84.

10. Ivi, pp. 88-89.

11. Raghavan N. Iyer (a cura di), The Moral and Political Writings of Mahatma Gandhi, Clarendon Press, Oxford 1987, p. 354.

12. Cfr. Dennis Dalton, Mahatma Gandhi: Nonviolent Power in Action, Columbia University Press, New York 2000, p. 38.

13. M. K. Gandhi, Antiche come le montagne, trad. it., a cura di S. Sadakirshnan, Mondadori, Milano 1987, pp. 115-116.

14. Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 86.

15. Il disprezzo per la codardia viene sia dall'eredità britannica sia dall'indiana kapurusatva, in sanscrito la perdita della mascolinità. Gandhi, che insisterà sempre sulla distinzione fra nonviolenza dei forti e dei vili, abbandona il termine resistenza passiva proprio perché gli sembra legato alla seconda accezione. Pontara sottolinea invece l'eroismo di lotte che nascono da situazioni pratiche piuttosto che dalla fede nella nonviolenza; cfr. Giuliano Pontara, L'antibarbarie, La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2006, pp. 79 e sgg.

16. Dalton, Mahatma Gandhi cit., p. 20.

17. Gli ispiratori sono Tolstoj e Unto This Last di John Ruskin (trad. it., Fino all'ultimo. Quattro saggi di socialismo cristiano, Marco Valerio, Torino 2010), della cui magica forza Gandhi parla in An Autobiography cit., al cap. "The Magic Spell of a Book", pp. 297-299.

18. Per Capitini, il meno antropocentrico dei filosofi italiani, bisogna accostarsi con reverenza a ogni creatura vivente, astenendosi dal maltrattare anche piante e fiori, cfr. Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 123.

19. Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 106; An Autobiography cit., pp. 204-210 e 316.

20. In An Autobiography cit., al cap. "My Father's Death and My Double Shame", pp. 29-31, Gandhi racconta come a causa del suo desiderio sessuale per la moglie non sia stato presente alla morte del padre.

21. Giuliano Pontara, Introduzione, in M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, trad. it., Einaudi, Torino 1973 (ora 2006), p. CXXXVII.

22. Vedi l'analisi sul tema e sulle diverse accezioni di violenza in Pontara, Introduzione cit., e in Riflessioni sparse su Gandhi: tra etica e politica, in corso di stampa in italiano e in inglese presso le case editrici Apes e Routledge.

23. Pontara, Introduzione cit., p. XV.

24. Gandhi, Hind Swaraj cit., pp. 76 e 52.

25. Id., Antiche come le montagne cit., p. 171.

26. Id., Hind Swaraj cit., p. 71 e 53.

27. È anche in questo senso che Gandhi vuole liberare i britannici non meno che gli indiani cfr. Nandy, The Intimate Enemy cit., al cap. "The Psychology of Colonialism", pp. 1-63.

28. M. K. Gandhi, Women and Social Injustice, Navjivan Publishing House, Ahmedabad 1954, pp. 26-27, citato in Radha H. Kumar, The History of Doing: An Illustrated Account of Movements for Women's Rights and Feminism in India, 1800-1990, Verso, London 1993, p. 82 (nel testo straordinarie fotografie delle indiane in lotta). Gandhi diceva: "Se fossi nato donna, mi ribellerei contro qualsiasi pretesa da parte dell'uomo che la donna sia nata per essere il suo giocattolo", cfr. Mahatma Gandhi, All Men Are Brothers: Life and Thoughts of Mahatma Gandhi as Told in His Own Words, Unesco, Paris 1958, p. 161. Gandhi specificava anche di parlare per esperienza, avendo avuto come maestra di nonviolenza Kasturba.

29. Nandy, The Intimate Enemy cit., pp. 52-53. Il principio femminile è però anche più pericoloso e incontrollabile.

30. Gandhi, in "Young India", June 11, 1925, citato in Ketu H. Katrak, Politics of the Female Body: Postcolonial Women Writers of the Third World, Rutgers University Press, New Brunswick, NY 2006, p. 87.

31. Krishnalal Shridharani, War without Violence: A Study of Gandhìs Method and Its Accomplishments, Harcourt, Brace and Company, New York 1939, pp. 110-111. Si tratta della prima analisi sociologica dei metodi gandhiani.

32. Katrak, Politics of the Female Body cit., pp. 84 e sgg.

33. Ma nei movimenti di liberazione, anche più vicini a noi, il ritorno a casa è quasi la norma.

34. Ivi, pp. 86 e sgg.

35. Gandhi, in "Young India", October 4, 1928, citato in Pontara, Riflessioni sparse su Gandhi cit., p. 77.

36. B. R. Nanda, Mahatma Gandhi, George Allen & Unwin, London 1989, p. 159, citato in Yogesh Chadha, Gandhi. Il rivoluzionario disarmato, trad. it., Mondadori, Milano 1998, p. 222.

37. Gandhi, ou l'eveil des humilies, è il titolo della bella biografia di Jacques Attali, Fayard, Paris 2007 (trad. it., Gandhi. Il risveglio degli umiliati, Fazi, Roma 2011).

38. L'espressione è di Jawaharlal Nehru, citato in Pontara, Introduzione cit., p. XXI.

39. Gandhi, in "Young India", November 15, 1931.

40. Id., Hind Swaraj cit., p. 93.

41. Cfr. Attali, Gandhi cit., pp. 201-202. Sulla vanità della vittoria e contro i dogmi militaristi cfr. Enrico Peyretti, Dov'è la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli, Negarine di S. Pietro in Cariano 2005.

42. Anthony R. Deluca, Gandhi, Mao, Mandela, and Gorbachev: Studies in Personality, Power, and Politics, Praeger, Westport 2000, p.11; Erik H. Erikson, Gandhìs Truth. On the Origins of Militant Nonviolence, Norton, New York 1993, pp. 434-435.

43. Gandhi, An Autobiography cit., p. 470.

44. Gandhi, in "Harijan", September 29, 1934, citato in Nanni Salio, Il talismano di Gandhi, postfazione a Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 125, dove l'autore discute anche il rapporto fra Gandhi e il concetto di modello di difesa nonviolenta. Di Salio vedi anche Elementi di economia nonviolenta, Movimento Nonviolento, Verona 2001.

45. L'espressione è di Capitini, Il potere cit.

46. Gandhi, discorso tenuto a Borsad (18 marzo 1930), citato in Chadha, Gandhi cit., p. 290.

47. Shridharani, War without Violence cit., p. 68. Per gli stessi motivi, si opponeva anche all'elettorato separato per le classi schedate (Scheduled castes) cioè quelle in condizioni particolarmente disagiate, incluse in un'apposita lista dalle autorità britanniche, cfr. Chadha, Gandhi cit., p. 320.

48. Shridharani, War without Violence cit., p. 66.

49. Lelyveld, Great Soul cit., p. 245.

50. Gandhi, Hind Swaraj cit., pp. 211 e 64-65.

51. Lelyveld, Great Soul cit., p. 313.

52. Chadha, Gandhi cit., p. 436.

53. Vedi la descrizione della nipote Manu, in Attali, Le reveil cit., pp. 523-527.

54. Thomas Weber, Gandhìs Peace Army, The Shanti Sena and Unarmed Peacekeeping, Syracuse University Press, Syracuse, NY 1995, pp. 69 e sgg. Gandhi non pensava a una polizia locale o a un corpo di volontari incaricato di sopprimere le ribellioni, ma a una forza a livello di base capace di prevenirle, e, se scoppiavano, di interporsi fisicamente. La sua fondazione è del 1958, a opera, fra gli altri, dell'erede spirituale Vinoba Bhave.

55. Le due citazioni di Mountbatten si trovano in Larry Collins e Dominique Lapierre, Mountbatten and Independent India, Vikas, Uttar Pradesh 1984, alle pp. 45-46 e IX, citate in Chadha, Gandhi cit., pp. 464 e 469.

56. Jeffery J. Roberts, The Origins of Conflict in Afghanistan, Praeger, Westport 2003, p. 11.

57. Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, trad. it., Sonda, Torino 2008, p. 148.

58. Sulle difficoltà, cfr. Mukulika Banerjee, in The Pathan Unarmed. Opposition and Memory in the North West Frontier, Oxford University Press, Karachi - New Delhi 2000; l'autrice racconta che nelle manifestazioni pubbliche le donne preferivano sfilare separatamente per conservare un residuo del purdha, l'invisibilità femminile nello spazio pubblico, pp. 98-100.

59. Easwaran, Badshah Khan cit., p. 174. Sulla sua vita e dottrina vedi anche Banerjee, The Pathan Unarmed cit.

60. Ad aderire è una minoranza, ma consistente; cfr. Rajmohan Gandhi, Eight Lives: A Study of the Hindu-Muslim Encounter, State University of New York Press, New York 1986, p. 120.

61. Nel bazar di Qissa Khwani manifestanti inermi sono investiti da carri armati, con più di trecento morti, colpiti a freddo tra la folla che rimane ferma. Il massacro è documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp.

62. Gandhi, in "Harijan", October 15, 1938, citato in Ronald Duncan (a cura di), Selected Writings of Mahatma Gandhi, Beacon Press, Boston 1951, p. 90.

63. Shridharani, War without Violence cit., p. 210; per un confronto tra le figure di Gandhi e Ghaffar Khan, e fra indù e pathan, vedi ivi, pp. 212-214 e sgg.

64. Roberts, The Origins of Conflict cit., pp. 63 e 72.

65. Ivi, p. 168. Vedi anche Chand Attar, India, Pakistan and Afghanistan: A Study of Freedom Struggle and Abdul Ghaffar Khan, Commonwealth, New Delhi 1989.

66. Sulla storia dei Khudai Khidmatgar e sulla loro damnatio memoriae, è fondamentale Banerjee, The Pathan Unarmed cit.

67. Easwaran, Badshah Khan cit., p. 250. Vedi anche Abdul Ghaffar Khan, My Life and Struggle: Autobiography of Badshah Khan, Hind Pocket Books, Delhi 1969.

68. L'episodio, come quello seguente, è in Chadha, Gandhi cit., pp. 295-296.

69. Pontara, Riflessioni sparse cit., par. "Virtù marziali e disprezzo per la vita", pp. 27 e sgg. Al tempo della (prima) guerra del Kashmir, nel corso di una preghiera pubblica "Gandhi disse che non avrebbe versato una sola lacrima se tutti i valorosi soldati indiani coinvolti nella difesa del Kashmir fossero stati annientati", cfr. Chadha, Gandhi cit., p. 447.

70. Shridharani, War without Violence cit., p. 212.

71. Infatti associa gli ebrei in Germania agli indiani in Sudafrica, e Buber deve spiegargli che le condizioni sono imparagonabili, Le lettere fra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono pubblicate sotto il titolo Devono gli ebrei farsi massacrare?, in "Micromega", 2, 1991.

72. T.S. Eliot, Prefazione a Simone Weil, The Need for Roots: Prelude to a Declaration of Duties towards Mankind, trad. inglese, Routledge, London 2002, p. VIII.

73. E. Stanley Jones, Mahatma Gandhi, London 1948, p. 143, citato in Nanda, Gandhi and His Critics, Oxford University Press, Oxford 1996, p. 21.

74. Eliot, Prefazione a The Need for Roots cit. p. VIII.

75. Ashis Nandy, Dall'esterno dell'impero. Una critica radicale alla modernità, in Gandhi, Hind Swaraj cit., p. 140.

76. George Orwell, Reflections on Gandhi, in "Partisan Review", 16, 1, January 1949.

77. Il detto, di David Somervell, è in esergo a Nandy, The Intimate Enemy cit.

78. Nandy, Dall'esterno dell'impero cit., p. 168.

79. Sul Gandhi "femminista" esiste una discussione non vasta ma acuta, che ha visto alcune pensatrici su posizioni opposte: da Gloria Steinem (Revolution from Within: A Book of Self-Esteem, Little, Brown and Company, Boston 1992; trad. it., Autostima, Rizzoli, Milano 1992), secondo cui la "riforma" interiore di Gandhi offre un'analogia con la lotta delle donne per la libertà e l'autostima, a Carol Gilligan (In a Different Voice: Psychological Theory and Women's Development, Harvard University Press, Cambridge 1982; trad. it., Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987), che denuncia le contraddizioni fra la sua vita quotidiana e l'etica della nonviolenza. Il dibattito non sempre si misura con la storia del paese, come avviene invece tra le femministe indiane, vedi in particolare Ketu H. Katrak e per il nodo nazionalismo e sessualità Andrew Parker, Mary Russo, Doris Sommer, and Patricia Yaeger (a cura di), Nationalisms and Sexualities, Routledge, New York-London 1992, che affronta il tema in varie realtà ex coloniali.

80. Judith Brown, Gandhìs Rise to Power, Cambridge University Press, London 1972, pp. 322, 343-346.

81. Alcune rivolte contadine dei primissimi anni Venti avrebbero avuto una fisionomia autonoma e politica che Gandhi non raccoglie. Cfr. Gyanendra Pandey, Peasant Revolt and Indian Nationalism: The Peasant Movement in Awadh, 1919-22, e Shahid Amin, Gandhi as Mahatma, in Ranajit Guha e Gayatri Chakravorty Spivak (a cura di), Selected Subaltern Studies, Oxford University Press, New York 1888, pp. 233-274 e 275-342. Nascono in India nell'82 i Subaltern (nell'accezione gramsciana) Studies, che sotto l'influenza di Gramsci si dedicano allo studio di chi soffre la storia e non la scrive.

82. Esempi di analogie fra Gandhi e Guevara in Pontara, Introduzione cit., pp. LXXXV, XC, CXXIII.

83. Erikson, Gandhìs Truth, cit., p. 421.

84. Adams, Gandhi cit., Quercus, Londra 2010.

85. Una fra tante, Chadha, Gandhi cit. pp. 423 e sgg.

86. Lelyveld, Great Soul cit., p. XV.

87. Spesso in modo ingeneroso, vedi l'analisi sull'"ideologia della guerra" in Losurdo, La non-violenza cit., pp. 80 e sgg.

88. Christopher Hitchens, The Real Mahatma Gandhi, in "The Atlantic Magazine", July/August 2011, recensione a Lelyveld, Great Soul cit. Hitchens si definiva "a very conservative Marxist".

89. Ma c'è una differenza abissale fra una diversa concezione dell'uso dei beni e la miseria, che Gandhi, proprio perché amava i poveri, detestava.

90. Judith M. Brown, Gandhi: Prisoner of Hope, Yale University Press, New Haven - London 1989, p. 394.

91. Si arriva persino, in Rajasthan nel 1987, a casi di riemersione del sati (l'immolazione delle vedove sulla pira del marito morto). Le indiane hanno molto per cui lottare; cfr. Katrak, Politics of the Female Body cit., pp. 84 e sgg.

92. Vedi la critica a questa idiozia in James L. Rowell, Gandhi and Bin Laden: Religion at the Extremes, University Press of America, Lanham 2009.

93. Karl E. Meyer, The Peacemaker of the Pashtun Past, in "The New York Times", December 12, 2001, uno dei pochi giornali a dare notizia della sua morte.

94. Per esempio nel libro di Lelyveld, che trabocca di personaggi legati a Gandhi, Ghaffar Khan non esiste.

95. Anche se a Jalalabad quel giorno c'è un attentato, cfr. Valerio Pellizzari, In battaglia, quando l'uva è matura. Quarant'anni di Afghanistan, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 202.


Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo

Dal libro di Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, riportiamo il capitolo terzo "Un maestro" (pp. 53-89)