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Gente comune, a monte e a valle

Possiamo ancora salvare le Alpi Apuane, devastate dal saccheggio di un modello che polverizza intere montagne per estrarre brandelli del suo cuore bianco e destinarli a poche opere d’arte? Sarà dura ma bisogna provarci, direbbero i protagonisti della strenua difesa contro un’altra insensata invasione dello sviluppismo, gli abitanti della Val di Susa. La memoria di una relazione sana con i sentieri e i cavatori del marmo nel racconto di uno degli artefici di una straordinaria amicizia tra persone comuni, quella che cresce nella resistenza all’avanzata di una modernità criminale e insensata Per molti anni, il terzo week-end di ottobre, se non ricordo male la data, salivamo all’Alto di Sella per ricordare Franco. Noi, i suoi amici del clan di Lucca, una ventina all’inizio, numero che gli anni dovevano assottigliare con lo svanire della memoria. Una cappellina posta più in basso, al passo – omonimo di quello dolomitico, famoso per le gesta di Bartali e Coppi – custodiva (e forse lo fa ancora) le effigi di due giovani studenti che dalle Apuane erano stati stregati, fino all’abbraccio mortale, nel 1951.

Era un impegno immancabile. Da Lucca in autobus fin poco sopra Castelnuovo, nel primo pomeriggio del sabato, appena finita la scuola che allora ci tormentava per sei giorni su sette. Poi, ormai a buio, a piedi, a tratti cantando, sempre chiacchierando a gruppetti, fino a Vagli Sopra, costeggiando l’omonimo lago. Qui iniziava la salita lungo la via Vandelli, una mulattiera storica che da Reggio nell’Emilia portava a Castelnuovo, dove aveva governato l’Ariosto per conto degli estensi di Ferrara. Si proseguiva poi verso il mare, una volta superata la conca di Arnetola, che la mattina dopo, vista dall’alto, alle luci dell’alba, ci avrebbe incantato con le mille tonalità di rosso, di giallo e di marrone dei boschi pronti a spogliarsi impudici di fronte all’inverno incombente.

Di tanto in tanto, costeggiavamo una delle poche cave di marmo allora esistenti lungo il percorso. Una breve sosta per contemplare, alla luce di rudimentali lampade, il lungo filo elicoidale che, opportunamente bagnato e sabbiato, caparbio si faceva strada nella pietra bianca altrettanto caparbia e resistente. Poi il filo si perdeva lungo tortuosi e invisibili percorsi per riapparire, ormai raffreddato, e assoggettarsi di nuovo all’ingrato compito. Un rapido saluto coi “cavatori”, loro assorti in un lavoro quasi brutale, noi spensierati liceali in gioiosa comitiva, e poi via.

Alla fine ci fermavamo, prima o dopo, a seconda della stanchezza, in uno dei prati di questo versante e, due a due, piantavamo le nostre “canadesi”, un tenue riparo dalla notte ormai gelida. Ricordo che un anno, per giovanile e orgogliosa sfida, con Giulio, amico di successive altre “bravate”, volemmo salire già fino al passo e dormire “a la belle étoile”. Questa arrampicata annuale costituiva la celebrazione di un’amicizia allora granitica e gioiosa ed era la sfida con la nostra irruente giovinezza.

Questo l’appuntamento immancabile, ma le Apuane erano per noi un irresistibile richiamo lungo tutto l’anno: il Pisanino, l’Altissimo, la Tambura, il Macina, il Rondinaio, il Pizzo d’Uccello, Pratofiorito, Orto di Donna … Una lunga lista di nomi pieni di fascino ed evocanti ciascuno una precedente dura salita, un fuoco di bivacco, un’accesa discussione. Una volta decidemmo di compiere in una settimana la traversata dall’Abetone al mare, attraversando le Apuane, appunto. Non avremmo incontrato che fortuitamente luoghi abitati per cui avevamo riempito gli zaini di scatolette di carne simmenthal e sardine. Tutti meno che Alberto, il filosofo della compagnia, che, stregato da Kant, aveva deciso di sopravvivere con il latte dei pastori che certamente avremmo trovato cammin facendo. Mal gliene incolse, e dovette più volte contrattare duramente una scatoletta con qualcuno di noi, deciso a fargli pagar caro il ritorno coi piedi per terra.

Anni dopo, proprio con Alberto, ormai studioso affermato, e con un amico inglese, compagno di lavoro a Firenze, risalii ancora una volta il passo Sella, in una giornata settembrina di sole. Era iniziato un periodo in cui la gente sembrava disertare le Apuane, troppo faticose come alternativa a svaghi più immediati. Incontrammo solo alcuni incalliti amanti della montagna. Questa diserzione durò alcuni anni, poi la malìa della montagna iniziò ad attrarre nuovi innamorati. Mi dicono che le Apuane, oggi, sono meno deserte.

…alla Val di Susa

Il salto sembra arbitrario. Sabato 2 novembre il piccolo gruppo di amici lucchesi, che a luglio era salito in Val di Susa per dissipare la nebbia della mala informazione, ha invitato alcuni degli amici colà incontrati, per una serata pubblica a Capannori dal lemma “Perché una valle resiste?”. Nel mare di disinformazione che circonda le vicende della Val di Susa – appena una goccia nel mare di quella che modella, distorcendola, la “opinione pubblica” a livello più generale – ci sembrava un’occasione per coinvolgere altri amici alla luce dell’esperienza del nostro viaggio in Val di Susa.

Eravamo tornati affascinati dalla resistenza della maggioranza di quei valligiani, iniziata vent’anni prima e tuttora viva e determinata. Trasversale rispetto a ideologie e partiti politici e mai violenta, quella resistenza, difficile ma non scoraggiata (“Sarà dura”, il motto scelto), senza leader né portavoce ufficiali, che spesso piegano a proprio favore le circostanze introducendo divisioni. Nell’assurdità del dispendioso e inutile progetto, in Val di Susa la gente ha trovato le ragioni per elaborare un’analisi che va al di là del localismo e della deprecata sindrome “nimby” (“non nel mio giardino”), per giungere ad una critica ragionata di un modello di civiltà ogni giorno più chiaramente assurdo. Volevamo condividere quell’analisi.

Così quasi cento persone comuni hanno consumato assieme, in modo conviviale, il pane dell’amicizia. Hanno tessuto i fili di una possibile alleanza, scoprendo che le ragioni per cui una valle resiste al suo ulteriore stupro sono presenti anche nel nostro territorio. Sottolineo quel “comuni” che ci ha francamente rallegrato. Pochi i militanti, i “politici”. Gente comune, invece, che ha voluto portare una solidarietà sincera e non chiassosa. Qualcosa sta cambiando?

Di nuovo alle Apuane

Amici di un movimento locale spontaneo, dal basso, dal nome “Salviamo le Apuane”, avevano proposto di proiettare, nel corso della cena, un video sullo stupro, invisibile a noi “cittadini”, delle nostre più belle montagne, quelle che continuiamo ad ammirare da finestre lontane nelle luci rutilanti dei tramonti autunnali. Quel video è stato per me come una dolorosa sferzata, mi ha fatto sentire impotente e mi ha offeso vedere come la “tecnologia” polverizza in un attimo un milione di tonnellate di quelle che all’improvviso ho sentito di nuovo come le “mie” montagne.

Oggi, quelle montagne, sono sole e indifese. Nei miei ricordi erano sì aggredite dall’uomo, ma in una sfida più umana, da uomo a montagna, con quel lento filo di acciaio che avanzava a fatica, giorno dopo giorno, notte dopo notte, arrecando ferite gravi ma limitate e non insanabili. Oggi la sfida è portata da mostri di acciaio con zanne terrificanti, nuovi tirannosauri spaventosi nella loro voracità. La montagna cede con una cadenza straziante pezzi immensi del suo cuore bianco,  solo il 5 per cento del quale viene trasformato in opere d’arte. Il restante 95 serve al “progresso” anonimo e inesorabile, a un consumo industriale insensato.

Denaro contro bellezza. Guardate qui sotto il video Aut-Out. Capirete il senso di smarrimento e la ribellione che ho provato rendendomi conto di aver tradito, abbandonandole, le montagne alle quali sono debitore di alcuni dei momenti più belli e formativi della mia giovinezza. Non posso far nulla per arrestare questo strazio. Oppure no. Forse, invece, qualcosa da fare c’è, se riusciremo a essere in tanti. “Sarà dura”, direbbero Eleonora, Alberto e Chiara, “ma ce la faremo”. Assieme. In Val di Susa come qui.

Fonte: Info-Comune