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Oltre l'accidia

Doveva essere un periodo di bonaccia dopo essere usciti dalle mani di quel miles gloriosus di nome Donald Trump e dai connessi sovranismi che avevano gettato il mondo nella febbre fino alla minaccia della guerra atomica e di un’arma, aveva detto il presidente americano, come mai si era vista prima. Doveva essere un periodo di ripresa per lenire le ferite, per uscire dai patimenti della pandemia, della paralisi che essa aveva creato, della sua potenza centrifuga, separatrice. Bisognava ricominciare a tessere legami sociali e rapporti di prossimità, anzi di cooperazione, di comunione, di amore, tornare nel mondo, venire al mondo di nuovo come a un mondo uno.

E invece siamo caduti in uno stato di profonda accidia. È uno stato di “una certa tristizia”, come lo definisce san Tommaso e lo chiama san Gregorio Magno, una sorta di impotenza a operare il bene, per questo il suo contrappasso infernale è l’inazione, e il luogo in cui lo ospita Dante è il quinto girone dell’inferno. È un acconciarsi al mondo com’è, come sta diventando senza il lume di un’iniziativa che lo riscuota, di un tentativo di superamento, con i poveri sempre più dilaganti sulla terra, in pena, ignari del loro domani se pure visto come possibile, e i forzieri sempre più pieni di denaro, le disparità giunte alle stelle, e inutili perché a che serviranno le ricchezze quando pure sarà consentito agli eccentrici ricchi di fare il viaggio sulla luna?

La ripresa dell’attività diplomatica, Biden in Europa, i vertici di Cornovaglia e di Ginevra, il rilancio chissà perché della guerra fredda, il dare dell’assassino all’antagonista storico, Stati Uniti e Russia in conflitto e dietro la Cina, e di mezzo lo spettro della lotta di tutti contro tutti. Ma intanto almeno una cosa è stata data per certa nell’incontro di Putin con Biden, il democratico con le armi addestrate sempre pronte all’uso, una sola è stata dichiarata con forza, che una guerra nucleare non può essere vinta da nessuno e che perciò non dovrà mai essere combattuta. E meno male che è una ragione sufficiente. Altrimenti l’accidia di giungere rotolando fino all’esito distruttivo dell’attuale corso suicida si lascerebbe andare fino alla fine.

No, non così. Bisogna andare invece dall’altra parte, bisogna andare all’altro esito possibile ed opposto. Occorre ripartire dal primo nodo del tessuto che disegna la trama del mondo, sapendo che le differenze tra uomini popoli culture sono accidenti, l’unità l’eguaglianza l’affinità sono la sostanza.
Abbiamo proposto di mettere in campo una Costituzione della Terra: cioè un diritto che, al disopra delle pluralità feconde, consegua di dar regole di vita e supporto di garanzie per tutti. Questo non vuol dire partire dagli Stati, vuol dire partire dai popoli e andare verso un solo popolo, farne maturare la cultura in un processo lungo e fecondo, che non si improvvisa in un mese o in un anno. Per questo il cammino sarà lungo, ma che intanto cominci.

Gli Stati sono gravemente compromessi nelle loro pratiche distruttive, difficilmente possono farsi avvio del mondo nuovo. Si prenda Israele, il nome da cui doveva venire la salvezza delle Genti, ora segno di contraddizione nel cuore del Medio Oriente; esso è piuttosto l’ostacolo su cui incespica ogni speranza.

Nell’assemblea del 5 giugno 2021 che ha rilanciato oltre la pandemia “Costituente Terra”, così lo abbiamo evocato come fattore e ostacolo di ogni sogno futuro, nelle linee della sintesi che ne è stata raccolta da Enrico Peyretti:

  • “La verità è il tema di cui ha bisogno il mondo. Vedere dove stanno i nodi. Non rassegnarsi all’impotenza. La questione palestinese sembra senza uscita (e come tale sul piano storico politico la giudica un numero speciale di “Limes”), ma è imprescrittibile, non si può lasciare irrisolta, è ineliminabile. È un conflitto tra due parti di una unità, l’unità del mondo nella pluralità delle culture, è figura della dissociazione conflittuale messa di traverso oggi tra l’ebraismo e il resto dell’umanità.

  • Si può prescindere, nell’affrontarla, dalla questione religiosa? La risposta “laica” lo sostiene, immagina che si possa ignorare il nodo del sionismo, di fatto esclude la componente religiosa dal computo del futuro, non la assume positivamente come parte del problema nella società di tutti. Ma ciò non è possibile. Tuttavia il problema non è quello che si convertano nella fede singole persone, bensì quello di un ripensamento della stessa religione, che ripensi l’ebraismo come il cristianesimo ha ripensato se stesso. È questo il processo attraverso il quale , da impedimento alla pace, Israele (popolo e Stato insieme) può diventare fattore e addirittura causa di pace e di unità, quando tutto Israele, “pas Israel”, sarà salvato, come dice la lettera ai Romani, e sarà germe di benedizione per tutte le nazioni Dentro l’ebraismo c’è la promessa di salvezza di tutti, di tutto, in un mondo di popoli uguali che “disimparano l’arte della guerra” (Isaia 2,4). L’orizzonte non è il sionismo, è la profezia.
    Questo è il sogno attivo del futuro, rimesso però nella storia. Il progetto di Abu Dhabi, il sogno enunciato dal papa a Ninive , la città che non fu distrutta.

Con i più cordiali saluti

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