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Il movimento delle donne. Intervista a Lea Melandri

Un dibattito, quello sul 13 febbraio, che non a caso ha rimesso assieme le femministe storiche, perché i temi erano quelli di allora: il corpo, la sessualità...; l'ambivalente dimensione della cura, un potere sostitutivo usato dalle donne in mancanza d'altro; l'assenza, nel femminismo, della parola amore.

- Barbara Bertoncin: Il dibattito scatenato dalla manifestazione del 13 febbraio, curiosamente, ha visto le femministe storiche assumere delle posizioni molto simili, nonostante le divisioni che in passato le avevano viste in conflitto.

- Lea Melandri: È vero. Chi ha seguito un pò il mio percorso sa che ho scritto a lungo e in modo critico rispetto al "pensiero della differenza", così come ha preso forma negli scritti della Libreria delle donne di Milano. Il mio rapporto con Luisa Muraro, cominciato nel 1967, ha avuto non pochi momenti di divergenza. In quest'occasione, invece, il femminismo storico ha assunto posizioni molto simili. Ciò non deve stupire, perché al centro della manifestazione c'erano i temi fondamentali di quella che è stata la rivoluzione del movimento delle donne degli anni Settanta. Mi riferisco al corpo, alla sessualità, al rapporto di potere tra i sessi: temi insoliti per la vita pubblica. In quegli inizi, infatti, si manifestava sulla questione della maternità, dell'aborto, della violenza sessuale, del divorzio, cioè su quello che è stato storicamente il "privato" e che il femminismo è andato a ridefinire dicendo: "Nella vita personale è stata confinata gran parte della storia non scritta della politica e della cultura". Molti rapporti di potere passano all'interno delle case, nei rapporti di coppia, nella famiglia, attraverso una sessualità che è stata ridotta a funzione procreativa o messa al servizio del piacere maschile. La grande rivoluzione degli anni Settanta è stata portare allo scoperto una materia ritenuta tradizionalmente "non politica", confinata nel vissuto del singolo.

Le vicende essenziali degli esseri umani - il nascere, l'amore, la sessualità, l'invecchiamento, la morte - sono state, paradossalmente, considerate insignificanti per la storia, per la politica e per la cultura.

 

- Barbara Bertoncin: Qual è il grande cambiamento tra gli anni Sessanta e la situazione attuale?- Lea Melandri: Oggi il corpo, il privato, la vita intima, la fanno da protagonisti nella vita pubblica. In virtù di che cosa? Purtroppo non solo e non tanto come effetto della cultura del femminismo, e tanto meno nei modi in cui ci si era prospettate il cambiamento.

Noi partivamo dal corpo - il luogo più lontano della politica - ma con l'idea che da lì potesse nascere uno sguardo nuovo e diverso per interrogare la vita pubblica, le sue istituzioni, i suoi saperi.

La grande ambizione di quel movimento si esprimeva in una formula che ora, a distanza, fa tenerezza: "modificazione di sè e del mondo", dicevamo.

Rossana Rossanda ebbe allora a dire: "Sono andate nelle lande più deserte, persino nell'inconscio", riconoscendo che nello scavo in profondità inesplorate c'era qualcosa che scardinava la storia della sinistra: non un suo complemento ma una "cultura antagonista", che la metteva in discussione alla radice. Non a caso, ai livelli alti della cultura e della politica, il femminismo trovò un muro. Lo ha riconosciuto poco tempo fa la stessa Rossanda, a cui mi lega una lunga amicizia: "Non vi abbiamo contrastato, vi abbiamo proprio osteggiato", mi ha detto. Al che le ho risposto: "Beh, dovevi dirlo prima, forse qualcosa cambiava!".

 

- Barbara Bertoncin: Tu hai visto con sospetto soprattutto questa chiamata in soccorso rivolta alle donne...

- Lea Melandri: Diciamo la verità: la questione sesso-denaro-potere comincia molto prima del 13 febbraio. La discussione risale a più di un anno fa con la "questione Noemi" e l'uscita pubblica di Veronica Lario. Ricordo che il primo articolo che ho scritto allora si intitolava "Antiberlusconismo e conflitto tra i sessi". Già lì avevo visto delinearsi qualcosa che destava in me una certa diffidenza. In particolare mi insospettiva veder incanalata tutta la questione uomo-donna, che è enorme e complessa, nella figura e nel ruolo del Presidente del Consiglio.

Il mio timore era che, incanalando la problematica del conflitto tra i sessi e il tema sesso-denaro nella figura di Berlusconi, inevitabilmente il dibattito non solo si sarebbe impoverito, ma ne sarebbe uscito completamente deformato.

Una vicenda che parla dei nessi tra sfera personale e sfera politica si riduceva al privato di una figura pubblica di alto rilievo: la politicità della questione veniva solo dal fatto che toccava un'istituzione della politica.

Io ho seguito attentamente il dibattito così come è emerso allora e ricordo bene che a discutere del corpo delle donne, di sessualità, denaro e potere, erano quasi sempre solo uomini. Ogni tanto qualcuno faceva riferimento allo slogan del femminismo, "il personale è politico", ma più in là non si andava. In quell'occasione la cosa più ovvia sarebbe stata chiamare qualcuna delle donne che si sono occupate di questi temi, ma nessuna di noi è stata anche soltanto intervistata.

Seguì poi la chiamata alla mobilitazione da parte di due giornali - "La Repubblica" e "L'unità" - che quasi mai si erano occupati della cultura femminista. Nel momento in cui viene allo scoperto la questione Berlusconi-Noemi-D'Addario, improvvisamente la parola femminismo torna in auge. Per tanti anni era stata impronunciabile. Quando mi invitavano a conferenze e mi chiedevano "Lei come vuol essere presentata?", io dicevo: "saggista, scrittrice, femminista". "Ah, signora, no. Femminista non si può dire". Quasi fosse una parolaccia.

Non solo, sempre nel corso di quella estate, a un certo punto, sulla "Repubblica" leggo un articolo di Nadia Urbinati che parla del "silenzio del femminismo". Non ci ho visto più: il silenzio era stato "sul femminismo", non "del femminismo"! Mandai anche una lettera a Corrado Augias che, ovviamente, non venne pubblicata.

Questo per dire che l'impressione di strumentalità, in quella chiamata alla "rivolta delle donne", non era poi così peregrina. Quando dico che delle donne ci si occupa solo quando servono, intendo questo.

È una storia vecchia. Nell'immaginario dei sessi che abbiamo ereditato, le donne sono o i corpi erotici che provocano un'irrefrenabile desiderio maschile (quindi dannazione, colpa e peccato) o lo spirito integro che può salvare una civiltà in declino. La donna angelicata e la prostituta sono due figure classiche. Per questo, a proposito del 13 febbraio, io ho scritto "Noi non siamo l'esercito della salvezza", e Luisa Muraro: "Noi non siamo le truppe ausiliarie". In sostanza, intendevamo dire: "Noi non ci stiamo a essere la risorsa a cui si ricorre solo nel bisogno".

Quindi le critiche, i dubbi, gli interrogativi sono venuti a ragione, secondo me, ed è emblematico che siano partiti da chi su questi temi riflette e scrive da oltre quarant'anni. Spero tuttavia che questa volta le donne abbiano la forza di restare in relazione fra di loro, anche confliggendo, contrastandosi, ma senza contrapporsi, senza pensare che chi muove critiche sia un nemico, uno che lotta "contro".

Io ho sofferto molto per questa logica contrappositiva. Sui palchi, a Roma e a Milano, c'erano amiche a me molto care, con cui lavoro da anni e che si sono viste attaccate dai miei articoli sugli appelli del 13 febbraio.

Nei collettivi femministi degli anni Settanta non mancavano divergenze, ma non era così importante il fatto che alcune aderissero e altre no a una manifestazione. Alcune andavano e altre no. Importante era che discutevamo sempre insieme, nelle stesse assemblee, prima, durante e dopo. Quello che contava era la riflessione che accompagnava questi avvenimenti e che durava mesi, anni. Alle manifestazioni di allora tante donne del femminismo non sono mai venute. Quando Luisa Muraro, Lia Cigarini, Daniela Pellegrini hanno detto: "Noi non andiamo", io non ho potuto fare a meno di pensare: "Beh, non sono mai andate". Io invece andavo sempre e anche il 13 febbraio ho partecipato, sia pure con un certo disagio, per tutto quello che degli appelli non avevo condiviso.

Non vorrei che ora il fatto di esserci state o meno diventasse la ragione di altre divisioni. Il movimento delle donne è articolato. Gli uomini se ne dicono e se ne fanno di tutti i colori tra di loro. Perché noi dobbiamo essere sempre un corpo unico, indifferenziato al proprio interno? Quando vedono che abbiamo divergenze tra noi, il commento è "beghe tra donne". Come mai il femminismo non dovrebbe avere posizioni diverse? Perché non possiamo sostenere un conflitto? Il conflitto non è la guerra. Il conflitto è la vita, è la libertà di poter dire sono d'accordo, non sono d'accordo, è fonte di grande vitalità.

 

- Barbara Bertoncin: Le femministe sono state accusate di non aver fatto abbastanza per impedire che si diffondesse questa immagine degradata del femminile ridotto a corpo in vendita, corpo esposto, corpo immagine eccetera...

- Lea Melandri: In realtà noi sul corpo delle donne abbiamo scritto e detto tantissimo. Se almeno qualcosa fosse stato raccolto, forse l'immagine del femminile che vediamo oggi in televisione e nella pubblicità sarebbe un pò diversa. Purtroppo i mezzi di comunicazione non hanno mai dato voce al modello che andava nascendo da una consapevolezza nuova dei rapporti uomo-donna. Di questi altri modi di essere donna, che si venivano diffondendo nella società, i media non si sono occupati.

A pensarci bene, il "bunga bunga" noi lo vediamo tutte le sere negli studi tv. Berlusconi, usando del suo potere e della sua ricchezza, è come se avesse trasferito nelle sue ville un format televisivo, ad uso esclusivo proprio e dei suoi amici. Ma la domanda è legittima: perché c'è stata esitazione a denunciare il degrado crescente nella rappresentazione del femminile? Perché non siamo intervenute tempestivamente? Perché non abbiamo fatto manifestazioni prima?Direi che ha contato per molte la preoccupazione di sembrare moraliste e bacchettone, il rischio di contrapporre alla donna che si esibisce come corpo erotico, l'immagine dignitosa della brava moglie, della buona madre, della inappuntabile professionista.

Qui si tocca una questione di fondo. Noi abbiamo sempre sostenuto che c'è offesa alla dignità delle donne, alla loro libertà, anche quando vengono ridotte al ruolo di madre, non solo quando si pongono come oggetto del desiderio. Il corpo femminile è "al servizio" sia quando dà piacere sessuale sia quando si prodiga per la conservazione della vita.

Perché non dovrebbe offendere lo sfruttamento che viene fatto del lavoro di cura, un lavoro gratuito, non riconosciuto come tale e considerato "naturale" compito femminile?

 

- Barbara Bertoncin: Un altro rimprovero che è stato mosso alle femministe è di non essersi occupate delle istituzioni...

- Lea Melandri: Io appartengo a quella parte di femminismo che non ha sottoscritto lo slogan che faceva da titolo al libro della Libreria delle donne, Non credere di avere dei diritti...

Io credo che i diritti siano importanti, che le leggi abbiamo un valore forte. Il fatto che ci siano una legge sull'aborto, sul divorzio, oltre a modificare le condizioni reali e materiali nei rapporti fra uomini e donne, ha anche un valore simbolico. Quando un cambiamento viene iscritto in una legge diventa visibile. Non sono quindi pregiudizialmente contraria, penso però che le leggi e i diritti non scalfiscano la realtà a fondo, anche perché spesso non vengono applicati. Basta andare in un asilo o in una scuola elementare per accorgersi che i modelli del maschile e del femminile sono già presenti, precocemente, nei bambini.

C'è poi un altro discorso da fare. Ci possono essere diritti e leggi che garantiscono una presenza delle donne nelle istituzioni, nella vita pubblica, e che siano invece le donne stesse a non volerne usufruire. Lo rilevava già Sibilla Aleramo all'inizio del '900. Vanno bene - diceva - l'emancipazione, l'uguaglianza, ma quando sono le donne stesse che, obbedendo ad altre regole interne, di educazione, non ne vogliono sapere?Si può conquistare il cinquanta e cinquanta nelle candidature e non trovare le donne disposte a candidarsi. Questo pone un interrogativo che ci costringe a spostare l'attenzione altrove. Non si tratta di escludere la strada delle leggi: sono convinta, ad esempio, che una legge che imponga il congedo parentale obbligatorio per gli uomini - Susanna Camusso ha espresso questa posizione - qualche effetto lo produrrebbe. Nel Nord Europa qualche risultato c'è stato. Però anche lì: basta l'imposizione dall'alto per cambiare profondamente le cose? Io penso di no.

 

- Barbara Bertoncin: Tu definisci quello tra uomo e donna un "dominio particolarissimo". Puoi spiegare?

- Lea Melandri: Perché è così difficile portare allo scoperto, dopo millenni, la questione uomo-donna? Se siamo ancora qui a parlarne, è perché sicuramente non è un domino come gli altri. È una violenza che si è confusa con l'amore. Nasce un rapporto d'amore e, chissà come, da lì dentro, escono pulsioni aggressive. Gli omicidi in famiglia la dicono lunga su questa confusione, ma anche su quello che è stato un tema centrale nella storia del femminismo: cioè la ricerca dell'autonomia di pensiero. Nel momento in cui abbiamo cominciato a raccontarci le nostre vite ci siamo infatti accorte di quanto il nostro modo di vivere, di percepirci, fosse segnato dalla visione del mondo dell'uomo.

 

- Barbara Bertoncin: Tu in questo però vedi anche una corresponsabilità femminile...

- Lea Melandri: Se è vero che le donne hanno in mano la vita degli uomini - li mettono al mondo, li accudiscono da piccoli, li seguono nella scuola, li curano fino alla morte - come mai gli uomini crescono così male? è chiaro che una domanda va posta anche alle donne. È una questione che sollevo da sempre e ogni volta l'obiezione è: "Colpevolizzi le donne". Ora, è vero che le donne sono all'origine vittime di un dominio, che le ha costrette all'obbedienza, alla sottomissione, sfruttate eccetera. Resta il fatto che gli uomini nascono dalle donne. Come mai un tenero figlio diventa un truce violentatore? Se lo chiedeva anche Virginia Woolf, che tendeva però a rispondersi: "è la società maschile che li corrompe".

Io penso che invece la vicenda vada dipanata all'origine. Chi ti mette al mondo è visto da un bambino come una potenza, non una vittima. Si può fare anche l'ipotesi che il dominio, all'origine, sia stato la risposta, il modo maschile di tenere a bada questa potenza.

Sono temi che il femminismo ha intuito, senza andare fino in fondo. Per esempio il problema dell'amore, e della confusione tra amore e violenza, non è stato analizzato. Amore è una parola che nel femminismo si sente pochissimo.

 

- Barbara Bertoncin: Nel sacrificio di sè delle donne, in questo prodigarsi per la vita dell'altro, anche rinunciando alla propria esistenza, tu vedi qualcosa di più drammatico che nell'uso del corpo femminile in chiave erotica.

- Lea Melandri: Io ho lavorato molto su questo tema perché penso che nella maternità, e nel modo con cui viene esteso indebitamente il ruolo materno, ci siano dei nodi da affrontare.

Oggi è molto più facile spostare l'attenzione sul corpo erotico, che non sul versante del materno. Perché quest'enfasi sul tema della sessualità? Noi siamo imbevuti di cultura cattolica, per cui un comportamento scandaloso sessualmente viene riportato subito a categorie morali: le donne "per bene" e le donne "per male". Difficile nel nostro paese dire "la sessualità è un fatto politico".

Infatti l'appello di Concita De Gregorio era rivolto "alle madri, alle sorelle, alle donne che curano le loro famiglie, alle brave professioniste", indicate come "le donne reali". E le altre cosa sono? Le Barbie delle pubblicità, le veline, le escort sono solo figure di cartapesta?Dobbiamo avere il coraggio di dire che sono reali anche loro e di chiederci come mai oggi la libertà per alcune donne vuol dire "il corpo è mio e lo vendo io, a chi mi pare, a quanto mi pare", che non è esattamente quello che dicevamo negli anni Settanta.

Parlavamo allora di riappropriazione del nostro corpo, un corpo espropriato nel momento in cui viene ridotto a obbligo procreativo, a sessualità di servizio. Era un discorso che andava alla radice, vedendo l'alienazione più profonda della donna nel fatto di non essere riconosciuta come individuo, come persona, in nome di un'ideologia secondo cui le donne essenzialmente apparterrebbero più alla natura che alla storia.

Dobbiamo quindi essere molto attente al protagonismo che va assumendo il "femminile" nella vita pubblica. Il femminile è l'identità, il ruolo che gli uomini storicamente hanno attribuito alle donne. Il famoso "valore D", di cui parlano sempre "Il Sole - 24 ore" o il "Corriere della sera", non sono altro che le doti femminili tradizionali che oggi vengono richieste dalla nuova economia, dai servizi sociali.

Per questo tutta questa enfasi sulla femminilizzazione dell'economia e della politica va accolta con spirito critico. È proprio mettendo in discussione "femminile", "femminilità" che abbiamo costruito la nostra autonomia, affermando che non siamo un corpo al servizio della sessualità maschile, ma nemmeno le custodi della continuità della vita.

 

- Barbara Bertoncin: Dicevi che la dimensione della cura è un luogo di potere femminile molto ambivalente, puoi spiegare?

- Lea Melandri: Su questo bisogna avere le idee chiare. La cura è un potere. Rendersi indispensabili agli altri è stato un drammatico potere sostitutivo che le donne hanno usato in mancanza anche di altri poteri. Far da madre a un bambino, ma anche a un uomo adulto, che si può benissimo curare da solo, che è perfettamente autonomo, è una estensione indebita della maternità. Da questa dedizione totale all'altro, che crea dipendenza, nasce fatalmente una pulsione aggressiva volta a rompere il legame.

È una materia molto complessa, tanto più che oggi è in campo tutto l'arco delle problematiche che ha sollevato il femminismo - anche perché sono saltati i confini tra privato e pubblico. Per questo dico che non ci stiamo alle semplificazioni e non ci stiamo soprattutto a incanalare queste tematiche dentro a battaglie che vengono da luoghi della politica e della cultura che del femminismo non hanno mai tenuto alcun conto. È giusto essere molto sospettose, attente e vigilanti su questo.

Tornando al discorso sulla cura, io penso che il fatto che un bambino si trovi davanti il corpo femminile dall'infanzia fino alla tomba abbia un'influenza negativa sulla sua formazione, che lo spinga inevitabilmente a posizioni di difesa. Io ho insegnato a lungo nei corsi 150 ore a uomini e donne e quando parlavamo di queste questioni gli uomini dicevano: "Ma come? Le donne sono fortissime. A casa è mia moglie che comanda!". Sotto un certo aspetto gli uomini dicono il vero, perché se sono le donne che li nutrono, li curano, si prendono la responsabilità dei figli, è chiaro che ai loro occhi appaiono potenti.

La fragilità maschile è innegabile: gli uomini conoscono le donne nel momento in cui sono più dipendenti, più bisognosi, inermi. Le armi le tirano fuori dopo, forse proprio per reazione a una minaccia permanente, quella di essere infantilizzati. Fuori, nella vita pubblica, si sentono adulti, liberi, poi rientrano a casa e tornato bambini, affidati a donne mogli-madri. È vero che la storia fin qui conosciuta sta cambiando, ma molto lentamente.

La vicenda che ha confinato le donne nel ruolo di madri è insomma estremamente intricata.

Come possiamo intervenire? La prima cosa da fare, a mio avviso, è assumere i rapporti uomo-donna come una questione politica, culturale, sociale, fondamentale; partire con un'azione educativa fin dagli asili, dai primi livelli di scuola, altrimenti non cambia niente. È necessario che si parli del rapporto uomo-donna e non di "questione femminile", come se si trattasse solo di uno svantaggio da colmare. Io penso che gli uomini dovrebbero essere presenti fin dagli asili nido nella cura dei bambini. Sapere quanto costa - in termini di energie fisiche, psichiche e affettive - allevare un bambino o prendersi cura di un malato o di un anziano, è una lezione di vita e umanità importantissima. L'ho capito negli anni in cui ho assistito mia madre in ospedale, dove c'erano soprattutto donne. Penso che questo sia un vuoto da colmare nell'esperienza maschile.

Perché gli uomini non sono nella scuola ai livelli primari? Perché quello dell'insegnante è sempre stato il mestiere perfetto per le donne, in quanto permetteva loro di avere tempo per la famiglia, dopodiché quell'occupazione, in quanto femminile, è stata svalutata...

Tra l'altro, a ben pensarci, è davvero paradossale: nella scuola le donne sono chiamate a trasmettere la cultura che le ha cancellate!

 

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo