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Le carceri e la violenza

Il radicale Pannella  fa lo sciopero della fame, il presidente della repubblica si indigna… Ma è l’esempio di un paese cristiano?
di Mario Pancera

Le carceri italiane sono disumane? Sì. Molto? Sembra proprio di sì, lo dicono gli esperti e lo confermano le notizie che compaiono sui mass media: non soltan to disumane, ma anche illegali. In carcere ci sono 45 mila 551 posti letto e 67 mila detenuti, una media di 148 individui ogni 100 posti (quella europea è del 96,6 per cento). Le prigioni più affollate sono al Nord: Busto Arsizio, Vicenza e Brescia. Mi limito a raccogliere qualche voce. In questo momento di crisi sociale e morale, oltre che economica, le prigioni sembrano quasi una dolorosa avanguardia della situazione: quando c’è una crisi nazionale (e in questo caso la crisi è addirittura intercontinentale) comincia a star peggio c hi già stava peggio anche prima. Non viene nemmeno voglia di fare commenti, si riflette in silenzio guardando al mondo intorno.

L’associazione Antigone denuncia: in certe carceri si trascorrono fino a 22 ore chiusi in celle da tre metri quadrati, anche meno. Per la Corte europea dei diritti umani chi dispone di meno di tre metri quadrati subisce una tortura. Le docce sono da 3 (tre) minuti al giorno. E bisogna scegliere o lavarsi o fare l’ora d’aria: «Questa è istigazione alla violenza», dice il suo presidente, «il re cupero sociale è un mito, la realtà è la bestializzazione dei detenuti. Una paradossale illegalità, nel luogo che dovrebbe essere quello della legalità per eccellenza». Se si considera che il 37 per cento sono stranieri, si capisce che la stragrande maggioranza è povera gente.

Altro titolo: un ergastolano ostativo scrive al presidente della Repubblica affermando che preferisce morire o essere condannato alla pena capitale piuttosto che restare in carcere a vita senza alcun beneficio penitenziario; questa massima pena &e grave; comminata per reati di associazione a delinquere. «Per rimanere in vita», scrive l’ergastolano», bisogna amare la vita, ma come si può amare la vita chiusi in cella, giorno dopo giorno, notte dopo notte, anno dopo anno, a vegetare? Si muore perché dimenticati dalla società».

Leggo: a San Gimignano ci sono celle così piccole che quando un detenuto è in piedi l’altro deve stare a letto; a Bari venti detenuti in un locale previsto per sei; a Brescia in 30 metri quadrati sono stipati 15 detenut i marocchini, rumeni, senegalesi, spagnoli: è l’internazionale della tortura; a Milano sei reclusi in celle da sette metri quadrati; a Viterbo i reclusi dicono che il carrello dei pasti arriva vuoto alla fine del corridoio, quindi ogni giorno la partenza del carrello si alterna (mancano i soldi per sfamare tutti); a Regina Coeli si trova l’unico centro clinico del Lazio: talvolta non vi stanno i malati, ma i sani che non si sa dove sistemare. A Livorno la sporcizia è tale che sono in continuo aumento scabbia e tubercolosi.

Cosa dire in un pa ese democratico che ha fondamenti cristiani, ha dato i natali a Cesare Beccaria e in cui la Costituzione, art. 27, ordina: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»? Come risvegliare le coscienze? Come elevare lo spirito in chi «vive» (si fa per dire, con la crisi sociale e morale di oggi) fuori del carcere per far capire come «non si vive» dentro? Il commento del cittadino sta nelle difficili risposte a queste domande.


Mario Pancera