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Adozioni: non è solo problema di coppie gay

I matrimoni sono al minimo storico, le nascite in picchiata, la popolazione residente in Italia diminuisce perché anche gli immigrati hanno smesso di considerare il nostro Paese come meta possibile di un progetto stabile di vita. Viene da chiedersi se la demografia c’entri qualcosa con la politica, e di cosa si stia parlando quando si pensa a riempire le piazze in nome di una famiglia che è minacciata da una minoranza di persone che, in controtendenza rispetto al clima generale, un progetto di vita comune ce l’ha e ne chiede riconoscimenti e tutela.


adozioni in calo

La discussione sulla legge sulle unioni civili, che porterebbe per la prima volta in Italia il riconoscimento di un surrogato di matrimonio tra persone dello stesso sesso, avviene come in una bolla, nel vuoto delle considerazioni sulla famiglia reale che invece i numeri della demografia e dell’economia ci impongono. Allo stesso tempo, questa discussione ci impone di guardare ad altri fatti, che hanno a che vedere con il modo e il tempo in cui si diventa genitori, si dà cioè a quel progetto una forza e una missione ancora maggiore: le nuove libertà e soggettività di donne e uomini; le necessità materiali che costringono a rinvii infiniti del momento della maternità e della paternità, con una lievitazione del rischio della sterilità; le nuove possibilità aperte dal progresso scientifico, che paiono invece mettere a facile disposizione la realizzazione del desiderio di avere un figlio. In tutto ciò, c’è un grande rimosso: ed è nel calo delle adozioni internazionale e italiano. Che invece vorremmo portare in questa discussione, poiché ci sta sin dall’inizio a pieno titolo e può essere rivelatore di una scelta implicitamente fatta: legittima o meno, ma che sarebbe meglio esplicitare.

Di adozioni si è parlato poco e in senso limitato, nella legge sulle unioni civili in discussione in parlamento. Poco, poiché è stata esclusa la possibilità di estendere a coppie gay o a persone singole la possibilità di adottare, con la procedura normale che passa per il tribunale dei minori e tutti gli adempimenti del caso, bambini abbandonati o per altri motivi non più sotto la tutela dei loro genitori biologici. Mentre la discussione e la polemica si sono concentrate sulla cosiddetta stepchild adoption, ossia sull’adozione del figlio del partner. In questa possibilità, aperta dal disegno di legge Cirinnà, viene vista una possibile falla che può far entrare nel nostro ordinamento la pratica della gravidanza surrogata, che la nostra legge proibisce.

lo scoglio della gravidanza surrogata

Sgombriamo subito il campo da un equivoco, non per negare il problema ma per dargli le giuste dimensioni. La gravidanza surrogata consiste nel «portare» un figlio per conto di altri, facendo passare, subito dopo la nascita, i diritti di genitorialità dalla madre che ha partorito alla persona (o alle persone) che hanno voluto il figlio, con una delle quali di solito c’è una discendenza genetica. Vale a dire: la donna gestante ha ricevuto un embrione, che è stato creato, di solito, con gameti ad ella del tutto estranei: col seme di uno dei partner della coppia e gli ovociti di un’altra donna, o – più raramente – viceversa, o con seme e ovociti della coppia eterosessuale ‘richiedente’. Insomma, non ha un legame genetico con il bambino che porta in grembo, mentre è rilevante che ce l’abbia almeno uno dei genitori futuri, poiché è proprio questo legame a legittimare, in qualche ordinamento, il trasferimento dei diritti di genitorialità. Da questo si può capire che la gravidanza surrogata non è una pratica che interessa solo le coppie gay, e nemmeno che le interessa principalmente. Anzi, un rapporto di qualche anno fa relativo al Regno Unito rivelava che, su 149

casi di parental orders (ordini parentali, di fatto i trasferimenti della maternità e paternità di un bambino) registrati, solo 32 riguardavano coppie omosessuali. Se la questione riguarda una minoranza di omosessuali – e una minoranza, abbastanza abbiente, di eterosessuali –, non è per questo meno rilevante: ma ci si chiede perché non sia possibile aggirare lo scoglio, ed evitare che diventi l’impedimento al riconoscimento

di diritti e tutele per le coppie omosessuali in Italia. Se il nostro Paese non vuole riconoscere né incentivare la pratica della maternità surrogata, questo riguarda tutte le coppie, etero e gay, sposate e conviventi, civilmente unite o meno: dunque, che si dia a tutte le coppie pari diritti, per poi concentrarci sui contenuti

e i limiti di questi diritti. Per esempio, per decidere se tra questi rientri il diritto ad avere un figlio a qualsiasi costo, anche acquistando la disponibilità liberamente contrattata con un’altra donna – il cui corpo, almeno fino a nuove risultanze scientifiche, continua ad essere necessario per far nascere un essere umano.

adozioni gay

Sarebbe un bene per tutti, e prima di tutto per amor di logica, separare il giusto riconoscimento, più ampio possibile (nelle condizioni date, chi scrive vorrebbe un matrimonio a tutti gli effetti), delle coppie

omosessuali, dalla questione etica planetaria della maternità e paternità su commissione. Ma perché non lo si è fatto? Perché la battaglia degli e delle omosessuali non si è concentrata sul diritto a poter adottare? Perché parliamo di figli ottenuti per sostituzione rivendicando una discendenza naturale, e non di quei figli che

dai loro genitori naturali non sono sostenuti, mantenuti, riconosciuti, per necessità o per scelta? I numeri delle adozioni parlano chiaro. Ce ne sono pochi, poiché, come rivela in un importante articolo su inGenere.it Mara Gasbarrone, da qualche anno sulle adozioni nazionali regna il buio fitto. La stessa Gasbarrone comunque ci dà numeri dettagliati sulle adozioni internazionali fatte da coppie italiane: queste sono scese dalle 3241 del 2010 di quasi un migliaio di unità, a 2291 nel 2013. È vero, negli stessi anni calava anche la natalità in generale. Ma aumentava, nota lo stesso articolo, il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita (alle quali ricorrono circa 70mila coppie l’anno, con percentuali di successo – non alte – che hanno portano a

circa 12mila nati nel 2013). Al punto che il rapporto tra nati da procreazione assistita e adottati, pari a 2,2 nel 2005 e a 3,9 nel 2010, nell’ultimo anno monitorato è stato di 5,3. Se ne potrebbe dedurre che le adozioni

diminuiscono, scrive Mara Gasbarrone, perché le tecniche di procreazione medicalmente assistita si sono mostrate più efficaci nell’affrontare i problemi di sterilità: ma questa deduzione, prosegue l’autrice dell’articolo, è vera solo in parte. Ci sono anche altri fattori di realtà da tenere in considerazione. L’impatto delle crisi mondiali, che hanno reso più difficili i percorsi di adozione internazionale; i paesi che hanno e «chiuso» i confini, o trattato i loro bambini come merce di scambio nelle trattative internazionali; la denatalità, che non incide solo sulle occidentali ricche ma anche sulle madri povere e a rischio di abbandono dei figli; le difficoltà economiche, che spesso sconsigliano procedure lente e costose, a volte con lunghi

viaggi all’estero che portano a interrompere il lavoro. Aggiungiamo il peso crescente, su coppie assai fragili, del ruolo genitoriale: che vale per tutti i figli e in qualsiasi condizione, ma che può portare al fallimento di progetti di adozione, con esiti dolorosi e drammatici.

il figlio «proprio»

Tutti questi elementi sono presenti, e andrebbero sempre ricordati e anche affrontati. Ma affianco ad essi si avverte uno slittamento delle preferenze individuali e sociali: verso il figlio proprio, preferito a quello avuto in dono da un’emergenza, o anche una sofferenza, sociale. Proprio, perché incontra il proprio bisogno e desiderio facendo i conti con gli strumenti a disposizione del nostro mondo libero (medici, laboratori, scelta, anonimato dei donatori, o regolare contratto con l’eventuale terza estranea che serve per portare a termine il progetto), ed evita così, o pensa di evitare, il contatto profondo con il bisogno dell’altro o dell’altra, ad esempio con la realtà dell’abbandono che può aver messo un bambino in carne ed ossa, già vivente, in condizione di adottabilità. Aiuta, in questo, la apparente accessibilità e anche asetticità delle procedure mediche, spesso gestite in efficienti strutture private, rispetto alle lungaggini e (a volte) astrusità delle procedure di adozione, gestite in più o meno efficienti sedi pubbliche. Ma se il dibattito su contenuto e limiti della scienza della procreazione è aperto, e giustamente infiamma anche il femminismo (diviso tra la rivendicazione della libertà di scelta e il no alla maternità surrogata), è rimasta del tutto nell’ombra la decisione che, più o meno consapevolmente, abbiamo collettivamente preso, dimenticandoci delle adozioni. Cioè della possibilità di essere genitori – e figli – accogliendo, insieme all’altro, i nostri limiti.

Roberta Carlini


Fonte: “Rocca”, n. 3 / 2016