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La Tunisia e noi, l'ospitalità e l'egoismo in-civile

Sono seduta con mio marito a un tavolino all'esterno d'un caffè nell'Avenue Bourghiba, a Tunisi. È quello dove abitualmente si danno convegno, oltre che persone comuni, ragazze e ragazzi che hanno fatto la rivoluzione, sindacalisti, militanti e dirigenti di partiti di sinistra. Tutt'intorno, fitti capannelli permanenti in cui si discute appassionatamente di politica, sit-in e cortei spontanei quotidiani per protestare o rivendicare qualcosa che ha a che fare con la rivoluzione e la transizione. In uno dei rarissimi momenti in cui accade di restare da soli, un giovane, l'aria da studente, si avvicina timidamente al nostro tavolino. Dapprima non capiamo cosa voglia, comunque lo invitiamo a sedersi e gli offriamo un caffè. Si rilassa un poco e in un francese stentato ci racconta d'essere algerino, laureato, disoccupato. È arrivato a Tunisi in tassì, due mesi fa, da un villaggio quasi alla frontiera. È venuto, dice, perché non ne poteva più del clima repressivo del suo Paese, perché attratto dalla rivoluzione tunisina, ma soprattutto per cercare lavoro. Ha da mantenere la famiglia: i genitori senza reddito e sei fra sorelle e fratelli ancora a casa. Da due mesi dorme per strada e mangia grazie alla compassione di camerieri e ristoratori, ma quel giorno non è riuscito ancora a rimediare qualcosa. Prima di accomiatarci gli lasciamo dei dinari per il pasto e ci scambiamo i numeri di cellulare.
Quando ritrovo gli amici tunisini, persone impegnate in politica e nel sindacato, racconto loro dell'incontro, pregandoli di diffondere la voce: chissà che qualcuno non abbia da offrire all'algerino uno straccio di lavoro... Io stessa non ci credo: la Tunisia post-rivoluzione è ancor più afflitta da disoccupazione e indigenza, dato il crollo del settore turistico e del suo vasto indotto informale.  Perfino nella capitale, ovunque si aggirano homeless e poveri - anziani, adulti, bambini - che chiedono l'elemosina o tentano di mascherare la mendicità con la vendita di rose o fazzoletti di carta.
Siamo appena tornati a Roma quando squilla il mio cellulare e sul display compare un numero tunisino. È N., un'amica sindacalista che abita in un sobborgo della banlieue di Tunisi: mi annuncia trionfante che I., l'algerino, ha già un lavoro e un alloggio. Non è il massimo, certo, mi dice, ma meglio che niente: già da oggi fa il guardiano di notte in un cantiere, proprio qui, ad  Hammam Lif.
La com-passione e la solidarietà fra non-ricchi e non-potenti, tratto peculiare della società tunisina, è forse uno dei fattori che hanno reso possibile la rivoluzione del 14 gennaio e la sua spinta propulsiva potente. I poveri villaggi prossimi al confine fra la Tunisia e la Libia sono stati capaci di accogliere un flusso di 250.000 rifugiati, in una gara di solidarietà che ha qualcosa di commovente. La naturalezza serena e lo slancio generoso con cui le popolazioni di quella zona - e le stesse istituzioni tunisine - hanno accolto l'arrivo dei rifugiati, anche ospitandoli nelle proprie case, risaltano ancor più se si considera che la Tunisia è un Paese di appena dieci milioni e mezzo di abitanti, immerso in una fase di difficile transizione politica, sociale, economica.
Se si compara questo atteggiamento con quello italiano di fronte all'esodo, del tutto prevedibile, di appena 25.000 fra migranti e profughi dalla Tunisia e dalla Libia, si comprende perché non siamo capaci di liberarci del nostro despota e del suo regime quasi-golpista. La pratica dell'ospitalità, ha scritto Etienne Balibar in un articolo del 27 aprile, echeggiando Jacques Derrida, è anzitutto prova di lungimiranza e di rispetto per se stessi: esercitandola, si riceve dall'altro "una lezione di umanità e di universalità, più di quanto non la si impartisca". La solidarietà e l'ospitalità sono espressioni di cittadinanza attiva, se è vero che la cittadinanza non può ridursi alla lealtà o all'obbedienza verso i poteri.
Dunque, che cittadini sono quegli italiani che di fronte all'arrivo di alcune migliaia di persone si agitano scompostamente e fanno le vittime dello "tsunami" e frignano d'essere stati abbandonati dall'Europa? Quale lezione di cittadinanza impartiscono le istituzioni che rispondono all'esodo perlopiù col caos, l'allarmismo sociale, i campi di concentramento, i rimpatri collettivi? Le stesse che, concedendo la sola cosa degna, i permessi di protezione temporanea,  lo fanno solo allo scopo di liberarsi in fretta d'una molesta eccedenza umana. Per non parlare di certi comportamenti popolari, dalle ronde "spontanee" alla caccia ai fuggitivi, solo parzialmente compensati dall'attivismo solidale d'una frazione della società civile. Infine, che cittadino è il Primo cittadino della Capitale che non si vergogna di dichiarare che Roma non può accogliere cento tunisini?"Siamo decaduti rispetto ad altre civiltà, conclude amaramente Balibar, alle quali, però, pretendiamo di dare delle lezioni". Perfino mediante aggressioni militari e bombardamenti umanitari, possiamo aggiungere. In realtà, oggi sono gli "altri" a darci lezioni di libertà, di cittadinanza, di dignità. Ma noi non sappiamo ascoltarle, intrappolati come siamo entro il bozzolo del nostro egoismo meschino, provinciale, in-civile.

Fonte: Micromega
Segnalato da Centro di Ricerca per la Pace