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Il ritorno della neolingua razzista

"Protesta venditori souvenir contro vù cumprà". Il  titolo non è della "Padania", nè d'un qualche foglio locale, ma dell'Ansa, la maggiore agenzia di stampa italiana, da cui ci si aspetterebbe tono neutro e linguaggio corretto. Con questo titolo, il 18 aprile, l'Ansa riporta una notizia minima, in apparenza banale: a Venezia un gruppo di ambulanti forse regolari, di sicuro "autoctoni", protesta contro gli immigrati che vendono senza licenza nei pressi dell'Hotel Danieli. Lo stesso giorno "Il Gazzettino" informa che Massimo Cacciari, intervistato in proposito, sdrammatizza: a me non danno fastidio, dichiara, qualsiasi città italiana "è piena di vù cumprà". Se lo ha accolto il raffinato filosofo, possiamo metterci l'animo in pace:  vù cumprà è ormai entrato nella lingua italiana, come del resto lo spregiativo "clandestino" e il plebeo "badante", pronunciato per la prima volta da labbra leghiste.
Ora, a preoccuparci non è certo la purezza della lingua. È che va affermandosi in Italia una specie di gergo del senso comune razzista, adoperato e legittimato da politici, veicolato e incoraggiato dai media. In modo inconsapevole o deliberato, s'inventano o si accettano, si propagano e si rendono neutre parole che nominano i migranti secondo il registro dell'irrisione e del disprezzo, della discriminazione e della de-umanizzazione.
Di origine napoletana, vù cumprà fu ritenuta la frase tipica con cui il tipico ambulante straniero avvicina i passanti. Nato da uno stereotipo derisorio, a sua volta modellato sulla vecchia figura del migrante marocchino, stagionale e venditore di tappeti, l'appellativo servirà poi a nominare tutti i migranti maghrebini, più tardi anche i venditori senegalesi, infine qualsiasi straniero non ricco proveniente da qualche Sud del mondo.
Appartenendo alla preistoria dell'immigrazione, vù cumprà sembrava ormai desueto. Il suo ritorno è indizio del fatto che una buona parte d'italiani - per quanto discendenti da ours, ritals, macaronis, dagos, katzelmacher, babis, cristos - non ha mai accettato come ovvia, normale, permanente la realtà dell'immigrazione e tutt'oggi vede i migranti come massa informe e omogenea di pezzenti e/o delinquenti.
Perfino il "negro" del vecchio razzismo biologico è tornato in voga. Certi abitanti del mio quartiere usano l'affettuoso "negretti" per parlare dei negozianti bangladesi di frutta e verdura, dei quali pure sono clienti soddisfatti. Il tassista catanese, pelle ambrata e capelli neri, che qualche giorno fa mi ha condotta in aeroporto, diceva "i negri" per dire i tunisini sbarcati a Lampedusa. Ignorava (o faceva finta) non solo i due secoli e mezzo di Sicilia arabo-musulmana ma anche le decine di migliaia di siciliani emigrati in Tunisia a partire dall'Unità d'Italia e, per dirne solo un'altra, la presenza annosa e consolidata dei tunisini a Mazara del Vallo.
Anche questa tendenza è parte del decadimento della memoria collettiva e della regressione della coscienza civile, quindi del linguaggio pubblico e di quello quotidiano. Del resto, che aspettarsi da un Paese che ha come primo ministro un eversore, puttaniere abituale e barzellettiere infimo, che fa freddure sui lager nazisti e sui desaparecidos argentini e chiama "tsunami" l'arrivo di ventimila profughi? Bisognerebbe avvertirlo: per quanto dispiaccia a lui e ai suoi compari, le rivoluzioni arabe hanno già stabilito che viviamo in un'unica regione euromediterranea. Anche per questo osiamo sperare che, chissà, dopo Ben Ali e Mubarak potrebbe toccare a lui.


Fonte: Micromega
Segnalato da Centro di Ricerca per la Pace