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Pubblicata sulla "newsletter Ecumenici" del 29.09.2008


"Sono forse il guardiano di mio fratello?"

Accade nella nostra città, che un ragazzo 19 enne dal Burkina Faso viene ucciso per motivi futili. La storia di Abdul, della sua morte violenta e assurda, è un segnale preoccupante del clima di intolleranza e di disprezzo che vediamo crescere anche nella nostra città. E’ l’ennesimo episodio che ci parla della paura e della violenza che attraversa i quartieri e le strade.

Tratto da "Voci e volti della nonviolenza", n. 79 del 14 luglio 2007 e pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" del 31 luglio 2006, col titolo "Dal non-mondo all'inferno su quelle piccole barche"

Ho osservato con attenzione la fotografia della barca dei clandestini alla deriva. Ha l'aspetto e le dimensioni di quelle piccole imbarcazioni per cinque o sei persone che nel periodo estivo si noleggiano sulle nostre coste per un giro di un paio d'ore in mare. Sei metri per due, neanche 12 metri quadrati. Stipate fino all'inverosimile ventisette persone. Ciascuna delle quali aveva pagato 1.500 dollari per l'acquisto dell'imbarcazione senza conducente.
Avevano detto loro: "Seguite le luci delle piattaforme petrolifere e arriverete a Lampedusa". Le luci le videro la prima notte, poi il motore si ruppe e senza orientamento si persero nel mare. Senza cibo e senza acqua, esaurita nei primi tre giorni, i ventisette disperati incominciarono a gettare a mare chi tra loro, sotto il sole cocente di giorno e il freddo della notte, non riuscì a reggere per tutti i venti giorni in cui erano in balia delle onde, senza neppure più la forza di sperare. "Anche per morire paghiamo" ha dichiarato Hammed, 22 anni, eritreo, uno dei sopravvissuti. "Lo sapevamo che con quei 1.500 dollari pagavamo il biglietto per la nostra morte, ma c'era anche la speranza che qualcuno di noi ce l'avrebbe fatta. E allora abbiamo tentato. Èstato come una scommessa dove in palio c'era la vita o la morte".
Se la barca costava quarantamila dollari non si poteva essere meno di ventisette. Il che vuole dire 30 centimetri a persona, acqua e viveri al minimo per ragioni di spazio, bisogni corporali davanti a tutti come gli animali, neppure lo spazio per sdraiarsi se uno sta male. E poi i morti e la puzza dei loro corpi che cancella la pietà.

Pubblicato su "Voci e volti della nonviolenza", n. 86 del 25 luglio 2007 e tratto dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo pressoché integralmente il testo della traduzione del discorso tenuto da Nurit Peled Elhanan alla manifestazione svoltasi a Tel Aviv il 17 giugno 2007 in occasione dei 40 anni di occupazione dei territori palestinesi occupati in seguito alla guerra del sei giorni del 1967. Abbiamo omesso poche parole (un breve frammento di frase) che pronunciate a una manifestazione a Tel Aviv per la pace e l'umanità da una illustre intellettuale pacifista israeliana cui un attentato terrorista ha ucciso una figlia ovviamente non danno luogo a possibili equivoci, ma che se lette decontestualizzate potrebbero essere gravemente fraintese, e percepite come dolorosissime da lettori che non possono dimenticare l'orrore assoluto della Shoah .


È un grande onore per me trovarmi su questo palco a fianco del mio amico e fratello Bassam Aramin, un uomo del campo palestinese della pace, uno dei fondatori del movimento pacifista Combatants for Peace (Combattenti per la pace), del quale due dei miei figli, Alik e Guy, sono membri. Solo la settimana scorsa, martedì ad Anata e giovedì a Tulkarem, il movimento dei Combattenti per la pace ha organizzato con successo due manifestazioni di massa che hanno visto la partecipazione di 10.000 palestinesi che ne condividevano le finalità - una lotta comune contro l'occupazione, attraverso una stretta cooperazione tra israeliani e palestinesi.
Se non fosse per le leggi razziste dello Stato di Israele, quelle migliaia di persone potrebbero essere qui con noi questa sera per dimostrare una volta per tutte che noi abbiamo un partner.
Bassam ed io siamo entrambi vittime di quella crudele occupazione che sta corrompendo questo paese da ormai quarant'anni. Noi due siamo venuti questa sera per piangere il destino di questo luogo che ha seppellito le nostre due figlie - Smadar, la gemma del frutto, e Abir, il profumo del fiore [significati letterali rispettivamente del nome proprio ebraico e arabo - ndt] - che sono state uccise a distanza di dieci anni, dieci anni durante i quali il nostro paese si è coperto di sangue di bambini, e il regno sotterraneo dei bambini sul quale camminiamo ogni giorno e ogni ora è cresciuto fino a straripare.
Ma quello che unisce Bassam e me non è solo la morte alla quale l'occupazione ci ha condannato. Ciò che ci unisce è principalmente la fede e il desiderio di crescere i bambini che ci sono stati lasciati, in modo tale che non accettino mai più che uomini politici e generali assetati di sangue e di conquista governino la loro vita e li mettano gli uni contro gli altri. Che non permettano che il razzismo che si è diffuso in questo paese li porti fuori dal percorso di pace e di fratellanza che si sono preparati.
Perché solo quella fratellanza può abbattere il muro di razzismo che è stato costruito davanti ai nostri stessi occhi.

Nel n. 122 del 30 giugno 2007, del Notiziario Settimanale dell'AAdP, è stato pubblicato l'articolo di Buratti Gino "Immigrati, sbandati e degrado della città? Qual è l’ordine giusto?", che poi è stato ripreso dal periodico "La parola ai cittadini" che lo ha pubblicato nel numero di agosto 2007. Alessandro Amorese, dirigente provinciale di A.N., ha pubblicato nel numero di settembre dello stesso periodico una replica a quell'articolo. Riteniamo utile e corretto, nella speranza di aprire un dibattito, pubblicare anche questo contributo.


Pensiamo che Gino Buratti abbia volutamente frainteso il senso dell'iniziativa organizzata da Azione Giovani in Piazza della Stazione.

Sembra infatti che egli abbia visto nella nostra manifestazione una rozza iniziativa xenofoba o addirittura razzista, quando invece siamo scesi in piazza per manifestare la nostra solidarietà ai residenti nella zona dei Quercioli e della Stazione e per farci portavoce dei loro problemi. L'intento di tale iniziativa è stato ben compreso dai cittadini, come dimostrano le migliaia di firme che abbiamo raccolto in quei giorni. In quelle zone, come ci hanno confermato numerose persone, il degrado è tale che la sera donne e bambini non possono neanche uscire di casa, in quanto la piazzetta antistante la Stazione diventa regno di sbandati, drogati e immigrati clandestini. Il nostro collegamento tra umnigrazione clandestina e degrado sociale ha spinto il signor Buratti ad attaccarci pubblicamente.

Pubblicato su “Notizie minime della nonviolenza in cammino” n. 392 del 12 marzo 2008 Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse "artificialmente" rinvigorito da strategie controproducenti e dagli "effetti perversi" di definizioni e interventi istituzionali quali l'affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi.

Dal sito dell'Università delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente relazione di Maria Grazia Campari tenuta a Firenze il 4 novembre 2006 nell'ambito del secondo ciclo di incontri seminariali sul tema "Città reale / città possibile. Mappe della convivenza. Periferie e materialità del vivere", promossi dalla "Libera università Spazia”. Maria Grazia Campari è una prestigiosa giurista e intellettuale femminista, impegnata nei movimenti per la pace e i diritti

Sono molto sollecitata dal concetto di città come bene comune e da una ricerca indirizzata alla realizzazione di mappe di convivenza. Vi ritrovo alcune suggestioni che personalmente ho tratto da una serie di incontri tenuti negli ultimi due anni presso la Libera università delle donne di Milano.
Eravamo partite - con un seminario dal titolo significativo "Paura/sicurezza" - dalla constatazione che la profonda disuguaglianza dei livelli di vita e il drastico ridimensionamento dello stato sociale allargano la forbice fra garantiti ed esclusi, determinano nei primi l'insorgere di un egoismo proprietario che costruisce muri, in difesa di cittadelle del benessere assediate. Casi recenti nel Lombardo Veneto confermano la permanenza della fase e illustrano il concetto alla lettera, con la costruzione di muri e valli per impedire l'ingresso a immigrati e rom.