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Ancora Beppe Grillo? Sì, con qualche osservazione sulla libertà.
di Mario Pancera
L'agitatore politico americano John Brown, che nel 1859 perse la vita combattendo per la libertà degli altri, sosteneva che la schiavitù è uno stato di guerra. Anche l'ignoranza è una schiavitù ed è essa stessa uno stato di guerra. La volgarità è una figlia dell'ignoranza e rappresenta un contorcimento su se stessi: l'incapacità di spiegare le proprie necessità e i propri sentimenti in maniera umana, civile, costruttiva.

La volgarità è improduttiva, porta alla distruzione, non alla costruzione. Non ha esiti positivi. La volgarità non propone, è come un'esplosione inconsulta, anche se proviene da motivi lontani e non disprezzabili, anzi condivisibili. Porta alla regressione. È come un «fuoco amico» che sconvolge le file di chi combatte una battaglia per un fine comune.

Il «Vaffanculo day» dell'attore Beppe Grillo ha come sigla il V-day del politico Winston Churchill, che significava Victory day per gli eserciti alleati nella seconda guerra mondiale. È facile da ricordare ma, come si vede, è tutt'altra cosa. Nella seconda guerra mondiale le democrazie occidentali (i partiti che le formavano, gli uomini che a loro volta formavano e votavano questi partiti) si battevano contro le dittature, contro i fascismi (dove esisteva un solo partito, egemone, cui tutti i cittadini dovevano sottostare).

Era una sigla per la libertà, in mezzo a un mondo sconvolto. Il V-day di Beppe Grillo, dei suoi autori, amici ed estimatori, sembra un'espressione liberatoria, ma è un'espressione di impotenza. È un grido violento, un coro stonato. Nella seconda metà del XX secolo, continuando nella loro durissima battaglia, le democrazie occidentali (i partiti che le formavano, i cittadini che vi credevano) hanno contribuito a far sì che mezzo mondo si liberasse dallo stalinismo, una dittatura disumana come le precedenti che avevano contaminato l'Europa.

L'umanità procede col senso della libertà, non con l'ideologia della distruzione e della volgarità. Lo si vede anche su larga scala, sul piano internazionale: la distruzione - da qualsiasi parte reclamata - non libera, uccide. Porta la morte, anche fisica, non la vita. Non c'è bisogno che lo dicano i sociologi. Con la volgarità figlia dell'ignoranza si agitano forse le masse, non si liberano i popoli. L'indignazione deve stimolare il cervello, non ottunderlo.

L'espressione di Grillo non è comica, è tragica. Non fa ridere: va discussa e rigettata. Ricorda la perentorietà volgare del «Me ne frego» usato dai cosiddetti arditi della prima guerra mondiale e poi assunto negli anni Venti dai fascisti di Mussolini. Nelle sedi fasciste questa frase era scritta sui muri e appariva accanto a bandiere nere con teschi dal pugnale tra i denti. È assolutamente il contrario del milaniano motto «I care» della scuola di Barbiana. A quel «Me ne frego» seguì «Ordine, autorità, giustizia» per finire nel mortale «Credere, obbedire, combattere».

Mario Pancera

Quattro incontri in quattro zone diverse della diocesi, ma uno stesso titolo "Il bene comune del territorio apuano": è questa l'offerta che l'Azione Cattolica, in stretta collaborazione con l'Ufficio per la Pastorale Sociale e del Lavoro, fa alla chiesa locale con la Settimana Sociale.

L'Italia partecipa a diverse guerre nel mondo, con migliaia di militari armati e organizzati nelle cosiddette «missioni di pace». Se è vero, cioè se queste missioni servono a fermare le guerre in qualche parte sia pure infinitesimale del globo in cui sono impegnate, un giorno ci verranno dati i risultati. Al momento, purtroppo, sembrano scarsi quelli positivi, pallide lucine in mezzo al buio di centinaia di migliaia di morti, feriti, dispersi, profughi, odii, ritorsioni, fuoco amico, focolai di terrorismo, bombardamenti preventivi, omicidi mirati, kamikaze e così via.

Ora le missioni di pace si diffondono anche nella penisola: sono missioni di pace per la sicurezza dei cittadini nei confronti dei poveri. Le organizzano le istituzioni pubbliche, ovvero quei sindaci e presidenti di provincia e di regione (alcuni tronfi personaggi si lasciano chiamare, e addirittura a volte si autodefiniscono, «governatori») che sono eletti direttamente dal popolo. Ripeto: direttamente, e già qui occorrerebbe una riflessione decisa sui metodi elettorali detti democratici, dove vincono sempre i personaggi più facoltosi o intriganti.


Chi ha più denaro ha più istruzione, più potere, più amici, più capacità di ammassare dietro di sé tutti coloro che hanno meno potere, meno istruzione, meno amici ma vogliono sentirsi parte di questo gruppo dominante. Il gruppo dominante promette sempre di creare ricchezza nell'ordine e nella sicurezza. Siamo attenti alle parole: «creare ricchezza» (creare, come dio), «ordine e sicurezza». Un galantuomo non può predicare di essere in grado di «creare ricchezza» spingendo gli esseri umani a lottare tra di loro per un lavoro precario o sottopagato, e nessuno che non abbia animo di despota può pensare a missioni di pace per garantire «ordine e sicurezza» cacciando dalle strade i poveri, italiani o stranieri.


Negli anni del fascismo, in Italia la malavita organizzata e i poveri non c'erano, semplicemente perché il regime imponeva che non se ne scrivesse. Le operazioni contro l'una e gli altri esistevano, ma non se ne parlava. La stampa era imbavagliata. Si pacificava, per così dire, in maniera violenta, ma senza che nessuno del popolo che acclamava il regime nelle piazze lo potesse sapere. Perfino la Chiesa, nonostante le sue imponenti opere di carità in tutta la penisola, era sventuratamente chiamata a tacere.


Oggi per fortuna le cose cambiano. Non so fino a quando durerà, ma abbiamo ancora vescovi cattolici che protestano pubblicamente contro la guerra ai poveri mascherata da ordine e sicurezza, dalla Sicilia, a Firenze, a Milano, al Veneto. C'è sopra tutti il vescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che da anni segnala, ed anzi accusa, questa guerra ai poveri condotta dalle istituzioni pubbliche ovvero laiche. Denuncia pubblicamente lo sfruttamento dei lavoratori, chiede dignità e comprensione per coloro che sono considerati lavoratori «marginali». Denuncia gli sgomberi forzati di famiglie intere, costrette a scappare e a rifare comunità da un punto all'altro della metropoli: sotto i ponti, lungo le periferie, nei campi inquinati dalla nostra immondizia.


Sempre pronte a protestare contro l'invadenza della Chiesa, ma a servirsene in caso di necessità elettorali o finanziarie, molte pubbliche istituzioni oggi si levano senza pudore in difesa della loro guerra ai poveri. Altro che il mazzolariano «dare la parola ai poveri». Una missione di pace mascherata di perbenismo e di moralità: via gli accattoni, pulizia quasi etnica nei campi dei nomadi, manganelli ai poliziotti locali (ex vigili urbani), cacciata da tutti gli angoli delle strade degli extracomunitari che sopravvivono vendendo cianfrusaglie e dormono all'addiaccio o nei peggiori angoli della città.


Ordine e sicurezza? No, le parole del vescovo Tettamanzi in favore dei poveri e dei lavoratori sfruttati da chi arma i poliziotti locali e allontana la povera gente invece di aiutarla a un vivere civile, rivelano che con questi metodi non c'è né l'uno né l'altra. E come risponde Milano? Il sindaco Letizia Moratti si dice amareggiata: non per lo stato di miseria, ma per le parole del cardinale.

Mario Pancera

«Quando si adorano gli idoli si calpestano gli uomini e si oscura la verità», questa citazione mazzolariana si trovava nello studio di un sacerdote scomparso qualche tempo fa, ma potrebbe stare bene in vista nelle case di tutti noi. In questo periodo, possiamo vedere come la società italiana abbia infatti bisogno di una forte cura di cristianesimo: cioè, di cominciare a imparare, di riprendere a pregare per cercar di capire la grandezza del Vangelo. Nel Vangelo c'è il primato dell'uomo, gli idoli vengono distrutti. Troveremo chi in questa fatica ci parlerà dal pulpito con chiarezza e passione come i Mazzolari, i Balducci, i don Zeno, i Bello, i Turoldo e i tanti altri che ci hanno lasciato?


Il cristianesimo è contro il dispotismo degli uomini e del denaro. Ricordiamo in proposito le tre fedeltà delle Acli: fedeltà al lavoro, alla democrazia, al Vangelo. Hanno appena fatto un congresso, sono una forza contro gli idoli, si facciano avanti. Nei giorni precedenti le elezioni politiche del 13 e 14 aprile un quotidiano, già periodico della Democrazia cristiana, e oggi rappresentante solo una parte di quel vecchio mondo politico, diceva ben altro: «Silvio sei tutti noi» o qualcosa di simile, riferendosi all'onorevole Berlusconi, un vero tycoon del mondo imprenditoriale italiano, alleato dell'onorevole Gianfranco Fini, leader di Alleanza nazionale (e da lui stesso, mesi fa, considerato suo successore).

Alla vigilia delle elezioni, Fini disse che non più il 25 aprile, ma il 14 aprile sarebbe stata la festa della Liberazione. Pensava che berlusconismo e postfascismo avrebbero vinto e occupato con la maggioranza assoluta il Parlamento e le istituzioni democratiche. Ha avuto ragione. Gli idoli si sono battuti tra loro per la conquista del potere e del denaro, e uno di essi ha vinto. Eletto presidente della Camera, Fini ha annunciato che sul 25 aprile aveva cambiato idea, e i deputati antifascisti, invece di restare muti e perplessi, lo hanno applaudito. Si è mai visto sulla scacchiera il nero festeggiare la vittoria del bianco? Per il potere, da una parte e dall'altra gli uomini cambiano. Cambierà anche la storia. Abbiamo già visto radicali e comunisti diventare «atei devoti».

L'idolo perdente aspetta il suo turno, l'accordo sottobanco qua e là o la rivincita che avrà, presumibilmente, tempi lunghi e caotici. Contro questi idoli dove sono i cristiani, i cattolici in particolare: abbiamo sentito la loro voce? Di là dalle mille sfaccettature politiche, sindacali o associazionistiche, abbiamo bisogno di una voce religiosa forte. Qualcuno che ci apra una strada nuova (ma così vecchia che ha più di duemila anni) in modo tale da ricordarci chi siamo. Siamo forse idolatri in attesa di un Mosè che scenda dalla montagna e ci rischiari l'anima? Direi proprio di no: non ci occorre un nuovo Mosè, i laici cristiani, i loro sacerdoti, i vescovi, il Papa, sanno quello che devono fare. Abbiamo già sentito le voci alte dei cardinali di Assisi e di Milano, Martino e Tettamanzi, per «non calpestare gli uomini né oscurare la verità». Certo ce ne sono altri con loro. Io, cattolico, speriamo che me  la cavo.
Mario Pancera

Pubblicato su www.carta.org il 24 aprile 2008


Pubblichiamo un testo che non è un appello né tanto meno un documento. è una lettera, che varie persone hanno pensato fosse utile scrivere, correggere, riscrivere ed emendare o semplicemente condividere. Tutto è stato fatto in pochi giorni, la settimana scorsa. Sentivamo un’urgenza: suggerire che, di fronte a quel che sta cadendo addosso a noi cittadini, comunità, società civile o movimenti [ognuno usi il termine che vuole], c’è la possibilità non solo di resistere, ma di cominciare a fondare da subito un altro genere di politica. Non è una novità, questa convinzione. Mesi fa, fu pubblicato un appello intitolato «La politica che vogliamo», firmato da molte persone della società civile, che poi diede luogo al seminario della Rete Lilliput sullo stesso tema che si tenne il 5 aprile, lo stesso giorno in cui Carta e l’associazione Cantieri sociali organizzavano il Cantiere dell’altra politica. E Paolo Cacciari, che aveva partecipato ad ambedue gli incontri, scrisse poi la prima bozza della lettera che pubblichiamo.

Estratto tratto dal libro di Stefano Rodotà e pubblicato su “La domenica della nonviolenza”, n. 167 del 8 giugno 2008


"Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve".

Tommaso Campanella, La città del sole (1602) Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba "evadere dalla vita"? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più moltiplicati e sfaccettati.

Una parte della magistratura costituisce una metastasi, cioè una malattia diffusa e in pratica mortale per la giustizia in Italia: questo il concetto più volte espresso, da anni, dall'attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Lo stesso concetto, con la stessa parola, è stato espresso al congresso socialista da Bobo Craxi, figlio di Bettino, che fu pure presidente del Consiglio ed è morto nel 2000 in Tunisia: per i suoi amici è morto in esilio, per i suoi avversari era un latitante, inseguito da condanne definitive. Il leader socialista Bettino Craxi e l'imprenditore Silvio Berlusconi erano molto amici, si sono aiutati a vicenda raggiungendo entrambi i vertici del potere politico e muovendo entrambi montagne di denaro.

La magistratura può costituire un cancro, che si diffonde nel corpo della società italiana e che soltanto pesanti interventi chimici e chirurgici possono tentare di arrestare: così pensano molti, e anche parlamentari e addirittura ministri. La parola, francamente, fa paura e, più volte ripetuta, tende a mettere a tacere gli oppositori. Va a finire che, a poco a poco, più d'uno pensa: «Forse è vero», e comincia a credere che non solo qualcuno (può succedere), ma molti magistrati siano corrotti, infami, ignoranti, perversi persecutori, dediti a danneggiare il Paese.

Si forma così un'altra metastasi: il dubbio. I cittadini cominciano a dubitare, viene meno la fiducia nella giustizia, si allargano nella società lo scetticismo e il cinismo, crolla il senso dell'uguaglianza di tutti davanti alla legge. In fondo, si pensa, processo più o processo meno, chiudiamo l'argomento e portiamo avanti altri temi importanti: l'inflazione, il precariato, la mafia, la nuova povertà, l'immondezza, i migranti, l'ambiente. Con la seconda metastasi - dimenticare - si copre e si cancella la prima - cercare la verità. Il silenzio rivela un'altra metastasi nel tessuto della società: la paura.

La sera dell'8 luglio, nella trasmissione «Primo piano» su Rai 3, la giornalista Bianca Berlinguer ha intervistato Antonio Polito, direttore del «Riformista» e uomo politico, già redattore dell' «Unità», e Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», quotidiano del Partito della liberazione comunista. Tre nomi, le stesse origini e nessuno, apparentemente, di destra. Il tema era quello della cancellazione dei processi e dell'immunità per il presidente del Consiglio. Polito si è barcamenato, Sansonetti alla fine è sbottato concludendo press'a poco: «Chi se ne frega dell'immunità per le quattro più alte cariche dello stato, i problemi degli italiani sono ben altri». Le parole non erano proprio queste, ma il concetto sì. Dormire, sopire.

Non c'è confronto: davanti al pane, anche lo schiavo non pensa alla libertà. Che discorsi sono, questi? Che confusione si fa? La metastasi del menefreghismo, del lassismo, e diciamolo pure della supponenza e dell'ignoranza, non solo politica, è senza limiti. La libertà e la verità sono soffocate in un qualunquismo che sembra inarrestabile.

Se questi sono gli intellettuali di sinistra, che hanno in mano buona parte dell'informazione televisiva, gli italiani che danno loro credito non possono non aumentare i consensi per rafforzare le neo tentazioni autoritarie. È un dolore, e penso soprattutto ai laici cattolici, vedere come non si trovino più in Italia uomini di stato, che si occupino della politica con amore e con sacrificio, pensando al paese, ai cittadini, al popolo.
Mario Pancera