• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Note sul rapporto tra crisi degli Stati e crisi internazionali (Alessandro Volpi

Pubblichiamo questo contributo inviatoci dal prof. Alessandro Volpi, docente di Storia Contemporanea presso l'Università di Pisa.



Nel tentativo di fornire una spiegazione delle crisi internazionali può essere utile fare riferimento ad una questione cruciale dello scenario planetario, costituita dal brusco rialzo del prezzo delle materie prime, e in particolare dell’energia, avvenuto negli ultimi tre anni durante i quali il prezzo del petrolio è di fatto più che triplicato; un dato che ha avuto riflessi, appunto, non solo di ordine politico ma sul più generale piano degli equilibri politici. Si tratta infatti di un aumento particolare dovuto alla Cina, all’India e ad altri nuovi consumatori, che non sono paesi particolarmente sensibili ai condizionamenti della democrazia e la cui crescita e la cui domanda di beni possono sicuramente modificare assetti già consolidati: non bisogna trascurare, in tal senso il fatto che nel 2005 per la prima volta più della metà del PIL mondiale non è stato generato da Stati Uniti ed UE.
Questo forte aumento ha garantito un’iniezione di liquidità gigantesca alle economie produttrici ed esportatrici di petrolio e gas naturale, come avvenuto nel 1973 e nel 1979, con la differenza che allora il prezzo salì per tensioni internazionali e provocò immediata inflazione, con effetti calmieranti, due condizioni oggi meno evidenti. Tra i paesi maggiormente beneficiati da questa liquidità figura l’Iran, al centro di un reticolo di rifornimenti energetici che coinvolgono la Cina, a cui garantisce più del 40% del suo petrolio, e la Russia, con cui ha stabilito rapporti per la costruzione di un gigantesco oleodotto “asiatico” (l’Iran produce, anche grazie ai finanziamenti cinesi, 4-5 milioni di barili al giorno e ne esporta 3). Questo flusso di liquidità è determinante per un paese che ha un PIL sui 120-140 miliardi di dollari (nel periodo 1992-2002 il PIL iraniano è cresciuto del 3,7% in media l’anno) e dipende molto dall’energia, gestita da compagnie di stato e da una miriade di società legate alla classe dirigente.
Le entrate petrolifere garantiscono quindi all’Iran risorse che solo in parte limitata sono spese all’interno del paese, se non per alimentare la spesa militare e la produzione nucleare (necessaria peraltro per non “sprecare” petrolio per coprire i consumi interni), a cui si aggiunge, come in Arabia Saudita, un massiccio investimento nell’edilizia religiosa. Sulla mancata spesa interna, in particolare in termini di consumi, gioca un peso determinante anche il “modello di vita”, estremamente frugale, imposto dalla centralità della morale di uno Stato teocratico (10 televisioni ogni 100 famiglie, contro le 70 dell’Algeria). Pesa poi l’esistenza di un’economia pubblica, con banche di Stato, sottoposte alle regole ferree della finanza islamica che impediscono processi di finanziarizzazione. Pesa inoltre la composizione della popolazione, con il 50% degli abitanti che ha meno di 20 anni e dunque una particolare struttura dei consumi.

Dunque, l’Iran, reso peraltro più forte dalla sconfitta dei Talebani e di Saddam Hussein, con un peso decisivo in Iraq, ha risorse per finanziare nuove tipologie di “Stato” in altre aree; in particolare sostiene lo sciitismo, facendone in varie realtà un’amministrazione “pubblica” all’interno di Stati debolissimi. Hezbollah e Hamas, pur profondamente diverse, sono realtà esemplari in tal senso, rappresentando vere e proprie forme di assistenza sociale, attraverso la struttura delle fondazioni, a popolazioni pressoché prive di altri mezzi. Nello specifico di Hezbollah, la sua attività è caratterizzata dalla possibilità di riscuotere tasse, di amministrare la giustizia islamica; riceve inoltre circa 2 miliardi di dollari dall’Iran e partecipa alla ricostruzione.

Alla luce di queste brevi considerazioni, diventa forse più chiaro allora capire quanto pesi la mancanza, la scomparsa o la dissoluzione di forme compiute e condivise di statualità in molte parti del pianeta. Il Libano è un palese esempio di una tale situazione; non è mai riuscito a divenire uno Stato, tantomeno nella fase della Seconda repubblica, per una serie di ragioni:

  1. l’esistenza di una Costituzione su base comunitaria, che di fatto legittima e cristallizza in termini istituzionali un fragile e litigioso mosaico di confessioni religiose; tante confessioni che peraltro rendono poco credibili le tesi di sostanziali omogeneità islamiche, basti pensare al caso delle differenze fra Amal e Hezbollah, senza citare la specificità drusa
  2. il peso della Chiesa maronita, spesso riconosciuta all’estero – si pensi alla Francia, ma anche alla Santa Sede – come la vera autorità del paese
  3. la presenza militare israeliana, dal 1978 al 2000, e quella, perenne, siriana
  4. l’azione delle lunga stagione di Rafiq Hariri (1992-98 e 2000-2005) che ha dato vita a quello che Georges Corm ha definito “neolibanismo”, fatto di dollarizzazione, e dunque perdita di sovranità monetaria, di privatizzazione, almeno nella prima fase, di altissimi tassi di interesse e di basse aliquote fiscali, 10% di media, per attirare i capitali esteri, con conseguente gigantesco indebitamento interno ed estero: un paese con un Pil di 14-15 miliardi aveva un debito estero per un valore analogo ed era una sorta di paradiso fiscale, in gran parte anche per capitali che finanziavano attività terroristiche.
  5. costante presenza di un “diritto di ingerenza umanitaria” da parte del Nazioni Unite che, si pensi alla risoluzione 1559, ha condizionato la vita interna del paese
  6. Le elezioni hanno favorito il formarsi di un “Partito di Dio” che entra in parlamento senza rinunciare alla propria struttura parastatuale perché non crede nello Stato in cui entra (e dove ha 3 ministri e una quindicina di parlamentari)


Dunque uno Stato in tali condizioni non poteva nascere; ma la domanda allora è quanto pesa la scomparsa degli Stati negli equilibri internazionali e nella precarietà della pace?

In questo senso mi sembra opportuno tracciare solo alcune ipotesi;


  1. la scomparsa degli Stati ha modificato la natura stessa dei conflitti che hanno sempre più il carattere di guerre intestine, guerre “civili” tra fazioni che non si riconoscono, tra gruppi di ribelli, dove gli elementi di qualificazione sono più o meno credibili appartenenza etniche. Negli anni Novanta solo 3 guerre interstatali (USA-Iraq, Etiopia-Eritrea, India-Pakistan), che hanno fatto 3,3 milioni di morti, mentre si sono avuti 57 conflitti intrastatali o regionali, che hanno coinvolto 45 paesi, che non si riconoscevano come tali, per un totale di 16 milioni di morti. Ciò ha significato la trasformazione del concetto di guerra; senza dichiarazione, senza fine (si concludono con armistizi, raramente con paci), senza il riconoscimento delle parti in lotta, spesso con la derubricazione ad operazioni di “polizia” internazionale contro fenomeni di “terrorismo”, o con la qualifica di “guerra umanitaria”.
  2. In tali condizioni la guerra diventa non la sospensione della normale quotidianità, ma un dato fisiologico attraverso cui risolvere le tensioni.
  3. Non può funzionare larghissima parte del corpus iuris internazionalistico perché storicamente pensato con soggetti di riferimento costituiti da Stati.
  4. Si assiste, a causa della “normalità della guerra”, ad una costante commistione tra civile e militare, che rende difficile anche la definizione delle forme di cooperazione, ma su un piano più generale pone la questione delle norme; quali sono le norme da applicare a zone dove la guerra è terminata con un armistizio e non con una vera e propria pace? Si deve applicare il diritto emergenziale del conflitti oppure non è più legittimo farlo? Quanto possono funzionare i cosiddetti “memorandum of understanding”?
  5. Le già ricordate nozioni di guerra umanitaria e di guerra preventiva, del resto, sono in gran parte motivate dall’esigenza di sostituirsi ad autorità statuale e morali non esistenti.

Certo il riferimento implicito alla necessità dell’autorità statale pone il fondamentale quesito di quale tipo di autorità sia concepibile per la varie aree del pianeta, dati il fallimento del modello di Stato post coloniale e la troppo frequente assimilazione dello Stato “democratico” di tipo occidentale a forme di legittimazione del potere delle componenti laiche delle società africane o asiatiche, individuate nei militari. Né pare possibile, a mio giudizio, sostenere rinascite dello Stato patrimoniale in versioni “neoclaniche”. Il modello lineare Stato-nazione-proprietà-laicità, frutto della revisione critica condotta tra XVIII e XIX secolo in Europa, non è forse utilizzabile, così come mi sembra ardua la trasposizione “internazionale” del modello socialista, comunque legato al superamento della già ricordata unilinearità.
A complicare il quadro si pone poi l’esistenza in molte realtà culturali, tra cui quella islamica, di una concezione non meramente territoriale, bensì comunitaria dello Stato.
Queste difficoltà non cancellano però l’esigenza di forme e di linguaggi di riconoscibilità e di legittimità del potere collettivo dei popoli su cui costruire i percorsi di convivenza e fertilizzazione delle comunità, senza i quali i processi mondiali saranno costantemente basati sul mero rapporto di forza che, in assenza delle condizioni di equilibrio tipiche del mondo dalla pace di Westfalia al 1989, non promettono nulla di buono.

Un ultimo aspetto riguarda il ruolo dello Stato nei confronti della religione; esemplare in tal senso è il tema della costruzione delle moschee e del finanziamento delle Università: tali iniziative sono spesso legate ai proventi della zakat, della tassa spirituale, e del Fondo islamico, che fanno capo ad autorità religiose o a gruppi come Hezbollah appunto: in tal senso, Renzo Guolo ha messo in relazione l’acquisizione del controllo del Fondo islamico da parte dei Fratelli Musulmani con il peso assunto dal radicalismo integralista nell’Università di Gaza. Alla luce di ciò è forse ipotizzabile una maggiore attenzione del diritto internazionale alle tolleranza e alla convivenza religiosa. Questo ha a che fare anche, può essere utile aggiungere con la trasformazione dell’ebraismo, divenuto più messianico e impegnato a trasformare i luoghi della tradizioni da simboli a veri e propri luoghi sacri.