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Sinistra di governo e sinistra che vuole perdere... ? (Buratti Gino)

Prendo spunto da una discussione accesa che ho avuto con il mio più caro amico, per fare considerazioni generali, magari un po’ infantili.
Siamo partiti dai fischi alla Moratti alla manifestazione del 25 aprile, per poi finire a litigare su un luogo comune che aleggia nel centro sinistra, “la sinistra che vuole vincere e quella che vuole solo perdere… “, e “… tu Gino appartieni da sempre a quella che vuole sempre perdere…”.
Punto nell’orgoglio, magari anche un po’ ferito nel mio Io, mi sono chiesto se aveva senso parlare di una sinistra che vuole perdere e se io, in caso positivo, vi appartenessi.
Provo a condividere queste mie riflessioni, con la netta sensazione che tutto ciò sia un luogo comune, che sottende a quella idea che da un lato esista una sinistra moderata (mi riferirò alla sinistra in quanto mi è più naturale, ma credo che le considerazioni che voglio sviluppare vadano bene anche per la Margherita e per altre forze laiche dell’Unione), matura, consapevole del ruolo di governo… e da un altro lato una sinistra immatura, infantile, che desidera solo non assumersi le responsabilità del governo.
Per mia formazione sono terribilmente legato a figure quali Don Milani, Capitini, La Pira... ovvero persone, nei confronti delle quali non riesco ad usare l’aggettivo radicale, che hanno sempre praticato una coerenza netta tra idealità e azione, riuscendo, nel loro procedere, a cogliere le verità dell’altro, riconoscendolo, non solo vedendolo.

Forse per questo non mi piace una visione manichea della società in cui vi sono i bravi da una parte e i cattivi dall’altra, oppure i maturi politicamente e gli eterni bambini dall’altra.
Ho il timore che troppo spesso confondiamo per maturità il sano realismo di Macchiavelli, dimenticando invece di come sia proprio il dubbio il motore del cambiamento: il dubbio della maieutica di Socrate, o di quello che Cartesio, pensatore e matematico, ha abitato e attraversato in maniera consapevole e razionale.
E’ un luogo comune questa incapacità di cogliere, nel suo rigido schematismo, che risulta il frutto di quel “pensiero unico” che ciascuno di noi respira e che ci vuole tutti un po’ passivi, quelle pulsioni, quelle dinamiche che attraversano, non solo la sinistra, ma l’intera società, coinvolgendo tutte le forze politiche... e che sono realmente una linfa, un pungolo per tenere alto il procedere.
Coltivare il senso critico e il dubbio è una condizione necessaria per poter sconfiggere tutti i totalitarismi, soprattutto quelli culturali, nei quali siamo precipitati in questi ultimi decenni.
Quando il 29 aprile ho assistito a quell’indecente spettacolo nell’aula del Senato, ho avuto un atteggiamento infantile di disgusto, ma sono contento di essere ancora infantile, se questo significa indignarmi per gli atteggiamenti assunti dalla coalizione, nella quale ho riposto aspettative e idealità, così lontani dall’idea di Politica che io ho, Politica come servizio, Politica come assunzione di responsabilità nei confronti della società, Politica come incontro di culture e idealità diverse, che non rinunciano alla propria diversità, ma riescono ad individuare i vari minimi comuni denominatori nella massima delle trasparenze e non nell’alibi di un voto segreto.
Partendo da queste premesse ritengo che sia non corretto parlare di una parte disfattista. Esistono forze e persone che chiedono trasparenza, linearità… che sanno mettere in campo passioni, emozioni, oltre il grigio procedere della ragione e del calcolo... e sono ambiti di società che si ridefiniscono di volta in volta, che si dilatano e si contraggono, che attraversano tutte le aree culturali del centro sinistra, spesso facendo fatica a trovare un’appartenenza lineare.
Un disagio che non è riconducibile all’idea moralista della vita che ci viene proposta dalle gerarchie ecclesiali, ma a quel bisogno di coerenza tra l’agire politico e gli ideali, i valori, il rispetto dell’avversario, la trasparenza degli interessi che sono in campo, l’esplicitazione dei soggetti da cui voglio partire per leggere le dinamiche della società.
Quella che spesso viene classificata come una “opposizione quasi genetica”, è tutt’altra cosa, oserei dire proprio l’opposto perché vuole vincere tenendo ben saldo il timone dei valori, e non è qualcosa di alternativo ai partiti, anzi ne è spesso parte vitale, magari marginalizzata.
E’ un insieme di persone che, pur comprendendo le difficoltà, i compromessi “alti” necessari, sente con forza il bisogno che si stabilisca una differenza tra la logica della cultura che ci ha avvolto in questi anni e l’idea di governo e di servizio a cui non vogliamo rinunciare, anteponendo alle pure logiche di appartenenza le ragioni della sua collocazione politica, gli ideali che animano tutto ciò.
Ricordare quali sono i nostri ideali, le nostre aspettative, con la consapevolezza che si incontrano con altre culture, con altri valori, per arrivare ad una mediazione, ma alta, perché non baratta poltrone, ma è sintesi di ben più nobili aspettative.
Non sopporto più (dimostrandomi intollerante, ma sono convinto che la tolleranza sia la mistificazione dell’accoglienza vera, per questo mi piace essere un accogliente non tollerante) che mi si presenti questa sinistra come espressione di una volontà perdente.
Lascio questo gioco, un po’ perverso, agli intellettuali da salotto, invitandoli a scendere dalle loro scrivanie e mescolarsi nelle contraddizioni della società, in mezzo agli ultimi, ai precari, ai barboni… ed allora forse si capirebbe come l’urlo di un cambiamento è qualcosa che va ascoltato: ma ascoltare non implica assumerlo nella sua interezza, quanto cercare gli elementi di verità e autenticità che vi sono nelle varie istanze, traducendoli in piccoli passi che indichino però una differenza netta nell’agire politico.
Non sono più giovane, ho attraversato gli anni in cui pensavamo che non sarebbe stato più possibile svegliarci non democristiani (non me ne vogliano i veri democristiani, sappiano che spesso rimpiango quegli anni alla luce di un certo ceto politico che si è affermato), quando spesso in molti ci trovavamo a votare turandoci il naso: cattolici che volevano un’altra DC, socialisti che detestavano quel partito di affaristi, comunisti che speravano in un partito più disponibile a contagiarsi con i movimenti, meno rigido… più passionale.
Ora, nel bene o nel male, certi steccati si sono frantumati, sebbene anche allora fossero molto labili, credo che sia maturo gridare il disagio dinanzi alle forze politiche, non per distruggerle, ma per chiedere un processo di trasformazione.
Non significa inventarsi, come invece spesso i politici maturi e con la cultura della governabilità hanno fatto in questi ultimi anni, nuovi partiti o nuovi nomi, senza modificare nulla nella sostanza, quanto invece, a maggior ragione quando siamo maggioranza di governo, ricercare una pratica politica diversa, un agire politico riconoscibile, che segni realmente una differenza alta, che sia coerente con i valori e gli ideali dai quali sorge... una politica che affermi le identità di ciascuno e che al tempo stesso sia capace di identificare di volta in volta, senza mai darlo per acquisito definitivamente, un minimo comune denominatore.
Noi spesso traduciamo il non condividere come l’essere contro, il suggerire altre strade come quelli che dicono sempre di no e quindi sono contro la governabilità, quando invece sono approcci diversi, modalità di affrontare un problema da prospettive differenti, con le quali aprire un confronto cercando elementi di sintesi (un esempio è il movimento NO TAV, che dice di no ad un progetto proponendo un’altra idea di trasporto su quella linea).
Siamo chiamati a dover imparare a riconoscere le tante diversità con le quali camminiamo, ciascuna delle quali ha in sé verità con le quali è necessario confrontarsi.
Vi garantisco che non è un disquisire astratto: quando urliamo di ritirare le truppe dall’Iraq perché quella guerra è stata assurda e finalizzata alle pure logiche egemoniche degli USA, non è infantilismo politico di persone che non hanno un minimo senso delle relazioni internazionali (praticando ancora quello schematismo culturale che impedisce di cogliere le differenze), forse a quel grido soggiace proprio l’idea diversa delle relazioni internazionali. Lo sforzo da fare non è quello di etichettare un urlo, ma di cogliere come, in tutte le molteplici soggettività del centro sinistra, esista un giudizio negativo su quella guerra. E’ da questo che dobbiamo partire per adottare pratiche coerenti con quelle dichiarazioni, visto che quel giudizio negativo è un denominatore comune della coalizione.
Ed è importante ribadire le ragioni di quel no, perché il rischio è che, a breve, “l’impero” decida di attaccare l’Iran, oppure la Siria, oppure chissà quale altro paese, ed allora saremo chiamati a praticare davvero una cultura altra, una coerenza altra, una fermezza altra, dicendo dei no ad un cultura egemone e proponendo altre strade di relazioni internazionali.
Quando tutti noi diciamo che precarietà di lavoro è una condizione alienante di vita (questo più o meno è una valutazione comune nella coalizione), significa essere consapevoli che il precariato non è determinato da una condizione genetica o donato, per distrazione, dal cielo… ma è frutto di un preciso modo di organizzare l’economia, il lavoro partendo dagli interessi dei soggetti forti… e tutto questo ha preso forma di una legge precisa… questa legge quanto meno andrà rivista partendo dal punto di vista degli ultimi (per usare un termine che non piace alla sinistra, ma che forse è più unificante di quanto si pensi, includendo tra gli ultimi tutti quelli che si vedono negati tanti diritti elementari).
Quella parte che troppo superficialmente viene considerata amante della sconfitta non chiede la luna, forse la sogna, immaginando relazioni nonviolente, l’abrogazione della legge 30, perché ha un’idea del lavoro diversa e di chi sono gli ultimi, vorrebbe cambiare la controriforma della scuola, perché esiste un idea del sapere che va rimessa in campo, rifacendoci anche a persone che ormai abbiamo chiuso nel cassetto (Don Milani, Paulo Freire, Danilo Dolci...).
E’ portatrice di istanze, di cui non possiamo perderne traccia, perché è un valore aggiunto nella coalizione, ed è un valore che non va negato, va governato nell’incontro delle altre culture che stanno dentro, individuando i necessari punti di incontro, evitando però di arroccarci dietro pregiudiziali di fondo.
Se non ci sono le condizioni per abrogare la legge 30, partendo dall’elemento comune che è eliminare il precariato, interveniamo al suo interno per togliere tutte quelle condizioni che lo favoriscono, perché questo è quello che ci accomuna.
Pur nelle differenze, spostiamo la discussione sui PACS da una pura disquisizione sul modello di famiglia, ad una semplice e naturale necessità di estendere diritti civili a forme di convivenza che esistono nella società a prescindere delle scelte religiose di ciascuno.
Credo che un altro elemento unificante per delle forze progressiste (siano esse cattoliche, moderate o radicali) sia la consapevolezza che la democrazia la si rafforza e la si costruisce procedendo per ampliamento dei diritti, non per un restringimento.
Forse allora si smaschererebbero certi atteggiamenti così di chiusura, che nascondono altre paure e altre volontà egemoniche.
In tal modo l’urlo non viene misconosciuto, ma trova pari dignità... che sarebbe resa vana se prevalesse la cultura che vuole etichettare tutto quello che non mi appartiene come “forze che vogliono solo perdere...!”, perché questo è solo un pregiudizio che nasce dal timore di mettersi in campo, avviare un confronto, dialogare con le critiche, sapendo che la rottura avviene nel momento in cui una delle parti non riconosce all’altra pari dignità, come è avvenuto qualche anno fa.
Non è un urlo che vuole inventare ostacoli, è l’urlo di chi vive le contraddizioni e la condizione di vedere ridotti i propri diritti.
E’ infantilismo politico questo? E’ disfattismo politico? Maturità politica significa non avere un orizzonte e non provare più il sano sentimento di indignarci e di arrabbiarci?
Il non dialogo porta al parricidio, la critica può portare a riconoscere i reciproci sentimenti, senza negarli pur percorrendo non necessariamente le stesse strade.
No è solo bisogno di un agire politico diverso, che contagi tutte le forze politiche, proprio tutte inclusa la mia… la consapevolezza che se non si inizia a far emergere ideali e valori e su questi misurare la coerenza con la nostra pratica politica, siamo destinati alla sconfitta, ma non per immaturità del corpo elettorale, per incapacità a segnare una differenza vera ed autentica, una differenza che ancora prima di essere modo di governare è cultura di governo.
Ed una necessità questa che deve partire anche dalle nostre città (Massa e Carrara ne hanno un terribile bisogno), dalle contraddizioni delle nostre amministrazioni, assenti nelle passioni del territorio e prive di quelle politiche sociali e culturali che realmente segnino un cambiamento nelle relazioni con le città, dall’incapacità delle forze politiche a mettersi in gioco, senza abdicare nessun ruolo, camminando con movimenti, gruppi, realtà che anche nelle nostre città esistono, facendo si che luoghi diversi della società inizino a parlarsi, a contagiarsi, a costruire insieme un’agire politico diverso… ma le forse politiche devono scegliere di mettersi in gioco, di abbandonare le loro fortezze rassicuranti, e di iniziare, senza perdere identità, a praticare sentieri nuovi camminando insieme a soggetti doversi, vincendo quella reciproca diffidenza e quella assurda autoreferenza che spesso ci accompagna.
La sinistra che spesso si ritiene voglia solo perdere, vuole proprio il contrario vuole vincere tutti insieme e praticando strade alte… non vuole vincere da sola, non si ritiene panacea dei problemi, vuole che ciascuna forza politica riaffermi i propri valori, esaltando le differenze, per poi individuare gli elementi e i punti unificanti… e su questo percorso che tutti procedano e si rafforzino… le forze di centro intercettando quel disagio profondo che in certi movimenti di quell’area esiste, così le forze della sinistra moderata e di quella radicale, perché tutte sono chiamate alla coerenza e al salto di qualità, perché non è più il tempo delle scorciatoie, ma è il tempo di saldare insieme mezzi e fini di governo… questo è possibile, non è una utopia, anche perché se non capiamo questo siamo destinati al suicidio politico e, veramente, a morire affogati nella cultura berlusconiana.
Certo so bene come spesso aleggi in settori, sia delle forze radicali che in quelle moderate, atteggiamenti intransigenti, ma sono anche consapevole che siamo chiamati tutti a sperimentare forme diverse di agire politico, facendo si che le differenti istanze che provengono dalla società non vengano colte non con pregiudizio, ma come opportunità di letture delle contraddizioni del sistema.
Alla fine devo costatare come mi abbia fatto bene, amico mio, arrabbiarmi, perché, magari coprendomi di ridicolo, ho fatto un tentativo, partendo da quella rabbia, di fare chiarezza dentro di me, partendo dal mio vissuto quotidiano dentro alle contraddizioni degli ambienti che frequento, nei quali spesso il disagio non si trasforma in voce e progetto di cambiamento, accettando di condividere questi miei deliri, nei quali so, amico mio, esserci tanti comuni denominatori che ci uniscono.
(Buratti Gino)