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Il diritto di essere donna: l'identità voluta

Comincerei con il definire i termini, così siamo sicure e sicuri di capirci. Innanzitutto, la parola identità, che è un pò la bussola del percorso disegnato dalle organizzatrici. Elena ha usato delle parole riferite all'identità per dirvi chi aveva portato qua stasera. Per cui ha detto di me le cose che sa e, soprattutto, le cose che si adattano alla mia presenza qui ed ora. Se chiamo qualcuno a relazionare su una questione dirò infatti, di questa persona, ciò che è in relazione alla questione stessa. E cioè, se il relatore o la relatrice vi deve parlare della vita dei delfini chi fa le presentazioni dirà che lui o lei ha una laurea in biologia marina, ha diretto o partecipato a dei programmi di studio, eccetera. Anche se sa che la persona che fa la relazione ha fatto anche altro, ciò che giustamente viene sottolineato è questo. Sarebbe buffo se per presentarvi chi deve parlare della vita dei delfini si dicesse: ha una nonna svizzera, le piace la marmellata di fragole e corre i cento metri in 11 secondi. Sarebbe buffo, ma le caratteristiche nominate sono tutte parte del mosaico che chiamiamo "identità". Di volta in volta, noi scegliamo quale è la parte della nostra identità che meglio ci definisce in un determinato contesto e la nominiamo.
Ognuna di noi e ognuno di noi ha questa unicità: le tessere del mosaico non sono infinite (perché gli esseri umani non sono infiniti) ma i modi in cui si combinano sono irripetibili, perché qualcuno potrà condividere con voi il tassello della marmellata di fragole o della zia svizzera, ma non il vostro personale rapporto con queste caratteristiche, e non le esperienze che voi avete fatto al proposito. Anche il vostro clone, sebbene identico a voi fisicamente, sarebbe diverso da voi per questo motivo. Quindi, quando io parlo di identità parlo del concetto che vi ho illustrato. Una decina di anni fa ero ancora un pò isolata nel veicolarlo, ma poi lo ha usato anche Amartya Sen e io sono diventata leggermente più rispettabile...

Anche per quanto riguarda il femminismo dobbiamo tener presente che non vi è una definizione unica per descriverlo: differenti correnti di pensiero hanno elaborato nel tempo differenti concetti e pratiche. Il termine "femminismo" è stato coniato in Francia, nel 1880, da Hubertine Auclert, che lo introdusse nella sua rivista (che si chiamava "La Cittadina") nel descrivere la lotta delle donne per i loro diritti e la loro emancipazione: cose che la rivoluzione francese aveva promesso, ma non mantenuto. Nel primo decennio del XX secolo il termine "femminismo" appare in lingua inglese (Gran Bretagna e Stati Uniti) e dagli anni Venti viene utilizzato in francese in Egitto, dove però già circolava precedentemente, in arabo. I femminismi nascono in luoghi precisi e si sviluppano in termini locali, perché è dall'avvento del patriarcato che le donne protestano contro di esso. Per cui non è una produzione occidentale, nè riservata all'epoca moderna. Ai tempi di Catone il censore, nella Roma antica, una rivolta delle donne disse in sostanza ciò che le femministe continuano a dire nel 2010 in tutto il mondo: se siamo cittadine, e abbiamo dei doveri nei confronti della comunità umana di cui facciamo parte, abbiamo anche dei diritti. Responsabilità e riconoscimento devono andare di pari passo.

Quindi, tenendo conto delle differenze fra i vari movimenti, delle epoche e delle istanze, penso di poter tentare una sintesi esplicativa di questo tipo: il femminismo è la convinzione radicale che le donne siano esseri umani. Totalmente, nel bene e nel male, senza se e senza ma. A prima vista può sembrare persino assurda come affermazione: ma certo che le donne sono esseri umani, chi ha mai detto il contrario? Hanno detto il contrario, per un totale attuale di circa 5.000 anni, filosofie, religioni, culture, branche della scienza (anche se in quest'ultimo caso mi sentirei di dire pseudo-scienza o di mettere la parola tra virgolette).
Si tratta di un "pensiero binario", fatto da opposizioni concettuali, che assegna a uomini e donne delle associazioni simboliche tramite un modulo escludente: per cui se la donna è terra l'uomo è spirito, se la donna è natura, l'uomo è cultura, e ad ogni associazione viene dato un valore, il che le sistematizza in una scala gerarchica. Alle donne si consiglia di essere qualcosa, spesso le si forza violentemente ad essere quel qualcosa, ma per gli uomini non è che vada in modo tanto diverso. Nel senso che quando costruisci una gabbia, dal punto di vista simbolico, chi sta in gabbia vede il suo spazio drasticamente limitato, ma chi ha costruito la gabbia si è escluso da quello spazio, ed ha quindi ridotto anche il proprio. Nel modulo patriarcale le donne devono essere "accuditive", gentili, consce dei propri sentimenti, servizievoli, mentre gli uomini devono essere produttivi, competitivi, razionali ed occupare posizioni di comando, e così via. Il patriarcato ha assegnato queste caratteristiche a seconda del sesso, con la stessa logica che se le avesse assegnate per il colore dei capelli: ma se io vi dicessi che le persone dai capelli biondi sono di natura gentili e pacifiche, ma anche infantili e pericolose, mentre quelle dai capelli castani sono aggressive e portate alla guerra, ma anche mature e razionali, voi mi chiedereste se sono matta. Invece le matte sono state per lunghissimo tempo le donne che si diceva trascendessero il loro sesso (quando il giudizio era positivo) o lo trasgredissero (quando il giudizio era negativo) perché componevano musica e poesia o scrivevano, o eccellevano nelle scienze, o semplicemente amavano altre donne. E cioè usavano le loro qualità umane e cercavano di realizzare i loro sogni umani.

Cosa significa sapere che le donne sono esseri umani? Significa che non si trovano ragioni plausibili per negare ad esse i loro diritti umani, dignità e rispetto. Significa che sono a pieno titolo cittadine della polis e quindi titolate ad esercitare le prerogative di ogni altro cittadino.
Un'altra sintesi esplicativa potrebbe essere: il femminismo è la convinzione radicale che le donne possano e debbano occuparsi di tutto ciò che le riguarda. Ne consegue che la maggioranza dell'umanità (perché le donne del pianeta Terra sono in numero leggermente superiore) ritiene sia di suo interesse diretto tutto quello che accade in economia, in politica, nelle scienze sociali, in agricoltura, nei budget dei governi, ai tavoli delle corporazioni economiche, sul lavoro, nelle case, eccetera, e su tutto vuole discutere e per tutto vuole partecipare al processo decisionale. Visto che poi le decisioni prese in ognuno dei campi che ho nominato, e in altri, hanno effetto diretto sulle donne, mi sembra semplicemente ragionevole che esse vogliano aver voce in capitolo.
Lasciate che ve lo dica con un pò di umorismo: ci sono molte prove a favore del fatto che le donne siano esseri umani, nonostante ci si sia opposti a questo, appunto, per tante migliaia di anni. Pensate solo che a livello di analisi anatomica e fisiologica, ciò che è differente fra maschi e femmine lo è in modo netto, ma ciò che è uguale è praticamente indistinguibile. Il che corrobora l'idea che uomini e donne appartengano alla stessa specie. E spiega anche come sia possibile per uomini e donne svolgere in maniera intercambiabile qualsiasi lavoro, poiché sono dotati e dotate dello stesso tipo di arti e dello stesso tipo di cervello; ci sono solo due mestieri al mondo che non possono essere scambiati per evidenti limiti fisici: un uomo non può fare la nutrice al seno e una donna non può fare la donatrice di sperma, tutto il resto è un'opzione valida per entrambi. Vi è poi l'evidenza irrefutabile del fatto che per produrre una nuova donna o un nuovo uomo, i due membri della specie devono collaborare. Non siamo ancora arrivati alla clonazione umana su vasta scala, per cui mi sento di presumere che questa collaborazione sia destinata a continuare ancora per un pò.

Ma scherzi a parte, la domanda seria che si affaccia alla mente riflettendo sulla faccenda è: perché questa reiterazione nel descrivere metà dell'umanità come non umana, mancante, non finita, bloccata a livello infantile, non suscettibile di sviluppo, ravvedimento e redenzione, priva di anima, inferiore, intrinsecamente malvagia, e via dicendo? Perché la disumanizzazione, o de-umanizzazione, di chi si vuole espropriare, degradare o uccidere è il primo passo necessario ad auto-assolversi. Fornisce una scusa per legittimare comportamenti che, se diretti verso un uomo, non avremmo alcun dubbio nel definire oppressivi. La disumanizzazione è, in soldoni, il ridurre la complessità di una persona, o di un gruppo di persone, ad una sola delle tessere del mosaico identitario. Su questa tessera singolarizzata si appunta tutto l'odio ed il disprezzo possibile: il modo in cui la si guarda è quello detto "visione tunnel", o visione da caccia, e cioè uno sguardo focalizzato, ristretto e centrato su un solo punto. I campi di sterminio nazisti o gli stupri di massa in Congo hanno questa logica alle spalle. Non per niente, mentre si adoperava a costruire il contesto necessario per l'Olocausto, Hitler scrisse: "Gli ebrei sono certamente una razza, ma non una razza umana". Voi capite che, se non sono umani, ucciderli non infrange uno dei tabù fondamentali della storia dell'umanità, l'omicidio, ma equivale eticamente allo schiacciare uno scarafaggio o allo spruzzare insetticida su una zanzara. Nel 1973, un ex sergente dell'esercito statunitense accettò di parlare in pubblico sulla sua esperienza durante la guerra in Vietnam. Uno degli episodi riguardava una donna che aveva chiesto dell'acqua ai soldati, era stata stuprata in gruppo, costretta a compiere vari atti umilianti ed infine uccisa. Alla domanda "come potevate trattare così degli esseri umani", l'uomo rispose: "Non pensavamo mai che fossero esseri umani". Ovviamente, aggiungo io. La gerarchia di valore per cui alcuni sono essere umani, e gli altri un pò meno o per niente, che è la caratteristica fondante di quello che chiamiamo patriarcato, nasce assieme alla guerra, che 6.000 anni fa si affaccia sul nostro pianeta e da allora diviene gradualmente sempre più importante anche a livello simbolico, sino ad occupare il linguaggio con le sue metafore. Oggi usiamo parole come conquista, breccia, scudo, battaglia, esercito eccetera in contesti che vanno dalla contesa politica alle storie d'amore. Però, la verità è che l'umanità esiste da prima: siamo qui da 990.000 anni circa. Resta quindi un gran lasso di tempo in cui uomini e donne hanno maneggiato le loro relazioni in modi diversi dal posizionamento gerarchico. Gli studi storici ed archeologici degli ultimi quarant'anni ci hanno fornito un gran numero di informazioni al proposito: non entro nei dettagli perché il nostro dialogo è centrato su altro, ma siamo ormai certi che non è stata la violenza a tenerci insieme come gruppi umani, nè essa è stata il motore del nostro sviluppo.
Joyce Lussu, filosofa e scrittrice, ne parlava così: "Ai ragazzi, nelle scuole, s'insegna che il progresso della società umana è legato allo sviluppo di poteri accentrati, di minoranze che impongono alle maggioranze lavori forzati (...) con la violenza delle armi (...) e alla creazione dello stato patriarcale e maschilista e dell'istituzione militare. E se fosse vero il contrario? Se invece il progresso dell'umanità fosse avanzato zoppicando malgrado lo stato patriarcale (...), grazie al permanere di culture sconfitte e sommerse ma non cancellate, grazie alla maggioranza di produttori uomini e donne asservita ma tenacemente vitale, che con pazienza e intelligenza, attraverso i millenni, non ha mai cessato di ritessere i fili della vita e del quotidiano lacerati dai traumi delle guerre e delle servitù, assicurando a tutti la continuità della sopravvivenza e della convivenza? (...) Dalle documentazioni che oggi la scienza mette a nostra disposizione per un'analisi attenta delle vicende umane, non si può non trarre il convincimento che una civiltà di pace è possibile e fa parte del nostro patrimonio culturale. La civiltà guerriera e la cultura di morte sono state una scelta storica; possiamo oggi fare altre scelte".
Tant'è che esistono ancora popolazioni del tutto pacifiche che non hanno neppure, nei loro linguaggi, i termini per descrivere la violenza e in cui l'uso della stessa per il maneggio dei conflitti è sconosciuto. Questi gruppi (tribù, villaggi, regioni) presentano una caratteristica comune, e cioè la sostanziale eguaglianza tra i generi: le differenze non vengono sistematizzate in una gerarchia di valore, e quindi non vi è sbilanciamento di potere nella relazione tra donne ed uomini.

Permettetemi a questo punto di definire rapidamente un altro termine, e cioè "genere". Il genere viene spessissimo confuso con il sesso. So che potrò sembrare idiota a ripetere cose molto semplici, ma lo faccio perché non sussistano dubbi: il sesso si riferisce alle differenze anatomiche e biologiche tra uomini e donne; il genere si riferisce ai diversi ruoli che gli uomini e le donne adottano. Tali ruoli sono appresi, non iscritti in un codice genetico, sono attraversati da istanze culturali, economiche ed ambientali, e possono cambiare per i motivi più svariati. Quindi, per semplificare: ognuna e ognuno di noi nasce del proprio sesso e viene socializzata o socializzato nel proprio genere. Il genere è la costruzione sociale dei rapporti sociali tra donne ed uomini: perciò interessa l'identità di genere socialmente costruita, il simbolismo di genere (che attualmente è un dualismo stereotipato) e la struttura sociale. Come vedete, non è un affare che riguarda solo le donne, ma tutti.
Essere consapevoli delle questioni legate al genere significa essere onesti, giusti, equi con donne ed uomini. Significa essere preoccupati che donne ed uomini godano in eguaglianza di diritti e opportunità. Queste definizioni sono largamente condivise a livello internazionale, grazie al lavoro che da due secoli le femministe fanno, ed hanno portato alla creazione ed allo sviluppo di leggi, trattati, convenzioni tese a garantire alle donne i loro diritti umani e civili all'interno della famiglia, sul lavoro, negli ambiti della salute e della sicurezza: questo perché la discriminazione di genere persiste, a vari livelli, in ogni campo ed in ogni angolo del mondo. Le sue cifre sono allucinanti, ve ne faccio solo alcune: i tre quarti dei poveri del pianeta sono donne, i tre quarti dei rifugiati ambientali e di guerra sono donne, i due terzi degli analfabeti sono donne: più di mezzo miliardo di persone, con l'aggiunta di 62 milioni di bambine in età scolare che a scuola non ci vanno; ogni minuto e mezzo una donna muore partorendo: perché non ha accesso alle condizioni minime di igiene e sicurezza, perché è denutrita, perché è stata infibulata ed il suo travaglio è durato tra il doppio ed il triplo del normale, perché è stata data in moglie ad 11 anni e sta partorendo a 12, perché è alla sua ennesima gravidanza, l'ultima, quella di troppo, giacché le è stato negato l'accesso al controllo della fertilità.
Perché una persona deve soffrire e morire così frequentemente, e in modi così terribili, e perché la si biasima per tutta la violenza che le viene scatenata contro? Perché è femmina. Perché il suo ruolo è questo. Perché dio, la natura, la cultura, le tradizioni dicono che va bene così: e se non vi garba siete apostate, eretiche, filo-occidentali, imperialiste, eurocentriche, puttane, lesbiche e femministe. Questa è la vecchia (e brutta) faccia del patriarcato, non è diversa dal solito se non per il make-up dell'epoca attuale.

La stabilizzazione culturale del patriarcato, per la civiltà occidentale, avviene simbolicamente con l'Orestiade di Eschilo, ove si enunciano due principi fondamentali: l'uccisione della madre non è reato punibile con la morte dell'empio, mentre quella del padre sì; e la procreazione avviene per solo intervento maschile: le donne sono dei "fornetti" in cui gli uomini mettono a cucinare il proprio seme. Vi starete legittimamente chiedendo che accidente c'entra l'Orestiade con la vita delle persone oggi: bè, sino agli anni '50 dello scorso secolo, i genetisti hanno continuato a negare o a cercare di cancellare l'eredità materna nella concezione umana, ripetendo in maniera "scientifica" (tra virgolette) la teoria del fornetto, e cioè un delirio di onnipotenza e di disumanizzazione. Ma a chiunque volesse difendere o proporre leggi tese alla riduzione dei diritti delle donne nell'ambito familiare, il cosiddetto "diritto di famiglia", questo pensiero dava una mano: come possiamo pensare che le donne abbiano potestà sui figli che mettono al mondo, quando non sono altro che le pentole dentro a cui questi bambini lievitano? Oggi non è più possibile sostenere scientificamente tale opinione, ma basta incartarla diversamente, dicendo che ciò è dogma di fede o tradizione culturale, per continuare a descrivere le donne come "umane sì ma un pò meno".
Altro esempio: le donne producono fra il 60 e l'80% del cibo coltivato nei campi. Il che significa che quando a livello mondiale parliamo degli agricoltori e dei loro problemi stiamo in realtà parlando delle agricoltrici e dei loro problemi; ma i programmi di aiuto e di sostegno all'agricoltura non se ne accorgono: negli ultimi anni, le donne impegnate nella coltivazione della terra, nella pesca e nella cura delle foreste hanno ricevuto fra il 7 ed il 9% del totale degli aiuti nazionali ed internazionali. Perché? Perché il patriarcato ha in testa il virile contadino, a petto nudo sul trattore o dietro al bue, il buon padre che suda e si impegna per il benessere della sua famiglia e non c'è niente di meglio di un bel pregiudizio per oscurare una realtà. E la realtà va oscurata perché ha a che fare con il controllo delle risorse, del territorio e della cultura, quindi con l'esercizio del potere, e nulla - proprio nulla - con la mistica della femminilità o della mascolinità che sono semplicemente gli strumenti con cui il patriarcato legittima se stesso.
Sempre ad esempio, ci sono paesi cosiddetti del "terzo mondo" o "in via di sviluppo", dall'economia traballante, che letteralmente riescono a restare in piedi grazie delle rimesse dei migranti, in special modo le Filippine, il Bangladesh e vari paesi dell'America Latina. Questo è un fatto che molti sanno e che viene citato. Si omette il particolare scomodo, ovvero che le donne migranti contribuiscono per i tre quarti del totale delle rimesse, giacché mandano ai loro paesi d'origine circa il 70% di quel che guadagnano, mentre i migranti uomini inviano invece fra il 20 ed il 30% dei loro guadagni; perciò, la fotografia esatta della realtà sarebbe: le economie di questo paese e di quest'altro si reggono principalmente sulla buona volontà delle donne.

E in Italia come va?, vi chiederete voi. Benone. Abbiamo un tasso di occupazione femminile del 46 per cento, contro il 58 per cento abbondante della media europea, ma siamo in Europa le più molestate sul lavoro. Gli organismi internazionali che ogni anno misurano il "gender gap", ovverosia il "divario di genere", usando indicatori economici e sociali per stabilire la qualità delle vite delle donne (tasso di occupazione, quello di alfabetizzazione, la possibilità di accedere a cure sanitarie, il tasso di mortalità infantile e materna, ecc.) ci hanno fatto sapere che nel 2009 l'Italia è scivolata indietro, nella lista, di ben cinque postazioni. La lista comprende le 134 nazioni del mondo e l'anno precedente l'Italia si situava al 67mo posto, che già non è nulla di cui andar fieri. Il nostro paese, oggi, sta al numero 72, e tanto per farvi un esempio, lo sopravanzano paesi assai sviluppati (sono ironica) come il Vietnam (71), il Paraguay (66) e Honduras (62).
In Italia si denunciano quattro stupri al giorno: si può tranquillamente ritenere che la reale cifra sia superiore, dato che solo il 7,3% delle violenze sessuali di ogni tipo viene effettivamente denunciato; in Italia circa 100 donne l'anno muoiono uccise da una persona che, ad uno stadio o l'altro della loro vita, aveva detto di amarle; in Italia ci sono 270 posti disponibili nei rifugi per le vittime di violenza domestica (e solo grazie al volontariato delle donne) su tutto il territorio nazionale: il Parlamento Europeo ha fatto sapere al suo onorevole stato membro, l'Italia, che data l'estensione del fenomeno e la necessità di proteggere anche i bambini, ne servono un minimo di 5.913, però non ho notizia di nessun provvedimento preso in questo senso.

Ma naturalmente, in Italia, dagli anni '80 in poi stiamo vivendo (mediaticamente parlando) nella fiabesca era del post-femminismo. Per chi credesse che quest'ultimo termine sia stato coniato proprio negli anni '80, rendo noto che esso era già nato nel 1919, per dare l'avvio ad una campagna di denigrazione delle suffragiste. Da trent'anni a questa parte i media strillano che il femminismo è morto, e che è un bene che sia morto perché era dannoso; poi, ad ogni episodio di violenza di genere, includono nell'articolo una domanda da Nobel per l'intelligenza, che è: "Dove sono le femministe?". Ora, se il femminismo è morto, ne consegue che le femministe riposano in pace nel suo cimitero, ed è davvero sgradevole tentare di riesumarne i cadaveri perché di fronte al femminicidio non si sa che pesci pigliare. La violenza di genere è un problema delle società umane in cui avviene, ed è un problema che l'intera comunità ha il dovere di risolvere, interrogandosi sulle attitudini e le credenze che legittimano, scusano e alimentano tale violenza. Tuttavia, poiché il femminismo non è affatto morto, ogni volta faccio presente al sedicente, o alla sedicente, giornalista che i precedenti 50 comunicati che ho mandato al suo giornale quell'anno sulle iniziative femministe contro la violenza di genere, in tutto il mondo, risponderebbero probabilmente alla sua domanda. Personalmente, sarò una post-femminista nell'era del post-patriarcato, ma finché quest'ultimo resiste, io non intendo essere da meno. In particolare, continuerò ad oppormi all'erosione della memoria e della consapevolezza storica delle donne. I libri di testo non riportano la storia delle donne, i media non la conoscono, l'arte la ignora. In grazia di ciò, molte giovani pensano che la discriminazione sessuale sia cosa che non le riguarda direttamente. O che il diritto di voto l'hanno sempre avuto. O che sia sempre stato legale divorziare. Ignorano tutte quelle madri, reali e simboliche, che si sono incatenate davanti ai Parlamenti, che hanno fatto scioperi della fame, che hanno scritto e parlato e proposto e perseverato. E così queste ragazze, quando si trovano di fronte alla lettera di dimissioni in bianco da firmare per essere assunte, o quando al colloquio di lavoro chiedono loro se sono fidanzate o se pensano di far figli sono seccate, ma sono soprattutto scioccate. E pure quelle che non si arrendono, non avendo passato sono costrette ogni volta a ripartire da zero, a reinventare modelli di attivismo e di resistenza, o a fare affidamento su modelli altrui. Questo è il rischio nel rimanere indifferenti alla nostra propria storia: perdere quel che abbiamo ottenuto, e consegnare un futuro indecente alle bambine di oggi.

Io qui posso solo accennarvi a questa storia nascosta o poco considerata, perché è molto intensa, molto lunga, e copre l'intero pianeta. Abbiamo i nomi delle donne di spicco, delle intellettuali, delle artiste e delle leader, ma non quelli delle donne comuni, delle lavoratrici dei campi e delle fabbriche: ad esempio non sappiamo nulla delle lavoratrici tessili americane grazie alla cui protesta nasce la ricorrenza dell'8 marzo, e cioè del Giorno internazionale della donna. Qualcuno attualmente crede che la ricorrenza sia qualcosa di simile al Giorno dei nonni o a S. Valentino, fatta per vendere mimose e cioccolatini, e qualcun altro, o altra, su questa base si chiede sempre cosa accidenti c'è da celebrare: sulle celebrazioni, ovvero su ciò che si è vinto, verrò alla fine, senza dimenticarmi di ciò che si è anche perduto. Ma l'8 marzo è stato istituito principalmente per aiutare la memoria: l'8 marzo 1857 la protesta delle lavoratrici contro condizioni inumane di lavoro e paghe che non permettevano loro di vivere fu repressa con incredibile violenza. Due anni più tardi, furono queste stesse donne a creare la prima unione sindacale del paese. L'8 marzo 1908, le loro eredi, 15.000 operaie, sfilano attraverso la città di New York chiedendo orario di lavoro più corto, migliori stipendi, diritto di voto e la fine del lavoro minorile.
Nel 1910 si tiene una conferenza internazionale delle organizzazioni socialiste, a Copenhagen. Durante i lavori Clara Zetkin, tedesca, propone di fissare all'8 marzo una giornata internazionale della donna, per onorare le lotte dei movimenti delle donne ed anche per fare in modo che le tessili americane, alcune delle quali in quel famoso 8 marzo 1857 avevano perso la vita, non fossero dimenticate. La proposta, sostenuta da cento donne provenienti da 17 diversi paesi, fra cui le prime tre elette al parlamento finlandese, viene votata all'unanimità e così nasce la cosiddetta "Festa della Donna", che in realtà, ripeto, è il "Giorno Internazionale della Donna".
Le situazioni in cui nascono i movimenti femministi sono quelle in cui le donne non possono avere proprietà, studiare o partecipare alla vita pubblica, in cui le loro condizioni di lavoro e di vita sono insostenibili, eccetera. All'inizio del XX secolo le donne non votano e non possono essere votate in Europa e nella maggior parte degli Stati Uniti. Non possono condurre affari se non tramite un rappresentante di sesso maschile (padre, fratello, marito o persino figlio). Le donne sposate non hanno potestà sui figli. E così via.
I movimenti che nascono non sono senza radici. Sin dal XIV secolo, voci autorevoli di donne hanno argomentato per iscritto contro la supposta inferiorità femminile, come la filosofa Christine de Pisan in Francia, e Laura Cereta e Moderata Fonte in Italia: mentre l'atteggiamento generale dipinge le donne come superficiali, frivole ed intrinsecamente immorali, i loro libelli contengono lunghe liste di donne coraggiose e di successo, e sostengono la necessità di un uguale accesso all'istruzione per maschi e femmine. Considerate che alle donne europee non fu consentito consultare biblioteche e fonti documentali sino al XVIII secolo e in molte università, europee e non, alcune biblioteche resteranno chiuse all'ingresso delle donne sino alla seconda metà del XX secolo (che è l'altro ieri, tanto per dire). Nel XVII secolo, rispondendo a quasi un secolo di polemiche satiriche e sguaiate contro l'intelletto femminile, l'autrice inglese Mary Astell darà alle stampe i due volumi di "Una seria proposta alle signore", dove suggerisce che le donne dovrebbero creare i loro propri spazi, dei "conventi laici", separatisti, in cui potrebbero finalmente studiare ed insegnare tutto ciò che vogliono. Durante l'Illuminismo, le donne cominciarono a chiedere che il discorso su libertà, eguaglianza e diritti naturali fosse applicato ad ambo i sessi. Rousseau non si era fatto alcuno scrupolo nel dipingere le donne come vanesie scioccherelle nate per essere subordinate agli uomini, e la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino, che definì il concetto di cittadinanza in Francia dopo la rivoluzione del 1789, non si era presa la briga di considerare lo status legale delle donne. Due anni dopo, infatti, Olympe de Gouges pubblicò la "Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina" e l'establishment rivoluzionario non glielo perdonò.
In Italia vi è stato a partire dall'Ottocento un grosso movimento emancipazionista e suffragista, le cui figure di spicco furono incredibilmente tenaci: Bianca Milesi, mazziniana, che aprì scuole popolari con nuove tecniche educative; Cristina Trivulzio di Belgiojoso; c'era Matilde Calandrini in Toscana, Emilia Peruzzi a Roma, la quale tra l'altro convinse il marito, deputato del primo parlamento italiano, a presentare un progetto di legge a favore delle donne; c'erano Laura Mantegazza e Clara Maffei a Milano; Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff e tantissime altre. Dalla seconda metà dell'Ottocento il movimento per l'emancipazione femminile italiano si poteva grosso modo dividere in due correnti, l'una che aveva fatto propria l'idea socialista, e tentava di incorporarvi le rivendicazioni delle donne (con grande fatica, e spesso scarso successo); e l'altra che si ispirava alla religione con lo stesso tentativo e le medesime difficoltà: grande fatica, scarso successo, a dimostrazione che la classe dominante fa quadrato al di là di ogni differenza ideologica, quando i suoi privilegi vengono messi in discussione. Nella prima metà del '900 vi saranno altre grandi figure a portare avanti pensiero e lotta delle donne, penso per esempio a Sibilla Aleramo, e va detto che ci sono sempre stati, sin dall'inizio, uomini che appoggiavano le rivendicazioni femminili e che andarono incontro ai più svariati dileggi e insulti. Persino durante la rivolta romana di cui vi ho accennato, contro Catone parlò nel Senato Lucio Valerio (sostenendo che va bene, le femmine erano inferiori, però neppure agli schiavi si lesinava l'ascolto, eccetera). Nel '900 le associazioni femminili di ispirazione cristiana perdono diciamo "appetibilità" per le donne, in rapporto all'emancipazione (per svariati motivi, non ultima l'avversione delle gerarchie cattoliche) e la "causa" femminile si lega sempre di più alla sinistra politica. Fra l'800 e il '900, a livello internazionale, il movimento femminista è per lo più concentrato sul suffragio universale, ovvero sul diritto di votare esteso a tutti i cittadini maggiorenni, maschi o femmine, ma c'erano anche opinioni differenti, come quella di Emma Goldman, femminista anarchica, che disse: "Solo rifiutando che chiunque accampi diritti sul suo corpo (...), solo rifiutando di essere una serva di dio, dello stato, della società, del marito e della famiglia, una donna otterrà la propria libertà".

Una delle caratteristiche storiche più frequenti nei movimenti femministi è il legarsi a cause di giustizia sociale: negli Stati Uniti al movimento abolizionista e a quello per i diritti civili, in Europa ai movimenti operai e studenteschi, in Africa e in Asia ai movimenti anti-colonialisti, e dappertutto al pacifismo. Le due guerre mondiali a volte suscitarono spaccature nei gruppi femministi: penso ad esempio a come la prima divise il suffragismo inglese fra interventiste (che non volevano perdere l'appoggio di alcuni settori politici) e sostenitrici della non-belligeranza. Durante entrambi i conflitti, attività lavorative prima precluse alle donne si aprirono, ma queste porte vennero quasi del tutto chiuse al temine dei conflitti stessi, quando le donne persero i loro impieghi a favore dei reduci. Lo schema che incoraggia le donne a prender parte o sostenere guerre su cui non hanno avuto la possibilità nè di discutere, nè di decidere, è qualcosa di trasversale a tutte le epoche, a tutti i paesi e a tutte le ideologie. La retorica bellica le esalta come "figlie predilette", "madri coraggiose", "sorelle combattenti", "spose della rivoluzione" e poi le rimanda a casa quando tutto è finito, chiedendo loro di assolvere al loro vero compito, che è quello di essere appunto figlie, madri, sorelle e spose obbedienti, senza ulteriori aggettivi. Possono lottare per ogni causa che gli uomini scelgano, ma assolutamente non devono sedersi ai tavoli decisionali dopo la vittoria, come hanno scoperto loro malgrado le partigiane italiane, le guerrigliere della Sierra Leone o dello Sri Lanka, e le partecipanti palestinesi alla prima Intifada.
Ma, tornando alla storia del femminismo, la sua cosiddetta "seconda ondata" si presenta alla fine degli anni '60 dello scorso secolo. Alcuni diritti sono stati conseguiti un pò dovunque nella sfera pubblica, ma resta completamente irrisolto il problema della signoria delle donne sul proprio corpo, e quindi sulla propria vita, che concerne ovviamente il controllo della fertilità. Tutto quel che riguarda la sessualità esce, per così dire, dall'armadio in cui era stato chiuso: stupro, violenza domestica, interruzione volontaria di gravidanza, contraccezione. Ma escono allo scoperto anche il godimento della sessualità, i suoi aspetti positivi, l'omosessualità, eccetera.
"Io sono mia" e "Il personale è politico" sono due degli slogan che, durante la seconda ondata, attraversano i movimenti femministi in tutto il mondo e che forse dicono, da soli, più di tutte le analisi fatte a posteriori.
"Io sono mia" è una frase importante, perché nega la riproduzione del rapporto padrone/serva tra maschio e femmina e quindi rifiuta tale rapporto anche in un eventuale rovesciamento dei ruoli; è importante perché nasce dalle pratiche di autocoscienza, rivendica rispetto, si sottrae all'angoscia del non essere amata o riconosciuta da un uomo e quindi di essere una fallita, una sbagliata, una che non esiste; ridà la parola ad un soggetto condannato da millenni al silenzio, e pone quindi le basi per il suo dialogo da pari a pari con l'esterno.
Similmente, "Il personale è politico" respinge la scissione tra diritti inviduali e diritti collettivi; riconosce che siamo sempre responsabili di quel che facciamo, sia che le nostre azioni si diano sulla scena pubblica sia che si diano nel privato della nostra abitazione e delle nostre relazioni personali; e rifiuta di attendere tempi migliori per affrontare le istanze relative alle donne: per tutti gli anni '70, le femministe si sentiranno dire da parecchi dei loro supposti alleati che sì, hanno ragione, ma non è ancora il momento, se ne parlerà dopo la rivoluzione - che è imminente, abbiate un pò di pazienza, perbacco, se non è per giovedì prossimo sarà per quello successivo...
La seconda ondata del femmismo provoca un'estesa discussione teorica sulle origini dell'oppressione delle donne, sulla natura del genere e sul ruolo della famiglia, e un fiorire degli studi storici di genere. Testi politici fondamentali come quelli di Kate Millett o di Germaine Greer, e in Italia di Carla Lonzi, vengono tradotti, ampiamente commentati, alcuni diventano best-seller. Si formano associazioni femministe dagli orizzonti più disparati, a volte anche in conflitto fra loro: ci sono gruppi che si fondano sulla convinzione che le donne non possano ottenere la liberazione se non attraverso lo smantellamento delle istituzioni sociali, gruppi che ritengono invece di dover entrare in quelle stesse istituzioni e modellarle diversamente; gruppi separatisti, inclusi gruppi lesbici separatisti, che sostengono la necessità di allontanarsi, almeno per un periodo, da una vita sociale e politica fatta solo a misura di uomo, e non di entrambi i sessi; gruppi fondati sul nascente "pensiero della differenza" che celebrano e rivendicano qualità associate alle donne quali la cura e la relazione.

Alla fine del XX secolo, i movimenti femministi europei, statunitensi, asiatici, africani e latino-americani cominciano ad interagire su basi stabili, specialmente durante gli incontri internazionali, sia autonomamente promossi, sia avviati da agenzie delle Nazioni Unite. Sottolineo che le agenzie in questione non sono nate spontaneamente, dalla buona volontà e dalla illuminata sapienza dei governi mondiali, ma grazie alla pressione che le donne hanno fatto perché le loro istanze fossero presenti alle Nazioni Unite. Nel luglio scorso, tra l'altro, le tre agenzie che si occupavano a diversi livelli delle donne sono state unificate, sotto la presidenza dell'ex presidente cilena Bachelet. L'interazione stabile fra i movimenti non è priva della difficoltà di comprendersi a vicenda, o del conciliare aspettative differenti, tuttavia ogni occasione di incontro registra entusiasmo e partecipazione sempre crescente. Se la "Conferenza internazionale sulle donne di Città del Messico", nel 1975, registra circa 4.000 partecipanti, il Forum delle organizzazioni non governative di Copenhagen del 1980 arriva a 7.000; se il Forum di Nairobi segna un record nel 1985 con oltre 16.000 partecipanti, la Quarta Conferenza mondiale sulle Donne di Pechino, nel 1995, lo supererà ancora contando alla fine circa 50.000 presenze (a fronte del fatto che le delegate ufficiali erano 6.000).
Alla fine del XX secolo il bilancio delle lotte delle donne è sicuramente positivo; le legislazioni, la vita sociale, il linguaggio, i costumi sessuali, le religioni organizzate: tutto ha subito l'influenza della questione femminista, tutto ha dovuto averci perlomeno a che fare, non fosse altro per denigrarla o contrastarla, ma la negazione della presenza attiva delle donne non è più possibile. Meno positivo è il bilancio riguardante la tenuta dei movimenti all'interno dei paesi europei e negli Stati Uniti. A partire dagli anni '80 parecchie circostanze, politiche e sociali, contribuiscono allo scioglimento di aggregazioni femminili o femministe; in Italia, in particolare, i cosiddetti "anni di piombo", ovvero le vicende correlate al terrorismo ed alla repressione, peseranno parecchio su tutti i movimenti per il cambiamento sociale, conducendo in molti casi alla chiusura di esperienze e gruppi. La generazione di femministe italiane precedente alla mia, a cui sono profondamente grata e che onoro per la creatività e l'intelligenza, non solo per i risultati ottenuti, per la maggior parte in questo periodo comincia a ritirarsi dagli scenari consueti: che erano le manifestazioni, le petizioni, le leggi di iniziativa popolare, i referendum, eccetera. Le ragioni sono svariate, dalla necessità di un cambiamento nelle pratiche alle scelte di vita, e sono tutte comprensibili; lasciano però un vuoto che avrà un suo peso e che verrà criticato dalle femministe della cosiddetta "terza ondata".

La terza ondata emerge a metà degli anni '90. È guidata dalla "Generazione X", più esattamente la Generazione Xers - un modo di dire X-Lei-plurale non facilmente traducibile. Sono le donne nate nella seconda metà degli anni '60 e nei '70, quelle che hanno beneficiato dei diritti legali ottenuti con così grande fatica dalle loro madri reali e simboliche, e soprattutto del cambiamento di "atmosfera" nei loro confronti mentre crescevano da bambine a donne. Hanno avuto modelli positivi di riferimento, hanno avuto a disposizione libri e film e in genere prodotti culturali influenzati dal concetto di "parità" e poi di "pari opportunità", hanno potuto studiare e le aspettative nei loro confronti sono state diverse dal diventare solo mogli e madri. Naturalmente questo è accaduto non dappertutto e non sempre. In Italia la "terza ondata" è stata scarsamente visibile come collettivi anche se ha prodotto delle individualità di spicco in ambiti di attivismo non direttamente femminista, mentre in Gran Bretagna ha raccolto le femministe di colore e varie immigrate di seconda generazione (Southall Black Sisters, solo per fare un nome). Le donne della "Generazione X" sono consapevoli delle barriere che il sessismo, il razzismo e il classismo, e cioè gli "ismi" del dominio, pongono alla loro esistenza e a quelle altrui, e scelgono di contrastarli rovesciando i loro simboli, combattendo il patriarcato con l'ironia, rispondendo alla violenza con la nonviolenza: portando per esempio in scena storie di vita in cui la violenza viene sconfitta e trasformata, e lottano contro le discriminazioni di ogni tipo impegnandosi in uno spettro di cause che va dall'ambientalismo al lavoro. Se in parte, nella seconda ondata, c'era l'idea di entrare nella "macchina" del sistema e cambiarla dall'interno, la terza ondata crea situazioni in cui allo stesso tempo cerca di sabotare la macchina e di ricostruirla. Un esempio di attivista della terza ondata è sicuramente Eve Ensler, l'autrice de "I monologhi della vagina", un'esplorazione dei sentimenti delle donne sulla sessualità, l'orgasmo, lo stupro, la nascita, che da libro è diventato testo teatrale e come testo teatrale viene ancora rappresentato in tutto il mondo durante i cosiddetti V-day (mi spiace per Grillo, ma Ensler ha usato questa dicitura molto prima di lui). Gli happening, oltre a coinvolgere il pubblico ad un livello molto profondo, e a portare all'attenzione dei media il problema persistente della violenza di genere, servono a raccogliere fondi per le associazioni femministe locali, con i quali esse poi aprono rifugi, centri per la salute riproduttiva e così via.
Sul piano concettuale, le intellettuali della terza ondata sono state influenzate dal post-modernismo: basti pensare che il concetto di "liberazione sessuale" viene in un certo senso espanso, diventando un processo in cui dapprima si diviene consci dei modi in cui l'identità di genere e l'espressione della propria sessualità sono stati modellati dalla socializzazione, e poi scientemente si costruisce una propria identità di genere e si diventa libere e liberi di esprimerla. Sul piano della cultura popolare, la terza ondata ha creato il cosiddetto "girl power", promuovendo una figura di giovane donna assertiva, fiduciosa in se stessa e a proprio agio con la sessualità, che per un pò si è vista in gruppi musicali e programmi televisivi, ed ha funzionato persino come icona commerciale. Già nel 2000, però, vi era chi dichiarava (dall'interno e dall'esterno) l'esperienza della "terza ondata" ormai esaurita; dieci anni più tardi direi che probabilmente ora è vero, anche se alcuni lasciti, di idee e di azioni, persistono. La grande forza della terza ondata fu anche la sua intrinseca debolezza: nel senso che si è trattato di un movimento così plurale, sfaccettato, comprendente persone di etnie diverse, di provenienze diverse, di classi sociali diverse, di interessi diversi, da trovare difficoltosa una vera unificazione sotto la dicitura comune che era "gruppi ed individui che lavorano per la giustizia di genere, la giustizia razziale, la giustizia economica e la giustizia sociale". Obiettivo bellissimo, ma spesso le "giustizie" nominate arrivano a confliggere se non sono disposte o non sono capaci di trasformarsi al contatto con le altre, e così è stato.

La quarta ondata è attualmente in gestazione nei paesi europei e negli Stati Uniti, cioè non è ancora visibile nè ben definita, anche se ha già dato buona prova di sè nelle periferie parigine (penso alle giovanissime migranti del gruppo "Nè puttane nè sottomesse"), ma in Asia, Africa, Medio Oriente, sta già emergendo con chiarezza sufficiente ad una prima descrizione. È un femminismo pragmatico, concretissimo, e le sue leader sono donne che in maggioranza hanno meno di trent'anni, e che spesso vivono in contesti che definire atroci è poco. Portano avanti le loro lotte, in cui tengono insieme la necessità della sopravvivenza e quelle del rispetto e della dignità umana, in mezzo a guerre, regimi oppressivi, siccità, fame, disastri ambientali e così via. Il punto chiave del loro pensiero sembra, almeno fino ad ora, la "lente di genere". Sono consce che il genere si riferisce a donne ed uomini ed ai ruoli loro assegnati, affermano che i punti di vista, i valori e le esperienze delle donne e degli uomini presentano differenze, e che entrambe le voci devono essere ascoltate. Si tratta di qualcosa che va al di là della percezione statistica o tecnica del "genere"; ad esempio non concerne semplicemente quante donne ci sono nei Parlamenti, ma cosa queste donne dicono e come queste donne agiscono. La partecipazione delle donne alla vita sociale, economica e politica viene descritta non solo come un diritto legittimo, ma come una necessità imprescindibile a trasformare le situazioni in cui queste donne vivono, a fermare le guerre, ridisegnare gli interventi ambientali, ridistribuire le risorse, arrestare la diffusione del virus Hiv, sconfiggere la fame, eccetera. Sono anche assai consapevoli di trattati e convenzioni che a livello internazionale promuovono la loro stessa visione, dalla Cedaw, la Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, che è del 1979, alla risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che riconosce il ruolo chiave delle donne nelle risoluzioni dei conflitti. Parlano di diritti umani, e ne chiedono il rispetto per se stesse e per i loro figli e figlie, avendo ben chiaro che la Dichiarazione del 1948 non è un prodotto occidentale, ma è stata divisata e firmata dai loro stessi paesi. Sono in rete, nel senso che usano quanto più è loro possibile tutte le tecnologie a disposizione. A volte può essere difficoltoso per loro persino accedere ad un computer, ma come ce l'hanno sotto le dita aprono un sito, formano una coalizione e si mettono in collegamento con le altre coalizioni già esistenti. C'è un volume enorme di materiali in rete, e c'è il costante tentativo da parte di queste donne di essere viste e sostenute dalle loro "sorelle" occidentali, cosa che fino ad ora è accaduta a livello sporadico. Ma nel futuro c'è sempre speranza.

Chiudo, perché ormai è abbondantemente il momento di farlo. Cos'abbiamo guadagnato, come donne italiane, dalla prima rivolta in Campidoglio ad oggi? Moltissimo, come avete visto, e non starò a ripetermi. Cos'abbiamo perduto? Abbiamo perduto un pò la memoria, e grazie ancora per avermi consentito qui di rinfrescarla per quel che ho potuto; abbiamo perduto parecchio il senso di prossimità, di vicinanza, di simpatia per le nostre simili, ma questa non è tutta colpa nostra: poiché siamo esseri umani reagiamo alle tendenze presenti nell'ambiente in cui viviamo come tutti gli altri, e il clima attuale, che è stato preparato da circa trent'anni di propaganda, e che propugna un'atomizzazione spinta degli individui accoppiata alla percezione dell'altro o dell'altra solo come pericolo, fastidio o attrezzo da usare per la propria soddisfazione o ascesa, ha ovviamente influenza su di noi; siamo a rischio, ma non abbiamo ancora effettivamente perduto, per quanto riguarda le legislazioni che garantiscono i nostri diritti di salute riproduttiva e sessuale, il nostro diritto di non essere molestate o assalite, la nostra vita lavorativa, la possibilità di amare chi vogliamo e di vivere con chi vogliamo: in questi campi ci sono stati dei passi indietro ma gli impianti fondamentali sono ancora lì, e se reagiamo con forza a difenderli sradicarli sarà impossibile. Ma la cosa forse più importante che credo dobbiamo riprendere a fare, anche inventandoci nuovi modi, adattando le risposte alle situazioni e così via, è sognare in compagnia, sognare in grande, sognare un sogno allargato, che arriva all'orizzonte e che comprende tutta l'umanità, tutti gli esseri viventi, l'intero pianeta. Prima di realizzare qualsiasi cosa nella vostra vita, l'avete sognata, desiderata, immaginata. Sono sicura che avete in mente anche il mondo in cui vi piacerebbe vivere. Non tenetevelo per voi, dividetelo con le altre donne. Se lo farete, ci sono buone probabilità che riuscirete a viverci. Con loro.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo