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Il disagio violento delle città (Codrignani Giancarla)

Pubblicato su “Notizie minime della nonviolenza”, n. 209 del 11 settembre 2007


Bisogna che ci guardiamo dentro, perché, se stiamo male nelle città, è anche perché non ce ne chiariamo le ragioni.
Si è fatto un gran rumore mediatico su iniziative del governo come se davvero i ministri non sapessero quel che si dicono. È ovvio che ci sono leggi e leggi e che nessuno pensa che il colluso di mafia o l'evasore siano analoghi a lavavetri e graffitari, magari con l'aggravante che i primi non andrebbero in galera e gli altri sì. Forse bisognerebbe riflettere sugli anni impiegati per cacciare Previti dal Parlamento o sulle difficoltà di abrogare la legge Cirielli, per dare le responsabilità del sostegno alla corruzione a chi effettivamente se ne fa responsabile...
Faccio questa premessa perché sono preoccupata, da nonviolenta che ha sempre fatto politica con il senso del limite di vivere solo nel 2007 d. C., del livello di violenza che sta crescendo - e non solo in Italia - all'interno delle nostre città e, perfino, delle nostre famiglie. Con qualche competenza delle conseguenze che trae con sè ogni fenomenologia bellica, potrei far ricadere tutte le responsabilità sulla guerra che, anche come forma di competitività, di ambizione, di rabbia, di intolleranza, ci assedia da ogni parte. Ma non mi va.
Non c'è continuità o almeno contiguità tra privato e pubblico, come si diceva in anni lontani? Possiamo prevenire la crescita dell'odio e della violenza? a Bologna il domenicano p. Paolo Garuti ha abbandonato l'assemblea del Quartiere in cui il Comune intende concedere il permesso di costruire una moschea perché gli interventi del pubblico "sono stati davvero di tipo razzistico... come discutere con qualcuno che giustifica il matricidio...
C'erano gli estremi per la diffamazione". Che "difesa" è quella di chiedere l'esclusiva della propria identità "contro" quella - di per sè non colpevole - di altri? Si sta già chiamando la guerra...
Quindi, siamo davvero buoni quando ce la caviamo con un euro dato al lavavetri (pur sapendo dell'esistenza dei racket)? Siamo giusti quando chiediamo la legittimazione della prostituzione? Andrebbe forse bene la "professione" di lavavetri per nostro figlio o l'"esercizio" della prostituzione per nostra figlia? In nome della pari dignità, i più poveri hanno diritto ad un lavoro dignitoso e ad un domicilio sicuro: lavare i vetri è accattonaggio. Allo stesso modo i gentiluomini che raccattano corpi sui viali non rimediano, schiavizzando per un pò una donna, alla propria mancanza di dignità.
Per dare lavoro e case bisogna essere generosi e disposti a quella condivisione che può assumere lo sgradevole nome di "tasse". Altrimenti non è questione di "tolleranza zero", ma di incapacità a farsi responsabili della convivenza civile. Per troppi, anche giovani e di sinistra, la legalità è una brutta parola (e Genova ne avrebbe rappresentato la dimostrazione, mentre fu violazione della norma istituzionale).
Le nostre città sono piene di malessere perché stiamo perdendo il senso del vivere da umani. In molti non ce ne accorgiamo: usiamo la macchina senza calcolarne, anche rispetto la quantità dei gas di scarico, l'effettiva necessità; andiamo in bicicletta sotto i portici; non raccogliamo la cacca del nostro cane e abbandoniamo gli animali quando ci danno fastidio; lamentiamo disagi relativamente modesti dei servizi pubblici e per converso, se ci lavoriamo, non siamo così attenti nell'osservare i doveri del lavoro; abbiamo dimenticato che quarant'anni fa eravamo migranti e subivamo le esclusioni delle vecchie mutue; sono aumentati i delitti in famiglia e donne e minori sono sempre più le vittime... Ci siamo corrotti, anche senza volere, ad opera del maggior benessere, del consumismo, della politica populista.
Ma il mondo giovanile preoccupa di più. Ovviamente non si tratta di generalizzare; ma sono troppe le tendenze più o meno potenzialmente violente: ogni città conosce il fenomeno delle bande, i bulli sono sempre più numerosi anche nelle scuole, gli atti di vandalismo e i piccoli furti non si contano, gli stadi sono luoghi pericolosi e non di svago, il sabato sera registra vittime dell'incoscienza; cresce il consumo di droghe più da sniffare che da buchi, meno controllabili; l'"isola dei famosi" suggerisce violenze non solo verbali...
Allora è sull'educazione che bisogna impegnarsi, prima che il disagio devasti anche le famiglie. Le quali famiglie nutrono i loro pargoli a merendine e play station violente, telefonini e orrende scarpe firmate; e alla scuola chiedono buonismo e promozioni. Sembra che in molte case non esistano regole e che un eccesso di protezione renda i giovani incapaci di sostenere fatica e dolore. E irrimediabilmente diseducati alla realizzazione di sè e alla convivenza.
Il problema torna alla scuola, l'istituzione che la Costituzione privilegia come diritto fondamentale alla formazione della comune cittadinanza. Se non si fa prevenzione da mali sociali maggiori a livello educativo - che si tratti di ragazzi europei o stranieri -, non resterà che reagire con le misure di legge davanti ai reati, sia pur minori, commessi da ragazzi, italiani o stranieri. Nessuno ha detto di mettere in carcere senza reati; e, anche se a Treviso un tale, pur investito di responsabilità istituzionale, pensa alla pena di morte, non siamo forcaioli. Per chi fosse nonviolento tutti i luoghi educativi, a partire dalla scuola, sono luoghi formativi di pace, parola spesso sprecata se non perseguita come progetto di vita comune, individuale e sociale. I violenti sono quasi sempre ignoranti. E oggi nessuno può più permettersi di essere ignorante. Le "materie" scolastiche non bastano ancora a strutturare la mente affinché sia all'altezza di "leggere" la complessità dei sistemi moderni. Le nuove tecnologie hanno cambiato il rapporto con la vita, le persone, le cose. Gli inglesi sperimentano le chimere: è il livello di responsabilità a cui la scienza attende i giovani. Invece, non siamo all'altezza e non servono le deprecazioni.
Secondo don Milani i ricchi fregavano i poveri perché sapevano più paroledi loro. Oggi anche i ricchi che non vanno al Mit rischiano: i giovani che hanno trascorso più ore davanti alla Tv che a scuola, si inchiodano davanti a parole comuni loro sconosciute così come ai problemi matematici complessi; e desiderano partecipare al "grande fratello" o diventare veline.
Per giunta le espressioni più comuni sono non trasgressive, ma violente.
Attrezzare la mente a "capire" significa recuperare senso di sè, di capacità di convivenza, e, anche, felicità. Antidoto a quella violenza che nasce dalla disperazione di cui certi muri sono inquietante segno.