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Faxum magnum della Traversa (didascalia narrativa)

Ailanti
O l’uomo, o l’albero. Questo il senso della storia della terra ha scritto Savinio, annotando la progressiva scomparsa di piante nella macchia di Poveromo di contro all’aumento di case.

Ma davvero è così? Davvero deve essere così?

So, invece, che le pinete del litorale sono artificio umano ed immaginare che quel luogo magico, dove pioveva sulle tamerici sparse, è dovuto all’uomo può essere dissacrante, ma solo per chi crede che la poesia sia nella natura e non nell’uomo.

Ho visto, infatti, con i miei occhi che la furia della natura ha distrutto in una notte molti più alberi che non l’uomo in tanti anni. Certo di ciò poi gli uomini hanno approfittato, ma sono uomini che non hanno più la cultura dell’albero.

Quella cultura che una volta c’era e che nessuna festa dell’albero, a cui ogni bambino è stato assoggettato, è riuscita purtroppo a ristabilire e che invece è necessario saper conservare.
Una cultura che ho ritrovato nei bellissimi regolamenti ottocenteschi che trattavano con pignoleria di come intervenire nei boschi cedui, negli editti delle bandite create dai principi rinascimentali per difendere i boschi, nei disegni da Enciclopédie che illustravano i metodi per trattare i polloni e per piantare i “novelli”.

Conosco poi le selve di castagni, e gli uliveti, e gli agrumeti che i nostri vecchi, e prima ancora di loro i nostri padri, hanno strappato ai pendii delle Apuane, e nel sussidiario leggevo che un solo albero poteva ospitare tra i suoi rami e le sue radici anche cento animali e che le foreste davano ossigeno alla terra.
Del resto già nella storia si ritrovano le prove dell’intervento distruttivo dell’uomo, come quando sui nostri monti per far carbone per il ferro si distrussero tutte le faggete, o come quando, a livello più generale, oggi si denuncia che l’uomo sta rovinando i polmoni della terra.
Ma mi preme parlare soprattutto dell’albero che offre un qualcosa all’uomo, un qualcosa non di concreto, perché di esso già si sa tanto, e dei frutti e del suo legno e del suo ossigeno, ma un qualcosa di spirituale, un insegnamento etico.

Gli alberi, infatti, che dalle radici si innalzano al cielo aggrappati alla terra, nel loro silenzio stanno lì, come i più grandi maestri del pensiero, ed urlano all’uomo “guarda le stelle, aggrappati alla terra”.
Albero del cielo, albero del sole, albero del paradiso son tutti nomi dell’Ailanto, ma per me sono il nome proprio di tutti gli alberi.

Perché l’albero sta, rappresenta veramente l’essere, addirittura l’essenza, un qualcosa di sacro, e più di lui possono stare solo le montagne.

Per questo è davvero grande tragedia vedere un albero divelto, un tronco ormai nudo diroccato nell’alveo di un fiume, vi si percepisce davvero la fine dell’essere.
Mi piacciono gli alberi anche perché come gli uomini tendono a stare insieme e formano così i boschi dove i grandi proteggono i piccoli e tutti son solidali insieme. E nei boschi crescono alberi di tutte le culture tra loro mescolati, mentre le selve che fa l’uomo sono più razziste e riproducono spesso solo una specie. Ma pure è vero che anche il clima e l’altitudine portano di per sé alla monocoltura.
Poi ci sono gli alberi isolati, dispersi, solitari, quelli che mi affascinano. Io li vedo come gli eroi ed i miti dell’uomo.

I nostri alberi più magici li trovi su, in alto, verso le cime dei monti. Si abbarbicano nei dirupi più inaccessibili, sembrano un affronto alle possibilità di vita, le loro radici si intersecano nella terra, si infilano nelle fessure della pietra, per riuscire a reggere, sono spazzati dai venti, distrutti dal variare delle temperature, vengono su così, tutti storti, nodosi… come li assomiglio ai nostri vecchi! Quei cavatori curvi, asciutti e spigolosi che si vedono nelle fotografie d’inizio Novecento. Così sono gli alberi solitari soprattutto nel versante marino delle nostre montagne che è più scosceso ed impone più fatica, più sacrificio, per ogni esistenza, sia pianta, sia uomo.

Ogni anno vado a trovarlo un albero di quel tipo, il mio sta alla Traversa, su uno sperone di roccia, nel canale Fondone, sotto al Monte Grondilice. E’ un faggio ormai immenso, forse il nipote di uno di quei “faxum magnum”, o “faxum elevatum”, che sui monti costituivano i termini degli antichi circondari delle nostre comunità. Ne sono innamorato, una volta, tanti anni fa, riuscivo ad abbracciarlo, oggi non più, essendo cresciuto a dismisura. Ma lui non se ne duole e come sempre, soprattutto all’imbrunire, quando mi ci sdraio accanto, continua dolce, in silenzio, con i suoi rami, a parlarmi del cielo. E mentre lui spiega io mi perdo a contare le sue foglie che, essendo come le stelle infinite, mai sono riuscito a finire...


(testo e foto gennaio 2002, la foto è una dia 6x6 hasselblad, pellicola epr 64 asa, convertita in digitale agosto 2012, ma la la sua bellezza è irriproducibile da qualsiasi conversione)