• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Sopperire

Io vesto dimesso, mia moglie mi rimprovera sempre dei miei abiti modesti. Io rispondo che non conta la veste e che si tratta più propriamente di umiltà, che è una virtù. Anzi del dimesso mi avvantaggio, come il tenente Colombo col suo impermeabile. Anch’io ho avuto del resto un impermeabile simile, direi identico, beige e corto, di un tessuto che non si sporcava mai. Lo portai da 20 a 45 anni, poi mia moglie lo buttò a mia insaputa, e per il mio bene, perché era troppo sgualcito e liso. Piansi per sei mesi, di nascosto, perché non volevo far capire che piangevo per un impermeabile. Mia moglie non è cattiva, quando avvertì il mio dolore me ne regalò uno nuovo quasi identico, ma non era lui... Come per Colombo a presentarsi dimessi ci si guadagna perché gli altri abbassano le difese immunitarie, dato che non ti considerano pericoloso. Ma dopo che ho detto tre parole mi guardano subito con preoccupazione (scherzo!), direi meglio con ammirazione e gli amici infatti mi canzonano che vien d’istinto di chiamarmi professore.

Io preferirei invero maestro.

Recentemente ho tenuto un incontro sulla Resistenza (materia che padroneggio e attività a cui sono uso da tempo), a tre classi medie ed una superiore, in totale cento ragazzi che hanno seguito in assoluto silenzio, senza addormentarsi. Io ho parlato a braccio, ma in verità le cose le so ormai a memoria. I loro professori ed il dirigente didattico alla fine sono venuti a complimentarsi (mentre all’inizio mi avevano inquadrato con sussiego), e rivolti ai loro ragazzi hanno appellato la mia relazione come esemplare e me come professore.  Potenza della correttezza e concretezza delle parole, delle regole sintattiche non più usate, della consecutio temporis che nessuno sa più cosa sia.

Ho declinato io semplicemente.

Tanti anni fa  (avevo ancora l’impermeabile di Colombo), stavo seduto in una panchina della piazza centrale della mia città accanto ad un prete, anziano, ma non vecchio, e direi robusto (in base alla stretta di mano che alla fine ci scambiammo). Anche lui indossava un impermeabile corto, ma nero. Io leggevo il Manifesto. Non credo che sia stato io a sedermi accanto a lui con il Manifesto, non ero e non sono un provocatore, molto probabilmente fu lui a farlo per il bisogno che hanno certi preti di avvicinare i giovani,  non intendo in senso blasfemo, intendo per ascoltarli, per capire.

Davanti a noi, d’improvviso, una donna andò in escandescenze, ma non con noi, con se stessa e con il mondo intero. Fu un moto di pazzia ricco di offese, imprecazioni e bestemmie.

Il prete mi guardò interdetto, ma muto (che non può che essere così, perché lo stupore fa rimanere senza parole, tronca cioè il dire, o la voglia di dire).

Parlai io d’acchito, comprendendo il suo interrogativo, e lo feci in modo serio e pacato:

“La legge 180 ha chiuso i manicomi, ed i cosiddetti matti alla fine sono stati così affidati alle piazze, uno ad ogni piazza. È un metodo tutto nostro, italiano. In verità la legge prevedeva che si sopperisse in altro modo, con strutture diverse quali ad esempio le case famiglia”.

“Cosa insegna?” - mi chiese il prete, che con mia meraviglia aveva saltato la prima domanda, “Lei è un professore?” (ma i preti sono sempre un po’ più avanti degli altri).

Anch’io interdetto lo guardai, ma l’interdetto lo feci, non lo rimasi, per spingerlo a continuare.

E lui:

“Ha usato il sopperire in modo perfetto, non è da tutti”.

Allora io mi spiegai:

“Più che insegnare, cerco”.

Ed il prete sorridendo:

“Anch’io! Ma la ricerca è difficile, e per di più tutti si aspettano molto da me, io sono un vescovo. Il vescovo della città”.

Al che io:

“Il suo problema è davvero serio”.

Vidi che ci pensò un attimo su, se mi riferivo alla ricerca, al fatto che tutti aspettano, o all’essere vescovo.

Ma risolse in breve con un sorriso più largo, d’intesa:

“Sopperire. Trovare rimedio al bisogno, alla mancanza, alla necessità. Il compito è veramente profondo e difficile”.

Non infierii, anzi anuii, anch’io sorridendo.

Rivolsi di nuovo lo sguardo al giornale, lui ad un libro. Credo un breviario.

Quando ci alzammo, all’unisono per andar via, fu lui ad allungarmi la mano, e di non essere stato io mi sono pentito per tutta la vita. Proprio per penitenza io, non credente, da quell’anno vado una volta all’anno in chiesa, al Te Deum in Duomo, così faccio contenta anche mia moglie.

Oggi credo che nel mondo la necessità di sopperire alla pazzia stia emergendo con ancora più grande forza.

Massimo Michelucci
Maggio 2012