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La guerra ingaggiata dai paesi totalitari contro la libertà di informazione su internet costituisce la manifestazione ultima e spettacolare di un conflitto secolare, di una insofferenza di tutti i poteri costituiti nei confronti di chi agisce per rendere trasparente e controllabile il loro operato. È una vicenda lunga, accompagna la nascita dell'opinione pubblica moderna, che riesce a strutturarsi e a far crescere la sua influenza proprio grazie al ruolo della stampa. Qui è la radice di un processo che, insieme, dà senso alla democrazia e fa progressivamente emergere la stessa stampa come potere, il "quarto potere", al quale ne seguirà un "quinto", identificato nella televisione: poteri oggi unificati dal riferimento comune al sistema della comunicazione.

Parliamo della servitù di stampa. Alcune piccole notizie comparse sui quotidiani negli stessi giorni: a) licenziato in Cina il giornalista che ha segnalato l’assassinio da parte dei poliziotti di un giovane rinchiuso in un istituto perché diventato «dipendente» di internet; b) un giornale dell’esercito Onu afferma che in Afghanistan si schedano i giornalisti «buoni» e «cattivi»; c) la moglie (d’origini italiane) del giornalista iraniano-canadese ringrazia il governo italiano per l’interessamento nei confronti del marito, arrestato in Iran perché raccoglieva notizie sulle elezioni; d) in Borsa si guarda con attenzione agli acquisti di azioni delle Generali da parte del «più famoso costruttore italiano, il cavaliere del lavoro Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader centrista Pier Ferdinando Casini e proprietario di un robusto impero editoriale». Virgolette dei mass media.

Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata.


Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario.
Il problema italiano non è Silvio Berlusconi.
La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità.
È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale.
Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine".
Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere.
È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa.
La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice.
Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto.
Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe.
Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento.
Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli.
Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto.

Fonte: Daniele Terzoni

Forse ci salverà l'eccellenza italiana del documentarista costretto all'esilio in Svezia, Erik Gandini, e il trailer proibito del suo Videocracy. Gandini è un cineasta illustre in tutto il mondo (solo in Italia, grazie al nostro servizio pubblico che ha portato avanti la soluzione finale contro l'immaginario creativo non si conosce). Ma credo che questa volta non solo il pianeta, ma perfino la società civile del nostro paese seppellirà con una grande risata il Golia mono-media alle prese con il Davide-trailer Fandango. Il contraddittorio e il pluralismo non si applicano a satira e documentari. Se sono tali hanno il contraddittorio e il pluralismo dentro se stessi. Ma a un trailer? Un contraddittorio per ogni spot vuol dire solo distruggere il servizio pubblico. È questo che vuole la tv commerciale e i suoi avvocati in parlamento?


Una volta la Cia costrinse la Rai, dopo Sangue di condor di Sanjines trasmesso in prima serata, a far parlare per un'ora un funzionario dell'ambasciata Usa per spiegare che non c'era imperialismo, che non si finanziavano i colpi di stato nel cortile di casa, che non si sfruttavano i lavoratori boliviani. Quell'intervento resta negli annali cult della tv comica, come il Saturday Night Live. Ma di Sanjines si è perso memoria. Però.
È pericoloso proibire ogni ricerca di verità, ogni critica, ogni dissenso, ogni concerto di Madonna, ogni informazione «clandestina», ogni corpo «irregolare», sia rom, nero, checca, sciita o homeless. Eliminare gli artisti e i documentaristi di profondità come Gandini (Guantanamo, Che Guevara) uniformando l'offerta. Infantilizzare i cittadini o bromurizzarli con le varie leggi Mammì che insegnano perfino al marchese De Sade come si seviziano davvero i corpi (film). Cancellare dal servizio pubblico ogni documentario e ogni Report. Produrre fanatici in proporzione industriale, meglio se razzisti e «matti», come Svastichella o Insabato.
Vecchio spettro congelato in cantina il maccartismo, che riuscì a convincere il mondo bene che Franklin D. Roosevelt era comunista, perché sapeva che era molto più pericoloso) viene da decenni riesumato dalla parte peggiore dell'Impero (quello che opera ancora demodé colpi di stato in Honduras) e svenduto ai paesi da sottosviluppare per studiarne circoscritte resurrezioni e cancellare ogni cultura e ogni opposizione viva. Il dissenso, quando non è slealtà, è il sale della terra. Certo, in Italia ci sono sempre le quarte colonne, ma basterebbe intrufolarsi nei segreti delle banche svizzere.
Lentamente, lentamente, anche l'Italia del mono-media si è convinta, a forza di leggi di destra e di programmi elettorali di sinistra, che la cultura, cioé è un peso finanziario obsoleto, che la ricerca non dà profitti immediati, che è molto democratico e riformista proibire il dissenso, i fischi, lo sberleffo e le lotte (la violenza va favorita e spalleggiata solo negli stadi e nei night club, per cacciare il pubblico dagli spalti e dalla «notte», stiparlo nelle monovillette stile L'Aquila post-terremoto, e vendere i diritti tv delle partire e del sesso truccati a tutti: ma non ci riprovino gli operai...), ammanettare chi scrive sui muri (il 68-77 ancora non fa dormire i nipotini di Fini e Craxi). Ed è stata convinta a giudicare straordinariamente «noioso» o soporifero (da autorevoli pagine del Corriere della sera) il Tg3, che è l'unico tra tutti i tg pubblici o commerciali a non «parlare d'altro», ad avere una tensione emotiva, informativa e comunicativa non standardizzata né soggetta a ordini dall'alto; cacciare Santoro e probabilmente presto espellere la Littizzetto, o, come Luttazzi, confinarla nei «teatrini» che tanto presto chiuderanno, a meno che non accettino «contraddittorio». Senza Bondi niente Shakespeare?
 
La Rai censura il trailer di Videocracy. «Un film sulla cultura televisiva in Italia, non scindibile da Berlusconi», dice il regista. Per viale Mazzini «non viene rispettato il pluralismo». I consiglieri del Pd: «C'è un disegno, intervenga il cda»
Videocrazia in onda
Micaela Bongi
Eccola qui, la videocrazia nell'era di Silvio. La Rai non ha nessun problema a confermarlo, anzi. Il trailer del film di Erik Gandini Videocracy, appunto, già rifiutato da Mediaset (protagonista della pellicola), perché «lesivo delle prerogative della tv commerciale», non potrà andare in onda nemmeno sugli schermi della tv pubblica. Il film sarà a Venezia, non nella selezione ufficiale ma nella Settimana della critica, e uscirà nelle sale il 4 settembre. Però l'ufficio legale di viale Mazzini, non nuovo a cercare improbabili cavilli per giustificare iniziative censorie dietro input berlusconiano, soprattutto nel lungo periodo in cui è stato diretto da Rubens Esposito, esagerando al massimo uno zelo già eccessivo ha deciso di oscurarlo. Motivo: il trailer non è «informato al principio del contraddittorio» che deve essere rispettato «anche in periodo non elettorale».
Argomentazione ridicola, che viale Mazzini cerca di avvalorare richiamandosi agli indirizzi della commissione di vigilanza, a quelli dell'Authority per le comunicazioni, al contratto di servizio e pure al Codice etico aziendale. Nella nota diffusa ieri dalla direzione generale della Rai (il dg Mauro Masi in privato sostiene di aver appreso della decisione da Repubblica , eppure facendosi scudo con l'ufficio legale la conferma), si arriva a ricordare che i citati testi sacri impongono che «i messaggi pubblicitari siano leali, onesti, corretti e non contengano elementi atti ad offendere le convinzioni morali, civili e politiche dei cittadini e la dignità della persona umana», nientemeno. E dire che, per evitare di offendere chissà chi (uno solo: Silvio), la Rai aveva fatto una bella proposta alla Fandango, che distribuisce il film, «nel massimo spirito di collaborazione»: sì alla trasmissione del trailer, ma solo «nell'ipotesi in cui la società produttrice avesse assicurato il rispetto dei principi essenziali del contraddittorio e del pluralismo informativo». Forse la Fandango avrebbe dovuto aggiungere il commento di Sandro Bondi alle immagini di veline e tronisti, a quelle di Lele Mora o di Silvio Berlusconi sugli spalti delle celebrazioni per il 2 giugno che compaiono nel montaggio. E invece «nessuna adesione allo stato attuale è pervenuta dalla società che quindi non ha messo la Rai nella condizione di poter trasmettere lo spot».
Insomma, tutta colpa di Domenico Procacci, al quale l'azienda ha spiegato che il trailer «veicola un inequivolcabile messaggio di critica al governo» e ripropone la questione del conflitto di interessi. Non solo: poiché mostra «immagini di donne prive di abiti» richiama «le problematiche all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso» (sempre Silvio), facendo magari pensare che già in passato, quando era solo un imprenditore televisivo, il premier avesse «tali caratteristiche personali». Sembra satira, anche perché di fatto la Rai conferma che «tali caratteristiche» Sua emittenza almeno attualmente le possiede.
A questo punto i consiglieri d'amministrazione del Pd, Nino Rizzo Nervo e Giorgio van Straten, intendono portare la vicenda al primo cda dopo la pausa estiva, il 9 settembre. Secondo Rizzo Nervo «sostenere il dovere di pluralismo negli spot è giuridicamente abnorme oltre che ridicolo». E questa censura «dimostra con chiarezza che sulla Rai vi è un preciso disegno di controllo e di annullamento delle libertà editoriali», cercando di «normalizzare» anche la terza rete. E Van Straten riferisce di aver parlato del caso anche con il presidente Rai Paolo Garimberti, che però è all'estero e ufficialmente non commenta.
Protestano invece a gran voce contro la «vergognosa decisione» la Federazione nazionale della stampa, il cui segretario Roberto Natale rilancia la proposta di una mobilitazione nazionale, e l'Usigrai. Il segretario del Pd Franceschini incalza: «Bisogna reagire all'assuefazione» e al tentativo di «imbavagliare Raitre», e mette il trailer di Videocracy sul suo sito. Mentre Pierluigi Bersani domanda: «Per Ombre rosse chiesero la replica agli indiani?». E Ignazio Marino insiste: il Pd non partecipi alla lottizzazione.

Fonte: Newsletter Mailing List Nazionale