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(Tratto da “La nonviolenza è in cammino”, n. 1362 del 19 luglio 2006)

La gente in Medio Oriente sta soffrendo di nuovo mentre militaristi di tutti i fronti, e giornalisti festanti, lanciano missili, bombe, e infinite parole di autogiustificazione per l'ennesimo inutile round di violenza fra Israele ed i suoi vicini. Per coloro fra noi ai quali importa molto della sofferenza umana, questo ultimo episodio di irrazionalità evoca lacrime di tristezza, incredulità per la mancanza di empatia da ogni lato, rabbia per quanto poco sembra si sia appreso dal passato, e momenti di disperazione mentre vediamo di nuovo gli ideali religiosi e democratici subordinati al cinico "realismo" militarista.
I sostenitori di ambo le parti, contenti di ignorare l'umanità dell'Altro, si affrettano ad assicurare ai loro collegi elettorali che la colpa è sempre del nemico. Tutti questi sforzi non hanno senso. Siamo in presenza di un conflitto che si è protratto per oltre un secolo. Ha poca importanza chi abbia accostato l'ultimo cerino alla pietra focaia. Quello che è veramente importante è come rimediare alla situazione. Il gioco del biasimo serve solo a spostare l'attenzione dall'argomento centrale.
Nel gioco del biasimo ce n'è per tutti. Dipende solo da dove fai cominciare la storia. Contando sulla generale mancanza di memoria storica, i partigiani dell'uno o dell'altro fronte scelgono di dar inizio alla narrazione dal luogo in cui essi sono "le vittime che hanno ragione" e gli altri "i malvagi aggressori".

(Traduzione di Maria Di Rienzo e tratto da “La nonviolenza è in cammino”, n. 1363 del 20 luglio 2006)

Nella gran mole di servizi giornalistici sulla più recente crisi in Medio Oriente ce ne sono un paio scarsamente posti in rilievo, che mettono in luce le azioni di alcune donne in Israele.
Stante il fatto che si tratta di un atto di considerevole coraggio, protestare nelle strade mentre i loro concittadini sono in armi, so che i sentimenti di questa manciata di dimostranti sono condivisi da molte altre donne israeliane e palestinesi che semplicemente non possono essere lì.
Negli ultimi trent'anni, per raccontare il Medio Oriente, ho parlato con moltissime donne (israeliane, palestinesi, arabe, ricche, povere) che non hanno fatto altro che dirmi quanto soffrissero per il numero apparentemente infinito di guerre nella loro regione.
Tamara Traubman e Ruth Sinai-Heruti, entrambe croniste del quotidiano israeliano "Haaretz", hanno concluso il loro articolo del 17 luglio scorso con queste frasi: "Più di 500 donne protestano a Tel Aviv contro i raid israeliani in Libano e a Gaza. Una dimostrazione di donne si è tenuta anche domenica mattina, accanto alla stazione ferroviaria centrale di Haifa, dove un missile di Hezbollah aveva colpito nelle prime ore della giornata, uccidendo otto persone". Le donne, aggiungono le giornaliste, "hanno dichiarato di star organizzando un nuovo gruppo di donne arabe ed ebree contro la guerra".
Rory McCarthy del britannico "Guardian", in una corrispondenza dello stesso giorno da Israele nota che: "Mentre le sirene continuano ad urlare, un piccolo gruppo di donne sosta davanti all'ingresso della stazione ferroviaria protestando contro gli scontri. Yana Knoboba, venticinquenne studentessa di psicologia, siede per terra tenendo un cartello con sopra scritto in ebraico: La guerra non porterà mai la pace. "Non vogliamo la guerra in Medio Oriente", dice Knoboba, "Vogliamo che Israele negozi per riportare a casa i nostri soldati e metta fine alla rioccupazione di Gaza.
Se è una questione in cui si deve dimostrare la propria forza, io penso che la forza sia costruire la pace, non fare la guerra".

Tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006

L'operazione militare israeliana "Piogge d'estate" ha riportato la guerra nella Striscia di Gaza e in Libano; a conferma che la guerra sembra sia diventata l'unico modo di affrontare le questioni internazionali. Ci sarebbero stati altri modi di rispondere al lancio di missili degli hezbollah, senza bisogno di polverizzare il Libano. Del resto, si può scatenare l'inferno sull'intera e indifesa popolazione civile del Libano per due soldati quando Israele da anni sequestra i palestinesi a migliaia, senza che nessuno apra bocca? Ancora una volta, percio', viene premiata la forza a scapito del diritto e della legalità internazionale, e di nuovo si paralizzano le Nazioni Unite, alle quali viene consentita solamente la legittimazione della guerra e non la sua prevenzione.
In realtà è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti e Francia su una risoluzione dell'Onu per la fine delle ostilità, ma senza una tregua; in pratica lascia ad Israele il tempo per "completare il lavoro". Così l'invio di una eventuale e futura forza multinazionale o internazionale di pace, (quella cui l'Italia ha detto di essere pronta a partecipare), rischia di diventare come la Nato in Afghanistan, in funzione esclusivamente anti-hezbollah (e anche anti-Siria).
Come non vedere che la quarantennale occupazione israeliana della Palestina costituisce la vera aggressione che impedirà sempre un qualsiasi accordo di cessazione delle ostilità o tregua o cessate il fuoco: in una parola, una pace minimamente equa e, quella sì, duratura?
Intanto l'uccisione di dieci o venti palestinesi al giorno, e fra questi donne e bambini, non scuote nessuno. Naturalmente il ministro della difesa israeliano ha rassicurato e tranquillizzato l'opinione pubblica internazionale informando che le sue truppe aprono il fuoco solo contro i palestinesi armati.

Articolo di Brenda Gazzar, giornalista indipendente, vive a Gerusalemme ed è corrispondente per "We News", tradotto da Maria Di Rienzo, tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006

Haifa, Israele. Nelle ultime settimane, Abir Kopty e Hannah Safran hanno protestato praticamente ogni giorno contro il conflitto in Libano e a Gaza.
Persino quando le temute sirene suonano, avvisando degli attacchi missilistici di Hezbollah, Abir Kopty, un'araba israeliana, e Hannah Safran, un'ebrea israeliana, restano sulle strade di questa città del nord, non lontana dal confine libanese, per chiedere al loro governo di fermare la guerra, di intraprendere negoziati e di scambiare i prigionieri.
Fondatrici di "Donne contro la guerra", gruppo che si è formato pochi giorni dopo l'inizio del conflitto tra Israele ed Hezbollah, le due pacifiste di lunga data fanno parte delle donne che tentano di mettere fine all'ultima ondata di violenza, che minaccia di investire l'intera regione.
"Non si tratta di chi biasimare di più, si tratta di fermare questa guerra", dice Kopty, portavoce di un'ong israeliana impegnata nella tutela dei diritti umani dei cittadini arabi del paese, "Non vogliamo vedere nessun cittadino ucciso da ambo le parti per una guerra evitabile. Non c'è alcun senso in quello che sta succedendo".